3.11 • PUR SEMPRE UN GENIO
Anche se, durante la giornata, i miei odiosissimi impegni con la scuola e l'harpastum mi avevano impedito di passare con Rei tutto il tempo che avrei voluto, ogni notte lui aveva aspettato che tutti fossero andati a dormire per scavalcare il davanzale della mia finestra e infilarsi sotto le coperte con me.
Il discorso iniziato al cimitero e mai finito, tuttavia, aveva lasciato qualche strascico. Non era mia abitudine lasciar cadere i discorsi nel vuoto, soprattutto quando di importanza così vitale; il tempo che avrei potuto passare con lui, però, era talmente poco che sarebbe stato un peccato sprecarlo in sterili discussioni. Perché, alla fine della settimana, lui se ne sarebbe tornato al tempio senza nessuna indicazione su come e quando avremmo potuto rivederci.
Non è vero, mi suggeriva una vocina nella testa, che mi coglieva in contropiede nei confusi istanti prima di addormentarmi, trovandomi spogliata di tutte le mie difese. Non vuoi riprendere l'argomento perché sai che, davanti a un suo secondo rifiuto, non potresti più far finta di niente, ma saresti costretta ad accettare la realtà che tanto faticosamente rifuggi da mesi: tu sei disposta a qualsiasi sacrificio per lui mentre lui, per te, non intende farne alcuno.
Era passata la mezzanotte e quindi era già sabato. Ci restava un'ultima notte. Allontanai con la forza ogni pensiero infausto e rimasi concentrata solo su di lui.
Aspettando che il sonno ci cogliesse abbracciati, gli carezzavo lentamente l'addome, il petto, le spalle. Con gli occhi chiusi indugiavo con la punta delle dita su ogni curva o rientranza del suo corpo, tentando di fissarne un ricordo tattile che, speravo, avrebbe potuto farmi sentire meno sola una volta che lui fosse andato via.
Il tonfo sordo che colpì la finestra della mia camera mi strappò di botto da quell'estasi pre addormentamento.
«Che cosa è stato?» domandai, cercando alla rinfusa i miei vestiti.
Rei si alzò dal letto, raggiunse la finestra e guardò di sotto.
«C'è Devon» disse.
«Dovete scusarmi» ripetè, per la cinquantesima volta, spostando nervosamente il peso da una gamba all'altra.
«Non preoccuparti» risposi, esasperata, invitandolo a sedersi sul divano.
«No, vado via, non sarei dovuto venire... se si sveglia tua madre...»
«Mia madre non c'è» lo rassicurai. «Sta' tranquillo».
Devon si passò una mano tra i capelli, continuando a lanciare occhiate fuori dalla finestra del mio soggiorno, come se si aspettasse di essere spiato da qualcuno.
«Devon» lo richiamai.
«Ho bisogno di parlare con lui» disse infine, volgendo lo sguardo verso Rei, che era rimasto defilato. «Mi dispiace per l'ora ma non potevo rischiare di essere intercettato da Yumi».
«Va bene, non preoccuparti» gli disse Rei, con le braccia conserte e la schiena poggiata contro lo stipite della porta. «Ti ascolto».
«Riguarda Dafni, lei...» bofonchiò. «Gli Equites stanno facendo qualcosa per salvarla?»
«Non è compito degli Equites occuparsi della sicurezza di una ex Sibilla» rispose, cauto.
«Sì ma... c'è la possibilità che Dafni non abbia commesso alcun crimine» ribatté Devon, a disagio. «Insomma, se quella notte, con me, non fosse stata lei ma la lamia... in quel caso... sarebbe ancora lei la Sibilla, giusto?»
«No» rispose Rei, «non possono coesistere due Sibille. Ormai ne è stata nominata un'altra».
Rimanemmo per qualche attimo in silenzio, nel tentativo di dare un senso a quelle parole. Dafni non avrebbe più potuto essere la Sibilla, poiché ne era stata nominata un'altra. Significava che Dafni era libera. Libera di andare a scuola, di avere degli amici e di condurre una vita normale. Libera di amare Devon.
«Perché nessuno sta facendo niente per liberarla?» domandò Devon.
«Cosa ti fa pensare che sia prigioniera?» gli rispose Rei, dopo un attimo di silenzio.
In che senso? Per carità, avevo dubitato anche io di lei. Ma era stato prima di scoprire che la vera Dafni era stata sostituta con un aberrante mostro disumano.
«È ovvio che lo sia» rispose Devon, offeso. «Altrimenti sarebbe tornata da me».
Rei, senza tradire alcuna espressione, si avvicinò alla finestra accostata e si accese una sigaretta.
«I suoi genitori sono Reazionari» disse Rei, guardando fuori. «E anche lei».
«Non è vero» rispose Devon, e Rei non aggiunse altro.
Lo sapevamo tutti e due. Io e Devon sapevamo entrambi che Rei non stava parlando a vanvera. Lui era stato tra loro. Era stato uno di loro.
«Tu sai dove si nascondono, vero?» gli domandò Devon, dopo qualche istante di esitazione in cui, chiaramente, stava combattendo contro l'impulso di mandare Rei a quel paese. «Sei stato nel loro quartier generale, non è così?»
Rei prese un tiro profondo e il fumo fuoriuscì dalla sua bocca rapido e sottile come una stilettata.
«Certo. Ci sono stato» rispose. «Ma non posso rivelarne la posizione».
«Perché?» domandò Devon.
«Perché una volta lasciato l'ordine viene rimosso il ricordo ed è impossibile recuperarlo. È la regola e nessuno ne è immune».
Devon sembrò fiaccarsi, come un palloncino sgonfiato tutto insieme.
«Deve esserci un modo».
«Il modo è diventare Reazionario» tagliò corto Rei.
«O leggere nella mente di qualcuno che lo è» intervenni, ed entrambi si voltarono a guardarmi.
«Anche le loro menti sono protette da un incantamentum, ovviamente» mi rispose Rei. «Non c'è verso, ve l'ho detto».
Devon si lasciò cadere sul divano e io mi affrettai a sedermi accanto a lui.
«Dafni è stata abbandonata da tutti» disse, prendendosi la testa tra le mani. «Non posso abbandonarla anch'io. Devo salvarla».
«Lei non ha alcun bisogno di essere salvata» ripetè Rei, e io mi domandai da dove venisse tutta quella sua sicurezza.
La Clement, che occupava la camera degli ospiti, si materializzò ai piedi delle scale in quel preciso momento, avvolta in quella che forse era una vestaglia, forse uno dei suoi strambi vestiti. Capirne la differenza sarebbe stato impossibile.
«Non volendo, ho ascoltato la vostra conversazione» disse, col suo solito tono svampito che, in qualche modo, avevo cominciato ad apprezzare.
«Stavamo andando via» le rispose Rei, cordiale.
«Li accompagno un attimo fuori» dissi, spintonando Devon verso la porta.
«Mi dispiace, ora per colpa mia deve andare via anche lui» mi sussurrò, una volta fuori.
«Non ti preoccupare» gli risposi. «Devon, io voglio aiutarti in questa cosa. Però devi promettermi di non lasciarci di nuovo, va bene?»
«Barba di Giove, Ania! Lo scorso anno ero stato maledetto dalla lamia» rispose, offeso. «Non ero io».
«Lo so, lo so» mi affrettai a rispondere. «Ma lei ha sempre avuto uno strano effetto su di te. Io vorrei che tu rimanessi lucido».
«Va bene» concesse, e io lo abbracciai sbrigativamente. «Ci vediamo a scuola».
«A domani» mi disse Rei sorridendo appena, con le mani in tasca.
«Sì» risposi, sconsolata. «A domani».
Rientrai in casa affranta e trovai la Clement e Daniel ad attendermi all'ingresso.
«Vi va una tazza di tè?» domandò la Clement.
«C'è qualcosa di cui vorrei discutere con voi» disse la professoressa, sorseggiando il tè dalla sua tazza fumante. «Non credo abbia più senso aspettare. Hai voglia di confrontarti con me, Melania?»
«Può chiamarmi Ania» le risposi, guardinga. «Perché non dovrei averne voglia?»
«Non so» rispose, e si portò di nuovo la tazza alla bocca, facendo tintinnare i braccialetti che non si levava neanche per andare a letto. «Avevo l'impressione che mi odiassi».
Quindi se ne era accorta. La rimbambita non era poi così rimbambita, alla fin fine.
«Ero gelosa di lei» ammisi, perché tanto non aveva più alcun senso mentire. «Credevo che lei e Gilbert aveste una storia».
Lei sgarrò gli occhi per lo stupore e balbettò qualcosa di incomprensibile.
«Stavate sempre insieme» aggiunsi. «C'erano persino i suoi vestiti in casa sua».
Daniel, che sicuramente la conosceva molto meglio di me, mi lanciò uno sguardo allarmato.
Sei troppo aggressiva mi disse, in questo modo non otterrai niente da lei.
Anche se Daniel parlava direttamente con la sua testa alla mia, era come sentire davvero la sua voce. Io e lui comunicavamo con il linguaggio dei segni praticamente da sempre. La sua condizione non aveva mai rappresentato un problema per noi, non aveva mai dato luogo a equivoci, fraintendimenti o difficoltà nella comunicazione. Ma quella... quella era un'altra cosa. Era una connessione sublime e perfetta, la distruzione di qualsiasi barriera. Daniel non era più un bambino: era maturo e posato, difficilmente perdeva la pazienza e molto difficilmente interveniva a sproposito. Tutto il contrario di me, praticamente.
«... poi ne ho parlato con lui e ho capito che c'era stato un equivoco» aggiunsi, con un tono più calmo. «Non si preoccupi, non ce l'ho più avuta con lei, da quel momento».
«Bene» disse, a disagio. «Sono lieta di sentirlo».
«C'è anche da dire» aggiunsi, ripensandoci, «che in sua presenza, a scuola, avevo sempre mal di testa. Seguire le sue lezioni per me era un'agonia».
La Clement vuotò la tazza e iniziò a sgranocchiarsi le pellicine sulle dita.
«È proprio di questo che volevo parlarti» disse. «Avevi mal di testa perché ti stavo maledicendo».
Avevo sentito bene? Mi voltai a guardare Daniel che, però, sembrava stupito quanto me.
«Mi stava maledicendo?» domandai, attonita. «E perché mai?»
«Non lo so» ammise. «Era parte di un disegno di Constantin. Lui mi ha chiesto di farlo».
No, no. No. Ci avevo messo mesi per imparare a fidarmi di lui, non avrei lasciato mandare tutto in frantumi proprio ora che non poteva più difendersi. Però, nonostante non volessi ammetterlo, c'era qualcosa dentro di me, dentro di lei... qualcosa che mi suggeriva che lei stesse dicendo la verità.
«E che genere di maledizione mi stava facendo?» domandai.
«Stavo indebolendo la tua mente» rispose. «Mi dispiace. Ho provato a chiedere tante volte, ma lui... sai com'era... ho dovuto scegliere se fidarmi o non fidarmi e... mi sono fidata».
«Ha fatto bene» dissi, bevendo un sorso di tè nella speranza che quel liquido caldo sciogliesse il groppo che mi aveva chiuso la gola. «Anche io mi fidavo ciecamente di lui».
«Sì, però...» disse, terribilmente a disagio. «Ci ha lasciati portandosi con sé troppi segreti».
«Lo so» risposi.
«C'è una cosa che io...» iniziò a bofonchiare. «Credo che lui sapesse... o che almeno avesse un'idea... magari mi sbaglio... eppure...»
Devi stare calma, mi disse Daniel. Se ti spazientisci la metti ancora più imbarazzo.
Annuii e attesi in silenzio che si decidesse a finire la frase. Avrei voluto avere la metà del suo autocontrollo.
«La lamia» disse, infine. «Visto che è stata in grado di assumere le sembianze di un'altra persona, immagino che in passato sia stata un Velatore».
«Un Velatore può fare questo?» domandai, poiché era un Velatore anche lei.
«No di certo» rispose. «Non nella forma umana, perlomeno. Ma la lamia... è una cosa diversa. È la forma demoniaca del genio. E sì, quella dei Velatori può, sfortunatamente, essere multiforma».
Scusate, disse Daniel, irrompendo nelle nostre menti. Secondo me vi state ponendo la domanda sbagliata.
«Quale sarebbe quella giusta?» gli domandai.
La lamia sarà anche un genio andato fuori controllo, ma è pur sempre un genio. E perché mai un genio avrebbe dovuto ubbidire agli ordini Reazionari? Collaborare per la riuscita di un loro piano?
Già. Perché?
Io spero che non vi stiate rompendo troppo i maroni con questi capitoli pieni di gente che parla e basta. Però, parlando parlando, stanno uscendo un sacco di informazioni importanti (DIREI QUASI VITALI) che sono sicura che, quando arriverà il momento di fare il collegamento tra 1,2 miliardi di pagine, vi sarete placidamente scordati. E sarà stupendo. MA vi assicuro che tra qualche capitolo comincerà la vera azione e non ci sarà più tempo né modo di stare a cincischiare. NON SI TORNERÀ PIÙ INDIETRO.
Un annuncio velocissimo: HO TROVATO IL REGALO DI NATALE PERFETTO PER I MIEI LETTORI. Sto parlando di un regalo fisico (cioè, per riceverlo, dovrete darmi il vostro indirizzo di casa - che io ovviamente rivenderò a terzi e in particolare a Tobi di Vodafone con cui ho una relazione ahahahah). Potrei addirittura organizzare un giveaway natalizio o una cosa del genere. Fatemici ragionare, vi faccio sapere nel prossimo capitolo 🌝
Baci baci
AppleAnia
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