3.10 • DI LÀ

Con il Fuoco Sacro acceso e la Sibilla e le Vestali al loro posto, convincere i pietroni non sarebbe stato sufficiente per entrare nell'acropoli. Avevo quindi avuto bisogno del permesso del Pontifex che Rei, forte della sua posizione, era riuscito a farmi ottenere senza intoppi e in breve tempo.

Non appena varcammo la soglia dell'alto cancello di ferro, fui pervasa da quella sensazione di benessere che avevo già provato una volta ma che non riuscivo a definire nella memoria. Sull'acropoli non si avvertiva la necessità di mangiare, né di bere o di dormire. La temperatura era gradevolmente indefinibile. Somigliava a quella di un caldo autunno, del tepore di un fuoco in una notte di tempesta o di una serata fresca nel bel mezzo di un'estate torrida.

I due templi risplendevano nella notte come se le loro stesse pareti fossero state in grado di emanare un tenue bagliore e il canto delle Vestali, in lontananza, cullava la notte come una mamma amorevole.

«L'atmosfera qui è incredibile» sussurrai a Rei, perché temevo che la mia stessa voce potesse profanare quella pace, aprendo un strappo nella quiete. «Mi chiedo come tu faccia a passare qui tanto tempo e poi a tornare... di là. Deve sembrarti tutto orribile e disturbante».

«È vero» disse lui, accendendosi una sigaretta. «Ma di là ci sei tu che mi aspetti».

«Allora devo sembrarti anche io orribile e disturbante».

«No di certo» sorrise, espirando il fumo.

«Questo posto è in grado di cancellare ogni bisogno fisico» dissi. «Tranne quello di fumare».

«Io fumo per vizio, non perché ne ho bisogno» rispose lui. «Non pensavo che ti desse fastidio».

«Non mi dà fastidio, anzi l'odore del fumo mi piace» ribattei. «Però mi preoccupo per la tua salute».

«Grazie» sorrise lui, poi si arrestò perché avevamo raggiunto il tempio. «Vuoi salutare Gabriel?»

«No» risposi. «Magari dopo».

Proseguimmo di ancora qualche passo quando il portone del tempio, con un rumore metallico sordo, si spalancò. Ci voltammo di scatto e Rei chinò appena il capo in direzione di quella che, immaginai, fosse la nuova Sibilla. Era una ragazza più avanti con gli anni rispetto a Dafni ma, sebbene fosse sprovvista del velo di Iliona che si trovava, purtroppo, ancora in mano ai Reazionari, sembrava risplendere della stesso lucore tenue e arcano.

«Sibilla» le disse Rei. «Posso fare qualcosa per te?»

Lei scosse la testa, senza che i suoi capelli corti e scuri subissero alcun movimento. Poi rovesciò gli occhi e andò in trance.

«Il detentore del braccio della bilancia, il punitore, il giudice universale» recitò, la sua voce sembravano mille; non proveniva da nessuna parte eppure, allo stesso tempo, da tutte le parti. «Due volte incatenato, tre volte mutilato, tre volte lascerà il desco. Tre volte il piatto cadrà, l'ultima andrà in pezzi».

Nel pronunciare le ultime tre o quattro parole, la sua voce era gradualmente tornata quella di un essere umano.

«Non spaventarti» mi disse Rei, perché mi ero istintivamente aggrappata al suo braccio. «Ti ha fatto una previsione».

«Io non gliel'ho chiesta» risposi, prontamente, mentre lei tornava fluttuando all'interno del tempio, con espressione stordita. «Non è un buon segno quando l'oracolo fa una profezia senza che nessuno l'abbia interpellato, vero?»

«No, non è un buon segno» rispose Rei, calmo. «Ma, in quest'ultimo periodo, tutto sommato, rientra nella norma».

«Ha fatto altre previsione nefaste?» gli domandai.

«Di continuo» rispose lui.

«Ma hai capito cosa mi ha detto?» chiesi, anche se l'immagine che mi era rimasta, quella del piatto che andava in pezzi, non mi evocava nulla di buono.

Rei fece un tiro profondo ed espirò lentamente una lunga boccata di fumo.

«No» rispose, infine. «No, gli Equites non sono in grado di decifrare le profezie Sibilline. Per quello ti servirebbe una Vestale».

Avevamo dovuto camminare per una mezzora prima di raggiungerlo. Ma era lì, eravamo arrivati. Proprio davanti a me, immerso nelle profondità di quel bosco che sembrava incantato, c'era il cimitero dell'acropoli. La foresta era diventata una cattedrale, il tappeto di erba e foglie il pavimento, gli alberi ad alto fusto le colonne lungo la navata e i loro rami protesi gli uni verso gli altri il soffitto a volta.

Feci qualche passo, estasiata e allo stesso tempo intimidita da quell'atmosfera onirica. Nei tronchi spessi dei grossi alberi che formavano la navata centrale erano scolpite delle immagini. Immagini di persone. Di Equites morti e sepolti lì. Camminai lentamente osservando quelle sculture, figure che sembravano essere rimaste imprigionate molto a lungo all'interno di quei tronchi, prima che qualcuno, intagliandoli, fosse riuscito a liberarle. Ai piedi di ogni albero bruciava una fiammella, senza che ci fosse alcun lume né stoppino. Rei mi seguiva a un paio di passi di distanza, in silenzio. Avanzai finché non individuai, tra quelle sculture, una che mi risultò familiare.

«È tuo padre» sussurrai.

Kento era alto, con le spalle dritte, la spada alla vita e lo scudo in mano, parzialmente avvolto nel mantello da Eques le cui pieghe erano state scolpite così accuratamente che quasi mi sarei aspettata di vederle agitarsi al vento.

«Tuo padre era bello come te» dissi, sfiorando appena la mano della statua di Kento poggiata sull'elsa della spada. «L'ho incontrato una sola volta, purtroppo».

«Essere stato nominato prima del tempo è stato un bene per me, da questo punto di vista. Perché, prima di allora, anche io lo avevo incontrato una manciata di volte» disse, osservandolo. «Mi spiace che Yumi non abbia avuto la stessa fortuna».

«Rei» dissi, poggiando il viso contro il suo petto. «Se tu volessi smettere di essere un Eques, cosa ti accadrebbe?»

«Sarei condannato a morte per diserzione» rispose, stringendomi appena.

«Però... ho motivo di pensare che a nominarti non sia stata la vera Sibilla, ma la lamia che aveva preso il suo posto» bisbigliai, tanto che non fui neanche certa che mi avesse potuta udire.

«Lo so» rispose, in un sussurro. «Ho lo stesso dubbio anch'io. E, probabilmente, anche tutti gli altri».

«Ma, se fosse così...»

«Potrei essere congedato» concluse.

Feci scivolare la mani sotto il mantello, dietro la sua schiena, e lo strinsi in vita.

«Se dovesse accadere una cosa del genere...»

«Sarei finito».

«No, non è vero» dissi, scostandomi per guardarlo in faccia. «Ci sarei io con te. Potremmo stare insieme di là. Per me non farebbe alcuna differenza, lo sai».

«È questo il mio posto» sussurrò. «Non sempre mi ci muovo a mio agio, ma sai meglio di chiunque altro quanto, per me, sia stata tortuosa e faticosa la strada per trovarlo. Perderlo significherebbe dover ricominciare tutto da capo. Riesci a capirmi?»

«No, non lo capisco» ammisi e, nel farlo, lanciai uno sguardo alla statua di Kento. «Sai che sono sempre stata disposta a sopportare qualsiasi cosa. Di stare sempre sola, di sentirmi sempre insicura. Ho accettato tutto pur di stare con te. Però, in cambio vorrei avere la certezza che tu continui ad essere un Eques non perché temi di non avere alternativa, ma perché ne sei convinto».

«Perché credi che non lo sia?» domandò, con un filo di voce.

«Perché quella notte, al Foro...» mi interruppi, con un groppo alla gola.

Il ricordo di quella notte al Foro mi riportò immediatamente alla mente il motivo di quella visita. Ero quasi arrivata. Gilbert era lì. Non ero mai stata così vicina a lui dal momento della sua cremazione.

«Ania» mi chiamò piano Rei, prendendomi il viso tra le mani. «Mi dispiace tanto per Gilbert. Lui era un grand'uomo. E non gli sarò mai grato a sufficienza per tutto quello che ha fatto per te».

Lui era un grand'uomo.

Senza aggiungere altro Rei mi condusse all'interno di quell'intricato labirinto di alberi secolari che si dipanava dalla navata centrale del cimitero.

«Eccolo qui».

Alzai lo sguardo verso il suo albero, verso quel viso dagli occhi vuoti, senza iridi né pupille.

«Ed ecco anche Elissa» aggiunse. «Non è stato possibile sistemare Gilbert nell'area delle Sibille, ovviamente, e quindi è stata spostata lei per stare accanto a lui, proprio come hai chiesto tu».

Lanciai un'occhiata rapidissima alla scultura legnosa di mia zia, ma dovetti distogliere lo sguardo. Mi faceva impressione. Era come trovarmi davanti alla mia stessa tomba. Solo che io non sarei finita sepolta sull'acropoli, nessun albero secolare avrebbe assunto le mie sembianze e nessuna fiammella avrebbe bruciato in mio onore. Gilbert, invece... era proprio come era stato in vita. I vestiti un po' sdruciti, i capelli legati a casaccio, il cipiglio antipatico.

«È stata Nerissa a ucciderlo» sibilai. «E l'ha fatto di proposito».

«Certo che lo ha fatto di proposito» mi rispose Rei. «Uccidere Gilbert significava cancellare ogni speranza di una pace tra l'Impero e la Setta. Però, il fatto che il Pontifex abbia accetto di seppellire Gilbert qui rappresenta un chiaro segnale di...»

«Di niente» lo interruppi e lui rimase a guardarmi, perplesso. «Rappresenta un chiaro segnale di niente. L'Impero dovrebbe rastrellare tutti i Reazionari, al pari di come ha fatto con i geni, condannarli a morte con damnatio memoriae e cancellare per sempre il loro maledetto ordine. Questo sarebbe un segnale chiaro».

«Non accadrà» rispose lui, cauto. «Devi avere aspettative realistiche. I Reazionari hanno schierato il loro esercito al fianco di quello imperiale per sconfiggere Alastor. È a loro che l'Impero deve la vittoria. E non può rischiare di perdere il loro appoggio, soprattutto in vista di una nuova, possibile guerra».

«Hai mai pensato che, se l'Impero facesse come ti ho detto, non ci sarebbe alcuna nuova possibile guerra?» domandai, invece, a voce un po' troppo alta, tanto che sembrò rimbombare tra gli alberi e alcune delle fiammelle si agitarono come se fossero state infastidite da una raffica di vento. «Kirk non è Alastor. Lui non vuole la guerra. Sta facendo di tutto per rimandare, per traccheggiare, per cercare una soluzione alternativa, quando avrebbe potuto radere al suolo l'Impero due anni fa. Ma ancora, al giorno d'oggi, il modo in cui vengono trattati i geni... ti sembra giusto?»

«È ovvio che mi sembra ingiusto, Ania» rispose calmo, ma iniziai a percepire un accenno di turbamento nella sua espressione. «Ma la mentalità delle persone non si può cambiare con un colpo di spugna. Ci vuole molta pazienza».

«Beh, io non ce l'ho» tagliai corto e mi voltai, infastidita.

Avrei dovuto aspettarmelo. Rei era un Eques, non avrebbe mai potuto parlare diversamente. Presi un bel respiro e tornai a voltarmi verso di lui.

«Non mi importa niente se è tua amica» dissi. «Io ucciderò Nerissa con le mie mani»

Era sufficiente pronunciarne il nome per scatenare in me una sete incontrollabile, immagini confuse e disordinate di sangue e distruzione, di suppliche inascoltate e di morte.

«Non è più mia amica da moltissimi anni» rispose, e la sua voce mi strappò violentemente da quelle proiezioni tanto vivide nella mia mente da sembrare reali. Però, non aggiunse altro. Non cercò di convincermi a non farlo. Non esternò neanche la sua opinione in proposito.

Mi schiarii la voce con la speranza di dare sollievo alla gola arsa alla sete, coprii in un paio di passi la distanza che ci separava, gli presi le mani tra le mie e mi alzai in punta di piedi per baciargli le labbra, in un estremo tentativo di tenerlo ancorato a me, nonostante quella schiacciante percezione mi opprimesse ormai da settimane: la sensazione che quei due bambini che camminavano mano nella mano al tramonto stessero per raggiungere un crocevia. La sensazione che, per quella bambina così indissolubilmente legata al suo compagno, sarebbe presto giunto il momento di lasciare la mano di Rei e di rimanere a guardarlo allontanarsi lungo una strada che lei non avrebbe mai potuto percorrere. Impotente e sola.

E anche oggi pubblichiamo il capitolo di ieri ^_^
Scusate, ho avuto veramente delle giornate tremende. Alcune volte sembra che debba capitare tutto insieme. Eppure non ho profanato nessun luogo maledetto ò_ò
Quindi niente, oggi vi accanno così ç_ç
Baci baci ç_ç

AppleAnia

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