2.29 • CONDIZIONE NON SODDISFATTA

Raggiungemmo l'arco di Tito accompagnati da un silenzio spettrale.

«Sei sicuro che il posto sia questo, Devon?» chiese Yumi, guardandosi intorno. «Qui è tutto deserto».

«Sono sicuro» rispose, saltando giù dalla quadriga. «Dobbiamo camminare fino al sepulcretum».

«Fino al cosa?» chiese Yumi.

«La necropoli arcaica del Foro. Datemi retta. Mia zia non può essersi sbagliata».

«Vieni con noi?» domandai a Takeshi.

«Non posso lasciare la quadriga incustodita» rispose. «Ma vi aspetterò qui».

«Va bene» sospirai.

Trovarmi di nuovo al Foro con Yumi e Devon mi provocava sensazioni contrastanti. La loro presenza, da un parte, era piacevole e confortante come le mura di una casa calda. Dall'altra, però, Takeshi sembrava l'unico consapevole di quello che stesse facendo e averlo con noi sarebbe stato rassicurante.

«Dove si trova questo posto?» chiese Yumi.

«Proprio davanti al tempio di Vesta. A ciò che resta del tempio di Vesta, anzi. Sbrighiamoci, è quasi ora».

Raggiungemmo il rudere composto da tre sole colonne che ormai conoscevamo alla perfezione e, stando alle informazioni di Devon, ci ritrovammo la necropoli arcaica proprio sotto i piedi .

«Dobbiamo nasconderci» sussurrò Devon, all'improvviso. «Stanno arrivando».

Era vero. Nel silenzio tombale del sito archeologico chiuso per la notte si distingueva il rumore dei passi di quello che, con ogni probabilità, era un corteo funebre. Non avendo tempo per cercare di meglio, ci accovacciammo dietro i miseri resti di una qualche costruzione, proprio lì davanti, a due passi.

«Devon» sussurrò Yumi, sbirciando appena da sopra il muretto. «Ci siamo. Stanno arrivando».

Dafni non mi era mai stata particolarmente simpatica. L'avevo incontrata, in realtà, una sola volta e cioè lo sciagurato giorno in cui si era spento il Fuoco. Sospettavo di lei e di ogni sua mossa, dalla nomina di Nerissa come Eques, per fortuna mai realmente concretizzata, al suo sconsiderato accoppiamento con Devon che sarebbe potuto costare la vita a entrambi.

Però.

Non meritava una fine del genere. Nessuno l'avrebbe meritata. Era troppo.

Due uomini incappucciati la stavano conducendo su una lettiga chiusa verso il luogo della sua fine. Seguiva un corteo scarno e silenzioso. In prima fila, accerchiato dalla guardia pretoriana, c'era il Pontifex, quel vecchio rinsecchito in toga bianca che avevo già avuto modo di incontrare al funerale di Kento. Subito dietro di lui e la sua scorta due persone in lacrime: i genitori di Dafni, immaginai. La signora Petrocchi, la Di Pietro e Clio in terza fila, come portavoci delle Vestali, probabilmente. E poi, inaspettatamente, due Equites: mio padre e Rei, che, quasi certamente, erano stati scelti come rappresentanza dell'ordine in quanto membri più anziano e più giovane. Il mio sguardo, mio malgrado, indugiò sul viso di Rei.

Chissà cosa stava pensando. Era scuro in volto come se stesse soffrendo, come se si sentisse in qualche modo responsabile.

Come se pensasse che quella pena non fosse giusta.

Come se pensasse che quella legge non fosse giusta.

Rei, alla fine, era diventato un Eques, proprio come suo padre. Aveva chiuso la bocca a tutti coloro che avevano dubitato di lui, delle sue capacità e dalla sua abnegazione arrivando a ricoprire la carica più alta a cui un uomo laico Superbo potesse ambire. Ma lui non aveva tratto alcuna soddisfazione da quella rivincita. Avrebbe onorato il suo compito e io non avrei mai smesso di essere fiera di lui per il senso di responsabilità con cui avrebbe affrontato ogni ostacolo, ne ero assolutamente certa.

Però, nonostante camminasse lentamente e con le spalle ben dritte, mi sembrava che il peso di quello scudo legato sulla sua schiena lo stesse schiacciando.

«Sei proprio innamorata di lui, vero?» sussurrò Devon.

«Eh?» domandai, stupita.

«Si vede da come lo guardi» spiegò. «Anche in un momento del genere».

«Scusa, Devon» bisbigliai, mortificata.

«No, non scusarti» rispose, prontamente. «Rispetto i tuoi sentimenti, anche se lui non mi sarà mai simpatico».

«È per quello che è successo la notte prima della fine della guerra, vero?» sussurrai, sperando invano che Yumi non sentisse.

«Certo» rispose lui.

«Di che state parlando?» chiese Yumi.

Avrei preferito che lei non lo sapesse. Io avevo perdonato Rei ma non ero sicura che lei avrebbe fatto lo stesso con altrettanta facilità. Non volevo che lei cambiasse opinione su di lui. Non volevo che Rei dovesse ancora soffrire a causa del pensiero degli altri.

«Non è necessario che tu lo sappia» risposi.

«Sì, come no» rispose, ovviamente. «Avanti, dimmelo».

«Uh, guardate un po' chi altro c'è» ci interruppe Devon.

Chiudeva la processione un scarno gruppo composto da una trentina di legionari di basso grado tra cui anche Iulian e Nate.

Mi accorsi di lui, poi, per puro caso: grigio, sottile e defilato, Mario se ne stava lì, da una parte, tamponandosi gli occhi con un fazzoletto di stoffa quasi certamente ingiallito.

«Ci siamo proprio tutti, alla fine» disse Devon.

Non avevo coraggio di voltarmi e incontrare il suo sguardo, così cercai la sua mano alla cieca, la strinsi e mi voltai a guardare altrove.

Gilbert. La Clement. Kirk. Agenore. Mio fratello.

Sbattei le palpebre. Non era un'allucinazione. Erano proprio lì, a pochi metri da noi. Non erano venuti per assistere al funerale di Dafni. Anzi, a giudicare dalle loro facce, non avevano affatto previsto di ritrovarsi nel mezzo di un rito funebre. Si muovevano silenziosamente, discreti come ombre, traditi ai miei occhi solo dal loro inconfondibile alone.

Osservai quella tenue luminosità perdersi nel buio. Non era necessario che mi svelasse la loro destinazione, perché l'avevo capito lo stesso. Cinque geni al Foro, in una notte di luna piena. Potevano essere diretti solo al Lapis Niger.

La tentazione di seguirli mi assalì e, solo per un attimo, ebbe la meglio sul mio giudizio. Come al solito non mi avevano coinvolta. Avevano tramato alle mie spalle, si erano organizzati, mi avevano tagliata fuori del tutto. Avevano addirittura osato tirare in mezzo Daniel, il mio amato fratello, dopo intere settimane in cui mi avevano impedito di vederlo.

Avrei potuto irrompere al Lapis Niger e fare una sceneggiata. Fui seriamente tentata di farlo. Qualunque fosse il loro intento, e in quel momento mi pareva del tutto secondario, avrebbero meritato che avessi mandato a monte i loro piani.

«Mi dispiace tanto, Devon» sussurrò Yumi, mentre la lettiga veniva aperta per consentire il trasferimento di Dafni nella bara in cui sarebbe stata murata viva. «È terribile».

Tornai in me. La mia mano era ancora stretta in quella di Devon. Proprio come quella notte in cui, tanti anni prima, Rei mi aveva scacciata e umiliata. Raccolsi il coraggio e alzai lo sguardo sul mio amico. Non ero in grado di sostenerlo. Non ero capace di gestire quel dolore. Ma non lo avrei abbandonato. Avrei raggiunto gli altri geni al Lapis Niger. Ma l'avrei fatto più tardi.

Mi ricordavo i capelli biondi di Dafni, mossi e lunghi fino a terra. Quei capelli tra i quali Devon, quella notte maledetta, aveva fatto scivolare le dita. Quei capelli mi avevano colpito anche la prima volta, nonostante fossero coperti dal velo di Iliona, il solo tra i Pignora Imperii di proprietà della Sibilla e uno di quelli che erano finiti nelle mani dei Reazionari.

Quella notte, però, ovviamente, la Sibilla non indossava alcun velo. Vidi, con la coda dell'occhio, i suoi capelli frustare l'aria agitati furiosamente dal vento gelido di fine febbraio.

«Sì, è veramente una cosa...» dissi, ma qualcosa attirò la mia attenzione in maniera così inaspettata e violenta da indurmi ad ammutolirmi.

I suoi capelli.

Biondi.

«Che è successo?» chiese subito Yumi, allarmata.

Non poteva essere.

Nonostante la luna piena rischiarasse il Foro così nitidamente da rendere superflua, oltre che rischiosa, la presenza di un'illuminazione ulteriore, riuscii comunque a vederlo, come se fosse stato buio.

Ma no, doveva esserci un errore. Non avrebbe potuto che essere un errore. Perché, altrimenti...

Il Pontifex, che sin dall'inizio stava bofonchiando qualcosa di non comprensibile, si era interrotto bruscamente, incitando gli uomini incappucciati ad accelerare le operazioni di trasferimento.

Ma non furono abbastanza veloci. Io ormai lo avevo visto.

Quell'inconfondibile bagliore proiettava sui suoi capelli un riflesso azzurrino.

«Devon» dissi, affannata. «Dafni è un genio

«Che dici?» mi domandò, stupito, asciugandosi gli occhi col dorso della mano libera. «Certo che no».

«Sei sicuro?»

«Certo, sono sicuro» rispose, alterandosi appena. «Che ti prende?»

«E allora smettila di piangere» dissi, chinandomi davanti a lui e finendo di asciugargli le lacrime con le dita. «Perché quella non è Dafni».

Yumi e Devon, nella loro comune, totale incapacità di elaborare velocemente una notizia inaspettata, manifestavano però reazioni sorprendentemente diverse. Mentre Devon ci stava ragionando, con le spesse sopracciglia aggrottate, Yumi mi era già saltata alla gola.

«Che stai dicendo?» mi chiese, a voce troppo alta. «Non dargli una speranza del genere!»

«Non è una speranza» tagliai corto. «È una certezza. Quella lì non è Dafni».

«Ammetto di essere confuso» disse Devon, alla fine. «Sollevato, ma confuso».

«Anche io» confermai.

«Ma allora chi è?» starnazzò Yumi.

«Vuoi che ti senta anche il Pontifex?» le domandai, stranita dal suo scetticismo chiassoso. «Abbassa la voce».

Però una risposta a quella domanda non ce l'avevo. Chi era? Era un genio? Non ne ero certa. Il suo alone era strano. Era verdognolo, tremolante, pulsante. Sembrava instabile. Era come se stesse per... esplodere.

«Che sta succedendo?» urlò Yumi, ormai del tutto incurante di tenere la voce bassa.

Esplose.

Un boato assordante e, improvvisamente, dal quel corpo con le sembianze di Dafni eruppe un'onda energetica così violenta da scaraventare lontano alcuni metri tutti coloro che si trovavano nelle prime file del corteo e da mandare a zampe all'aria tutti gli altri.

«State giù!» urlò Devon, schiacciandosi su di noi, mentre uno sciame di detriti si infrangeva sul muretto dietro cui eravamo nascosti con l'impeto e la velocità di una raffica di proiettili.

Ma io non potevo stare giù. Non c'erano altri geni che potessero intervenire. Dovevo fare qualcosa. Mi divincolai dalla presa di Devon e uscii allo scoperto.

Cazzo.

Dafni, o qualunque cosa ci fosse al suo posto, aveva già ammazzato tutti i pretoriani, che ora giacevano per terra orribilmente sfigurati. Il Pontifex era fuggito sotto le rovine del tempio di Dioscuri ed era rimasto intrappolato, spalle al muro, davanti alla furia distruttiva di quell'essere che aveva generato intorno a sé un campo di forza che neanche le spade di Rei e mio padre sarebbero riuscite a scalfire in tempo, nonostante fossero armi magiche.

La Di Pietro, la signora Petrocchi e Clio, insieme a quelli che dovevano essere i genitori di Dafni, erano stati scaraventati contro il tempio di Vesta dalla prima esplosione e non si erano più alzati.

Gli unici ancora in piedi erano alcuni tra i legionari, feriti e storditi. E lontani. Talmente lontani che non riuscivo più a individuare i miei amici, tra loro. Dovevo agire all'istante.

«No, resta qui!» mi urlò Yumi, cercando di afferrarmi per il braccio.

Ma io non potevo restare lì. Lottando contro la resistenza che il vento vorticante intorno al campo di forza mi opponeva, scavalcai il muretto e avanzai a fatica, annaspando con la gola piena di aria gelida e di polvere, verso quel mostro.

«Ehi!» la chiamai, quando fui alle sue spalle.

Dafni, o chi per lei, si voltò.

Era davvero un mostro: le pupille nere avevano fagocitato le iridi e la sclera, la bocca era troppo grande, il labbro superiore arricciato esponeva le gengive bianche, gonfie e grondanti sangue. La sua bocca enorme divenne ancora più larga, dilatandosi in un sorriso mostruoso.

Una piccola parte di me mi stava suggerendo di darmela a gambe. E forse l'avrei anche ascoltata se non ci fossero stati Rei, mio padre e i miei amici, lì in mezzo. Non avrei affrontato una bestia del genere con il solo scopo di salvare il Pontifex, di sicuro.

Le sue zanne erano così affilate che avvertii lo spostamento dell'aria quando decise di sfoderarle contro di me.

Feci lo stesso.

Non ero mai stata aggredita da un altro genio. Non avevo idea di quanto le zanne potessero ferire, finché lei non me le ebbe affondate nella gamba che già mi doleva dal pomeriggio. Il ginocchio cedette e finii a terra, schiacciata dalla forza di Dafni.

È così forte perché è vicino al Lapis Niger, pensai.

Non è vicino al Lapis Niger. Siamo vicine al Lapis Niger.

Anche io ero in grado di generare un campo di forza come il suo. Anzi, più forte del suo. Perché io, a differenza sua, avevo qualcosa per cui combattere.

Piantai i palmi delle mani sul selciato e lottai per lottare contro le zanne di quel mostro. Raccolsi tutte le mie forze, urlai fino a farmi male alla gola, avvertii il potere lasciare il mio corpo per plasmarsi e addensarsi come uno scudo sopra di me, liberandomi da quell'oppressione e consentendomi di riprendere a respirare.

Io ero un Vendicatore. I Vendicatori erano autoalimentanti. Ancora stesa a terra voltai la testa per cercare lo sguardo di Devon. Lo trovai subito. Era lì vicino, era accorso per cercare di aiutarmi, anche se c'era ben poco che potesse fare.

Il mio caro amico Devon.

Devon schiacciato dal senso di colpa.

Devon usato come un burattino.

Devon ferito, tradito, mortificato.

Devon dimagrito, abbrutito e trasfigurato dalla maledizione.

Devon che giaceva senza sensi sul divano di Gilbert.

Mostro maledetto.

Il potere mi percorse la spina dorsale come un brivido di piacere. La scarica di adrenalina mi staccò dal suolo, mi tirò in piedi con un colpo di reni, mi pose faccia a faccia con quella cosa, finalmente.

Il sorriso mostruoso sul suo viso deturpato si trasformò in stupore e poi, quando si rese conto che il mio campo di energia stesse avendo la meglio sul suo, in terrore.

Io, invece, ero sempre più forte. Il mio scudo energetico era blu, intenso, splendente nella notte. Il suo, verdognolo, marcio, pulsante, si stava sgretolando. Quando anche l'ultima pulsazione si fu esaurita, Dafni si ritrovò esposta e io capii che non avrei avuto una seconda occasione per attaccarla.

«Fanculo, stronza!» le urlai.

Le mie zanne la colpirono in faccia, sul busto e sugli arti. Niente di lei fu risparmiato.

Mentre fiotti di sangue nero zampillavano fuori dal suo corpo vidi la vita lasciare i suoi occhi che divennero vitrei, le sue membra rattrappirsi e accasciarsi e, nel frattempo, trasformarsi in qualcosa di oscuro.

Così, quando il suo cadavere ebbe toccato terra, una coda di serpente aveva preso il posto delle sue gambe, una lingua biforcuta era fuoriuscita dalla sua bocca orrendamente spalancata e la sua colonna vertebrale si era contorta e arrotolata in qualcosa di grottesco.

Era morta. Qualunque cosa fosse, l'avevo uccisa.

«Ania, sta' giù!» sentii la voce di Yumi urlare alle mie spalle.

Il corpo senza vita di Dafni fu scosso da un ultimo fremito, prima di esplodere in un putiferio di pezzi di carne, sangue e energia.

Chiusi gli occhi e mi riparai il viso con la mano. Quando li riaprii, però, quell'onda energetica non mi aveva colpita. Rei mi aveva raggiunta e affiancata e aveva riparato entrambi dall'esplosione dietro al suo scudo bilobato.

«Ora è morta» disse, sorridendo appena.

«Che... che accidenti era?» domandai, sgomenta.

«Non ne ho idea» rispose lui. «Stai bene?»

Gli buttai le braccia intorno alla vita e lo strinsi. Non stavo bene per niente. Avevo ucciso un essere vivente. E mi era piaciuto farlo.

«Melania» mi chiamò mio padre, raggiungendoci davanti alle fondamenta del tempio dei Dioscuri. «È stata una vera fortuna che fossi qui. Sei stata bravissima. Hai salvato il Pontifex e tutti noi».

Avevo salvato quel vecchio e tutti loro, forse, ma non ero stata bravissima. Ero diventata a mia volta un mostro, anche se solo per i pochi attimi che era durato il combattimento. E poi... era successo. Rei mi aveva vista con le zanne di fuori. E non solo lui. Anche mio padre, Yumi e Devon, forse persino Iulian e Nate.

«Va tutto bene» mi sussurrò Rei, stringendomi tra le braccia. «Hai fatto quello che avremmo fatto tutti, se fossimo stati in grado».

Nascosi il viso contro il suo petto. Non avrei voluto incrociare lo sguardo di nessuno dei presenti. Non mi interessava niente di sapere come stesse il Pontifex, né avrei mai più voluto posare lo sguardo sul cadavere orripilante di quell'essere abominevole.

«Yumi, dovete andare via subito. Temo che il funerale di Dafni fosse solo un segnale» sentii dire da mio padre. «Date l'allarme».

Avvertii la presa delicata di Yumi sulle spalle.

«Andiamo, Ania» mi disse. «Torniamo a casa».

Molto malvolentieri allontanai il viso dal petto di Rei e mi voltai a guardarla.

«Io non ci vengo. Devo andare al Lapis Niger» dissi.

«Che stai dicendo?» mi domandò Yumi, allarmata.

«Va' da Takeshi, torna a Villa Adriana e chiedi aiuto».

«Certo che no!» esclamò lei. «Vengo con te».

«Gli Umani non possono entrare» tagliai corto. «A meno che tu non voglia essere maledetta per l'eternità».

Mi alzai sulla punta dei piedi per stringere le braccia intorno al collo di Rei. Non volevo lasciarlo a combattere da solo. L'idea che potesse accadergli qualcosa di brutto mentre io non c'ero mi paralizzava.

«Sta' attenta» mi sussurrò, sfiorandomi la fronte con le labbra.

«Anche tu» risposi.

Chiusi gli occhi per un solo attimo, inspirando il profumo di menta e tabacco di Rei e lasciando che questo mi inebriasse i sensi. Ma l'urlo spaventato di Yumi mi costrinse a riaprirli un istante dopo.

«Buonasera, domina» disse il leone di pietra, maestosamente in piedi proprio davanti a me. «Sei ferita. Hai bisogno di un passaggio?»

«Tu sai cosa sono venuti a fare?» chiesi al leone, durante la discesa negli abissi delle catacombe del Lapis Niger.

La sua criniera era stata scolpita in maniera così realistica che avevo l'impressione di affondarci le dita dentro.

«A prendere la pietra» mi rispose lui. «Con l'erede».

«L'erede? Pensano che l'erede sia mio fratello?» domandai, agitata.

C'era un errore. Cioè, mi fratello avrebbe anche potuto essere l'erede, forse. Non avevo idea di come potesse essere possibile visto che, per esserlo, avrebbe dovuto completamente scavalcarmi nella linea di successione ma, in realtà, poteva anche essere. Però, se anche fosse stato così, non sarebbero riusciti comunque a prendere il Lapis Niger.

Neanche con l'erede. Neanche con la luna piena.

C'era una condizione, la più importante di tutte, che continuava a non essere soddisfatta.

Non lo sapevo e non avrei mai potuto capirlo la prima volta in cui ci ero stata con Kirk. Né avrebbero mai potuto saperlo lo stesso Kirk o la Clement. Ma Gilbert. Lui sapeva. Il motivo per cui aveva avuto urgenza di cancellare la memoria era proprio quello.

«Siamo arrivati all'ultimo piano» mi disse il leone.

«Grazie per avermi accompagnata» dissi. «Come ti chiami?»

«Non ho un nome» rispose lui.

Mi sembrò una cosa molto triste, lì per lì. Ma non ebbi il tempo di razionalizzare il pensiero che un frastuono alla fine della galleria seguito da un onda d'urto di gelo e disperazione mi scaraventò giù dalla groppa del leone schiacciandomi contro il terreno umido e mezzo allagato del cunicolo.

«Hanno liberato i lemuri» disse il leone, schermandomi con il suo corpo di pietra.

«C'è un domatore di lemuri con loro» dissi, portandomi le mani alle orecchie e cercando di scacciare il terrore lontano dalla mia testa.

Credevano che Daniel fosse l'erede di Alastor, quindi non avrebbero mai permesso che gli capitasse qualcosa di brutto. Gilbert avrebbe protetto Daniel a costo della sua vita. E anche Kirk. E poi c'era Agenore. Sarebbe andato tutto bene. Era il suo lavoro, era un Vendicatore specializzato in Accademia.

Ebbi il tempo di ripeterlo a me stessa un paio di volte, prima di rendermi conto che gli spiriti si fossero placati. Agenore ce l'aveva fatta, i lemuri erano stati domati.

La mia gamba, a causa della vicinanza con la pietra, non mi provocava più alcun dolore.

«Grazie» gli dissi. «Posso proseguire da sola, adesso».

«Smettila di ringraziarmi, domina. Vengo con te».

Raggiungemmo il pertugio dietro il quale si celava la maschera senza occhi in un battibaleno, camminando affiancati, il passo inaspettatamente felpato del leone di pietra totalmente coperto dal rumore molesto e imbarazzante delle suole di gomma delle mie scarpe sul pavimento allagato.

Mio fratello fu il primo ad accorgersi di noi e, non appena mi vide, sgranò gli occhi e mi corse incontro per abbracciarmi. Lo strinsi forte, cercando Gilbert con lo sguardo.

«C'è una festa a cui non sono stata invitata, qui?» domandai, fissandolo negli occhi.

«Guarda che sono stato io a mandare il leone a prenderti» rispose. «Che è successo là fuori? Sei ferita».

Anche Kirk mi raggiunse e mi osservò attentamente la gamba malconcia.

«Anche tu festeggi senza di noi, però» disse.

«Non sono in vena» tagliai corto, con mio fratello ancora stretto tra le braccia. «Ho capito cosa siete venuti a fare. Credete che Daniel sia l'erede di Alastor, vero?»

«Io ti avrei coinvolta» sussurrò, aggrottando le sopracciglia. «La notte del tuo compleanno ero venuto da te proprio per parlartene».

«Va bene» concessi, poiché il ricordo di quella notte mi attorcigliava ancora le viscere. «Fate pure questo tentativo, coraggio. Tanto non funzionerà».

La Clement sgranò gli occhi mentre Agenore, fortunatamente, era del tutto dedito ai lemuri, ammassati sul fondo di un corridoio parallelo.

«Perché?» mi domandò Kirk. «Come fai a saperlo?»

«Lo so e basta» risposi. «E lo sa anche Gilbert. Vero?»

Gilbert mi fissava più severo del solito. Per un momento temetti che si avventasse su di me e mi picchiasse, come Ionascu.

«Ha ragione, non funzionerà» sibilò, infine.

«Eh?» chiese Kirk. «Che stai dicendo? Perché te ne esci solo adesso?»

«Perché non avevo tenuto conto di quella clausola» disse, indicando con la testa l'incisione nella roccia, quella sopra il pertugio.

«Alastor è passato di qua» lesse Kirk. «Alla sua morte ci passerà il suo erede».

Tutti tacquero. Daniel alzò su di me uno sguardo allarmato. Guardai Kirk dritto negli occhi. Il pensiero stava prendendo forma nella sua mente.

«Che cosa significa?» mi domandò, in un silenzio carico di tensione.

«Credo che tu ci sia già arrivato» rispose Gilbert, al mio posto.

«Voglio sentirlo da te» disse Kirk, ignorando Gilbert e agganciando il mio sguardo con il suo.

«Mi dispiace» ammisi. «Non ne avevo idea, prima di recuperare la memoria. Altrimenti te lo avrei detto».

«Voglio sentirlo» ripetè.

Guardai Gilbert in cerca di approvazione. La trovai.

Lasciai andare Daniel, poggiai una mano sulla spalla di Kirk, avvicinai la bocca al suo orecchio e raccolsi tutto il mio coraggio per riuscire a sussurrare quelle uniche quattro parole:

«Alastor non è morto».

Oh oh oh STATEBBONI ma in che senso Alastor non è morto?? Ma che sta bomba la sganci così, alla fine del penultimo capitolo??
Ebbene sì.
Detto ciò, perdonate il ritardo ma ho avuto un paio di settimane de fuego. Spero di riuscire a pubblicare il prossimo e ultimo capitolo di questa seconda parte domani o al massimo dopodomani.
Perdonate anche la lunghezza ma, come vi dicevo l'altro giorno (l'altro giorno quando boh, io ormai sto vaneggiando) non ce la potevo fare a concludere questa parte con 31 o 32 capitoli, cioè è una cosa che mi avrebbe levato il sonno nella migliore delle ipotesi e provocato un attacco anginoso nella peggiore. Quindi, piuttosto che fare un numero di capitoli diverso da 30 rischiando di rimetterci la salute o la vita, vi dovete beccare 2 o 3 capitoloni oversize. Che comunque non sono niente rispetto a certa roba che ho visto qui su wattpad (capitoli da 40 minuti di lettura con l'immancabile premessa dell'autore che in genere dice tipo: "A me piacciono i capitoli lunghi, se vi sta bene bene altrimenti ammazzatevi. Baci e abbracci". Però AppleAnia non è così crudele, lei ci pensa ai suoi lettori e quando la temperatura supera i 37 gradi inizia a parlare di se stessa in terza persona).

Dunque baci e abbracci ❤️

AppleAnia

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