2.26 • SNEBBIAMENTO
Quando riaprii gli occhi, era passato appena un secondo.
Devon e Yumi erano ancora stretti al mio fianco, quando mi alzai in piedi di scatto.
«Ania» disse Yumi, cauta, «è già... finita?»
La guardai senza vederla realmente; perché, davanti ai miei occhi, stavano passando le immagini di una Yumi di quattro anni, più bassa e più piccola di tutti gli altri bimbi della sua età, eppure impettita come un' adulta nel difendermi dalle prese in giro razziste. Yumi che a dieci anni mi confessava di essere innamorata di Heikki Vanhanen. Yumi che a undici anni mi pregava affinché mi fidanzassi con suo fratello, così non avremmo mai dovuto dividerci. Suo fratello. Rei. Il ricordo mi colpì nello stomaco come un pugno. Perché Rei... lui aveva...
«Stai bene?» mi chiese Devon.
«Sì» risposi, incerta. «Sì».
«Se c'è qualcosa che...» disse Yumi.
Si interruppe quando, chinandomi su di loro, li abbracciai entrambi.
«Grazie per essere rimasti con me» dissi loro. «Grazie. Adesso, però, ho bisogno di schiarirmi un attimo le idee».
«Possiamo andare via» propose Devon.
«No, no» mi affrettai a rispondere. «Vado io a farmi un giro fuori. Un bagno, forse».
«Noi ti aspettiamo qui, allora» disse Yumi.
«Potrei fare tardi».
«Noi ti aspettiamo qui lo stesso» concordò Devon.
Infilai il cappotto e uscii fuori, nella strada innevata. Sarei andata alle Piccole Terme, sicuramente deserte, mi sarei fatta un bagno e avrei avuto modo di riflettere.
Era difficile. Non sapevo cosa avessi pensato. Forse di rivivere i miei stessi ricordi così come avevo vissuto quelli di Rei e di Yumi. Qualcosa di facile, di lineare, come sedersi e guardarsi un film.
Invece, nella mia testa regnava il caos più furioso. Un mare di memorie stipate con troppi pesci che non sapevo come pescare che si dimenavano furiosi. Troppi pensieri, troppo ammassati, troppo agitati, pesci affamati che boccheggiavano sulla superficie da cui qualcuno saltava fuori spontaneamente.
Mi strinsi nel cappotto e allungai il passo. Ma, quando passai davanti a quella casa diroccata, dovetti fermarmi a osservarla. Piccola, buia, accartocciata su se stessa, infestata dalle erbacce, quasi invisibile nella notte.
In quella casa io ci avevo abitato.
In quella casa, molti anni prima, avevo preso consapevolezza di essere un genio. Mi avvicinai al cancello, poggiai la fronte contro le sbarre ghiacciate e chiusi gli occhi.
Avevo circa cinque anni ed era un'estate particolarmente torrida quando, nel bel mezzo di una notte come tante, avevo udito un trambusto provenire dal piano di sotto. Incuriosita dal rumore, avevo sceso le scale in silenzio e mi ero ritrovata davanti mia madre in cucina con un uomo e un ragazzo feriti.
«Che è successo?» domandò, cercando di parlare a bassa voce. «Come ti è venuto in mente di venire qui, Enea? E se qualcuno ti avesse seguito?»
Non avevo mai visto mia madre così agitata.
«Arianna, Dei, non sapevo che fossi incinta. Nessuno mi ha seguito, non ti preoccupare. Sono saltato nella Grotta delle Sirene, ho usato la psicocinesi per raggiungerti ma sono andato lungo e mi sono ritrovato nella piscina del Pecile. Credo di aver addirittura aperto un varco. Ma gli Umani che mi inseguivano sono stati irretiti dalle sirene e risucchiati dalla montagna, stai tranquilla. Mettiti seduta, devo darti una brutta notizia» le disse l'uomo, che era alto, aveva i capelli castano scuro lunghi e in disordine e due profondi occhi neri. «Elissa è morta».
Elissa. Certo, mi ricordavo di lei. Ricordavo la sua voce dolce, i suoi occhi verdi e il suo sguardo triste. Ricordavo persino il suo profumo, di pino e incenso. E, sopratutto, ricordavo il dolore sordo che quella rivelazione mi aveva provocato e la crepa incolmabile che aveva aperto nella psiche di mia madre.
«Che stai dicendo?» le domandò lei, indietreggiando.
«È morta» ripetè. «E il Fuoco si è spento».
«Ania!» esclamò mia madre, che si era accorta della mia presenza in fondo alle scale. «Che fai qui? Va' di sopra, per favore».
«Anja» ripetè l'uomo, muovendo un passo verso di me. «È questo il nome che hai dato a tua figlia, quindi?»
«No. Si chiama Melania, come nostra madre» rispose lei.
«Ania» mi chiamò quell'uomo, venendomi incontro, e la sua voce suonò molto più dolce di prima, quasi paterna. «Come sei bella. Somigli a Elissa».
«Sì, le somiglia» tagliò corto mia madre, afferrandomi per le spalle e costringendomi ad allontanarmi da lui. «Ma adesso devi andartene, Enea».
«Piccola» continuò lui, ignorando le proteste di mia madre. «Ti presento il mio discepolo. È un po' più grande di te ma potreste comunque diventare amici, voi due».
Il ragazzino che era con lui, di undici o dodici anni al massimo, si fece avanti e alzò su di me uno sguardo imbarazzato attraverso i riccioli neri che gli ricadevano sugli occhi azzurri.
«Ciao. Mi chiamo Jesper ma mi chiamano tutti Kirk» disse.
Era quello il motivo per cui Kirk, al processo, mi aveva fissata così intensamente, quindi. Il motivo per cui aveva tentato tanto disperatamente di aprire una connessione mentale con me. Noi ci eravamo già conosciuti e lui mi aveva riconosciuta.
«Kirk sta per Kierkegaard?» domandò mia madre, sgomenta.
«Sì, signora» rispose lui, tenendo lo sguardo basso.
«È il figlio di Mikkel e Torvi. Ti ricordi di loro? Sono stati uccisi dai Venatores e lui è stato rastrellato insieme agli altri bambini del villaggio» le rispose Enea.
Mia madre si portò una mano sulla pancia gravida e cercò di dissimulare una smorfia di dolore.
«Stai male?» le chiese l'uomo e fece per aiutarla a sedersi.
«Sto benissimo, non ti preoccupare» rispose mia madre. «Ania, va' di sopra con Kirk, per favore. Devo parlare con Enea».
«Va bene, mamma» obbedii, poi tesi la mano a Kirk: «Vieni?»
Lui la afferrò titubante e insieme ci avviammo verso le scale. Io, però, volevo sapere cosa era successo a mia zia. Una volta raggiunto il piano di sopra, quindi, al buio, mi appallottolai contro la ringhiera per poter continuare a sbirciare al piano inferiore e feci cenno a Kirk di fare lo stesso e di non parlare. Però, qualcosa catturò la mia attenzione.
«Kirk, sei tutto blu!» esclamai, stupita.
«Sì, anche tu» rispose lui. «È normale, al buio si vede meglio. È perché siamo dei geni».
«Davvero?» gli chiesi, fissandomi le mani. «Io però non mi vedo blu».
«Ti vedo io» sorrise lui.
«Dimmi di Elissa» disse mia madre, al piano inferiore, sorseggiando un bicchiere d'acqua, e io tornai a concentrarmi su di lei.
L'uomo aveva girato una sedia del tavolo e si era messo a sedere davanti a lei.
«Sono stato sull'acropoli» le rispose, passandosi una mano tra i capelli.
«Come hai fatto?»
«Con il Fuoco spento mi è bastato convincere i Lari».
«Il Fuoco era già spento?» chiese mia madre.
«Purtroppo sì. Sono arrivato troppo tardi. Lei era già...»
«Chi è stato?»
«Un Reazionario» disse lui, scuotendo la testa. «Mi sono precipitato non appena ho capito che aveva bisogno di aiuto. Ma non ho fatto in tempo».
Dischiusi la bocca e sollevai il petto, sperando che l'aria gelida della notte, graffiando i polmoni, riuscisse a placare la fame d'aria che mi stava soffocando. Non era stato Alastor a uccidere Elissa. Mia madre l'aveva sempre saputo. E anche io.
«E Constantin?»
«No, neanche lui. Gli è morta tra le braccia».
«Ehi» mi sussurrò Kirk. «Mi dispiace per tua zia. Non piangere, dai».
«Come sai che è stato un Reazionario, quindi?» chiese mia madre.
«Elissa lo ha detto a Constantin, un attimo prima di morire».
«Ma non è possibile» disse mia madre, portandosi una mano alla testa. «Constantin entra e esce come vuole da un sacco di tempo, ormai, con il permesso del Pontifex. Ma un Reazionario? Come avrebbe fatto a violare l'acropoli? E gli Equites? Dov'erano?»
«Già» rispose l'uomo. «Dov'erano?»
Rimasero entrambi in silenzio, per qualche minuto.
«Arianna» la richiamò poi lui. «Tua figlia è un Vendicatore, ne sono quasi certo».
«Non puoi saperlo, ha solo cinque anni».
«Invece lo so. Devi credermi. Il mio discepolo, invece, è un Incendiario. Un Incendiario particolarmente potente, come i suoi genitori».
«E quindi?» scattò mia madre, saltando in piedi. «Perché me lo stai dicendo?»
«Lo sai» rispose lui, calmo. «Lui e tua figlia, insieme... tra qualche anno potrebbero fornirci le chiavi del mondo».
«Io non voglio le chiavi del mondo, Enea! Voglio solo vivere in pace con la mia famiglia».
«Mi sa che il mio magister vuole che ci fidanziamo» mi disse Kirk.
«Mi piacerebbe fidanzarmi con te» risposi. «Perché sei incredibilmente bello. Però mi piace un altro bambino. Scusa».
«Kirk!» chiamò l'uomo dal piano di sotto. «Scendi, dobbiamo andare».
«Dove andate?» gli chiese mia madre, alzandosi in piedi a fatica. «Puoi lasciare qui il bambino, se vuoi».
«No» rispose lui e si chinò ad abbracciare mia madre. «No, non lo lascerei mai. È tutta la mia famiglia, ormai».
«Non è vero» singhiozzò mia madre e gli strinse le braccia intorno al torace. «Io sono ancora qui, Enea. E anche Ania e il bambino che nascerà a breve. Sei ancora in tempo per fermarti».
«Grazie» le disse lui, passandole una mano tra i capelli resi ancora più lisci e lucenti dalla gravidanza. «Ma non mi fermerò».
Aprii gli occhi. Anche se, tra le lacrime, mi appariva annebbiata, la casetta abbandonata era ancora lì. Era stata lì per tutto il tempo. Sentii la necessità impellente di allontanarmi da quella casa, da quel ricordo, dalla consapevolezza di aver sbagliato giudizio su Alastor. Su Enea. Anche su di lui.
Raggiunsi le Piccole Terme, mi spogliai lasciando cadere sul pavimento bagnato i vestiti, infilai il subligaculum e lo strophium ed entrai lentamente nella piscina fumante. Raggiunsi la seduta in marmo che correva tutto intorno al bordo e chiusi gli occhi.
Era tutto diverso da come lo avevo immaginato. Non mi sentivo affatto come se avessi appreso nozioni nuove quanto, piuttosto, come se fossi entrata finalmente in possesso degli strumenti con cui maturare una nuova consapevolezza sulla base di informazioni che avevo sempre posseduto.
Rei, ad esempio. Alcuni dei suoi atteggiamenti che non avevo compreso, per i quali avevo cercato una giustificazione così disperatamente da arrivare al punto di addossarmene la responsabilità, avevano trovato finalmente una spiegazione. Rei si sentiva in colpa.
Il giorno seguente l'inaspettata visita notturna di Alastor io lo avevo raggiunto all'ippodromo dove si allenava tutti i giorni con la biga e gli avevo raccontato tutto; Rei aveva nove anni ma era già calmo e serio come un adulto. Eppure non fu stupito come avrei pensato.
«Sapevo già della Sibilla e del Fuoco» mi disse, seduto accanto a me sulle gradinate sotto un sole prossimo al tramonto ma ancora rovente. «Perché ho sentito gli Equites parlarne. Tu, però, non devi dire a nessuno quello che hai visto e sentito ieri sera, va bene?»
«Va bene» risposi. «Me lo ha detto anche mia madre».
«Te l'ha detto anche tua madre ma sei venuta a raccontarmelo lo stesso» disse lui e mi diede un buffetto sulla fronte.
«Perché di te mi fido».
«E io manterrò il segreto».
Ero troppo piccola per rendermi conto a fondo di cosa desiderassi. Sapevo di volere Rei, su quello non avevo dubbi. E quindi invidiavo Yumi, perché poteva vivere insieme a lui e parlarci ogni volta che desiderava e perché sapeva che, qualunque ostacolo le avesse messo di fronte la vita, lui sarebbe sempre stato lì per lei. Nella mia mente di bambina, a quel ruolo avrebbe potuto assolvere solo un fratello.
«Vorrei che fossi mio fratello» gli dissi, fissandomi i sandali ricoperti di quella polvere rossastra che si alzava sempre dalla pista quando le bighe la percorrevano ad alta velocità.
«Presto avrai un fratello anche tu» rispose lui.
«Ma non è la stessa cosa» risposi, imbronciata. «Sarà piccolo».
«Crescerà».
«Ma sarà sempre troppo piccolo. Io vorrei un fratello grande, come te».
«Ma io sono qui, Ania, anche se non sono tuo fratello. Puoi contare su di me».
E io, infatti, ci contavo e avrei continuato a contarci, del tutto ignara del modo ignobile in cui, solo qualche anno dopo, avrebbe irrimediabilmente tradito la mia fiducia in modo irreparabile.
Questo capitolo mi ha fatto penare. Ma penare sul serio, eh, nel senso che l'ho scritto, cancellato e riscritto mille volte, poi non sapevo come spezzarlo, poi non trovavo una resa stilistica soddisfacente dei ricordi e poi quando l'ho trovata ho penato per trovare anche una soluzione grafica chiara... insomma è stato terribile. Se poi ci vogliamo anche aggiungere il fatto che io stessa sono già in condizioni psicofisiche penose di mio (60 gradi e aria condizionata rotta al lavoro, lo posso dire che ME STO A CONCALLÀ o no?) capirete bene che sforzo sovrumano io abbia fatto per riuscire a portarlo a termine. L'orario di pubblicazione è inedito perché in serata ho un matrimonio. Infatti sto scrivendo la postfazione con i capelli già acconciati. La figlia della parrucchiera ha detto che sembro una principessa e che ALLA SPOSA GLIE DO 'NA PISTA (testuali parole). Sarà davvero così? Troverò un principe dalla fluente chioma bionda? O tornerò a casa esattamente come ne sono uscita, cioè in compagnia del mio solito burbero pelatone? Lo scoprirete nel prossimo capitolo. Ah, sì, scoprirete anche cosa ha combinato Rei 🙄
AppleAnia
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