2.22 • UN VERO GENIO

Gilbert, senza nessuna grazia, mi strattonò e spintonò fino a casa sua. Una volta sulla soglia mi spinse dentro e, senza neanche consentirmi di muovere un passo e di assaporare l'atmosfera familiare di quella casa in cui, bene o male, avevo abitato, urlò:

«Genevieve!»

La Clement, sepolta, come al solito, sotto ai suoi stracci e ai suoi gioielli da quattro soldi, comparve all'ingresso.

«Signorina Mei» disse, avvicinandosi. «Che cosa è successo al tuo occhio?»

«Mi ha mento Ionascu» tagliai corto. «Lei che ci fa qui? Dov'è mio fratello?»

«Io... avevo da sbrigare delle faccende con Constantin... Daniel è casa, tornerò prima che si svegli...»

«Non devi giustificarti con lei» la interruppe, secco, Gilbert. «Recupera Viktor Mironov e tornate in superficie. Avverti Arianna. Dille che Melania è qui con me e che la riporto a casa io domani. Non è il caso che la veda così».

«No!» esclmai. «Non voglio che mia madre sappia che sono qui».

«Va'» disse Gilbert alla Clement, senza neanche rispondermi.

«Sì, brava» gli feci eco. «Va'».

La Clement si scambiò un'occhiata con Gilbert, poi ubbidì.

«Ci vediamo a scuola» sussurrò, tenendo basso lo sguardo.

Si era appena richiusa la porta alle spalle che Gilbert mi stava già rimproverando.

«Non puoi permetterti di parlare in quel modo a una tua insegnate» abbaiò.

Eppure, casualmente, lo avevo appena fatto. E non solo. Avevo anche sfoderato le zanne, davanti a un insegnate.

«Va' a farti un bagno» mi disse. «Ti preparo il caffè».

«Non ho un cambio» dissi.

Nonostante fossi umida e infangata, cambiarmi era proprio all'ultimo posto nella lista delle mie preoccupazioni. La mia affermazione aveva un altro scopo.

«Ci sono dei vestiti di Genevieve, nella stanza degli ospiti» rispose, infatti.

«Non li voglio i vestiti di Genevieve» gracchiai, senza farlo neanche finire di parlare. «Perché ci sono i suoi vestiti in casa sua?»

La mia assurda domanda aveva lasciato Gilbert talmente attonito da indurlo a fare un passo indietro. Stavo esagerando. Se ci fosse stato Ionascu, al suo posto, mi avrebbe fatto nero anche l'altro occhio. Gilbert, invece, sembrava talmente basito da non riuscire neanche ad aprire bocca.

«Lasci stare» dissi, voltandomi e dirigendomi, un po' malferma sulle gambe, verso le scale. «Vado a fare il bagno, allora».

Non era servito a molto. Cioè, dopo il bagno mi sentivo pulita e rinfrescata, ovviamente. Ma ero ancora ubriaca. E, soprattutto, nonostante l'acqua calda avesse sciolto un po' i miei muscoli contratti, mi sentivo ancora orripilata dall'idea di dover indossare i vestiti di quella là. Così mi avvolsi in un asciugamano nero trovato in bagno e raggiunsi Gilbert in cucina. Lo colsi nell'atto di versare il caffè nella tazza. Non appena mi vide, sbiancò.

«Perché non sei vestita?» mi chiese.

«Perché non ho un cambio» ripetei, e mi misi a sedere sulla panca.

Gilbert, dall'altra parte del tavolo, spinse la tazza verso di me, guardando altrove.

«Bevi questo e poi va' a stenderti un paio d'ore. Partiremo all'alba».

Però non era giusto. Mi aveva piantata in cucina senza dire una parola mentre io avrei avuto ancora un sacco di domande da fargli. Dovevo chiedergli di Rami, prima di tutto. Poi volevo approfondire quel discorso dei Reazionari. Della guerra e della sua malsana idea di provare a trattare con loro. Dovevo raccontargli della Romania e del mio incontro con i suoi parenti. E, in ultimo, doveva ancora rispondere alla mia domanda: perché c'erano i vestiti della Clement in casa sua? Cercai di stilare una lista mentale di tutti gli argomenti, in ordine di importanza.

Rami.
I Reazionari.
La guerra.
La Romania.
I vestiti della Clement.

Finii di bere il caffè e mi avviai al piano di sopra, sentendo la rabbia aumentare, gradino dopo gradino. Come si era permesso di venirmi a prendere da casa di Kirk con quell'atteggiamento dispotico da padre padrone? Per fare che cosa, poi? Per lasciarmi a bere quella brodaglia schifosa da sola e sbattermi la porta in faccia, come al solito.

Oltrepassai la porta della sua camera da letto poi ci ripensai. No. Non avrei più accettato di farmi trattare così. Bussai con più violenza di quanta ne avessi preventivata e lui venne ad aprirmi con aria scocciata.

«Va' a riposarti» mi disse. «Parleremo domani, quando sarai sobria».

Io però lo dribblai e mi intrufolai, senza invito, nella sua stanza. Dunque, la lista.

Rami.
I Reazionari.
La guerra.
La Romania.
I vestiti della Clement.

Avrei cominciato dell'argomento più importante: Rami.

«Perché ci sono i vestiti di quella là, in casa sua?» domandai, invece.

Ah no, avevo sbagliato. Però, ormai, l'avevo detto. Forse, parlare da sobria non sarebbe stata proprio una cattiva idea. Gilbert si voltò a guardarmi, poi tornò a sedersi alla sua scrivania ingombra di carte, senza rispondermi.

«La mette a disagio la domanda?» domandai.

«Mi mette a disagio il tuo comportamento» rispose, senza voltarsi. «Sembra che tu, anziché maturare, stia diventando sempre più scriteriata. Non voglio neanche sapere cosa tu abbia fatto per indurre Ionascu a picchiarti».

«Non sono io» risposi. «Sono le situazioni che si fanno sempre più impellenti e ingarbugliate».

«Va' a riposare» mi disse, per la terza volta.

«Ho parlato con sua sorella Corvina, in Romania» risposi.

Al diavolo la lista; quello sembrava un argomento in grado di catturare la sua attenzione. Gilbert, infatti, si immobilizzò, poi si voltò a guardarmi. Quindi aveva funzionato.

«Come hai detto?» chiese.

«Ho detto che ho incontrato sua sorella Corvina» ripetei, lasciandomi cadere sul letto intonso. «Ah, anche sua madre. Vecchiolina deliziosa. Mi ha quasi strangolata col medaglione».

«Non avresti dovuto andare a impicciarti a casa mia» ringhiò, saltando in piedi. «Come ti è venuto in mente?»

«Uriel è praticamente identico a Daniel» dissi, ignorando l'ennesimo rimprovero. «Ma non è un genio. Come è possibile?»

«Chi accidenti sarebbe Uriel?» domandò, fuori di sé.

«Suo nipote, direi» dissi, e mi sfuggì un singhiozzo. «Il figlio di sua sorella».

Gilbert mi guardò a bocca aperta per qualche attimo, poi tornò a sedere.

«Cazzo» disse.

«Cosa?» domandai.

Si alzò di nuovo in piedi e io mi alzai a mia volta.

«Basta con le domande» abbaiò. «Parleremo domani. Stasera non sei in condizioni».

«Io sono in condizioni» risposi. «È lei quello in difficoltà».

«Infatti» disse. «Ho bisogno di trovare alcune risposte. Lasciami solo».

«No» risposi, e me ne stupii io stessa. «Lei ha bisogno di trovare risposte? Sul serio? E io?»

Cercai di ripassare mentalmente tutti gli argomenti da affrontare, ma ormai nella mia testa regnava la confusione più furiosa. Decisi, quindi, di procedere a braccio.

«Anche io voglio sapere delle cose» continuai. «Voglio sapere perché non mi ricordo dell'esistenza di Rami Vanhanen, per esempio. Voglio sapere che ha intenzione di fare con i Reazionari».

Reclinai la testa per guardarlo bene in faccia.

«E voglio sapere perché ci sono i vestiti di quella in casa sua» aggiunsi, ricordandomene sul finale.

«Cosa hai detto di Rami Vanhanen?» chiese in un sussurro, sconvolto.

Beccato. Lui lo sapeva, sapeva cosa stesse succedendo. E non si limitava a saperlo. No, quasi certamente ne era anche l'artefice.

«Mi è comparso in classe da un giorno all'altro» ammisi. «Dopo le vacanze di Natale. Sembra che tutti siano convinti di conoscerlo almeno dall'inizio dell'anno. Io, invece, sono certa di non averlo mai visto prima. E non mi menta».

Gilbert si grattò furiosamente la testa, incasinandosi i capelli legati malamente, e poi si mise a sedere sul letto.

«Perché, con te, non va mai niente come stabilito?» mi chiese.

«Che ne so?» dissi. «Forse perché stabilite sempre le cose sbagliate?»

Ero alticcia e stavo parlando a caso.

«Forse hai ragione» rispose, con un filo di voce, quando ormai avevo dimenticato cosa avessi detto. «Forse ho sbagliato tutto, con te».

«Non è mai troppo tardi» proposi, e mi misi a sedere accanto a lui. «Per esempio potrebbe cominciare a rispondere a qualcuna delle mie domande».

«Non posso farlo» disse, dopo un attimo di esitazione. «Non ancora. Mi dispiace. Se avessi saputo che eri così sveglia, forse.... Non so, sembravi così stupida...»

«Non ho capito» lo interruppi. «Sarebbe un complimento?»

«Sì, certo» disse, come se fosse scontato. «Sì, non avevo idea che riuscissi, in così poco tempo e con così pochi elementi... eppure, basandomi sulla prima impressione, pensavo che tu fossi...»

«Ho capito» lo interruppi, perché non volevo che dicesse un'altra volta che gli ero sembrata una stupida. «Invece sono abbastanza intelligente da pensare che, se riconosce il suo errore, possa provare a porvi rimedio. Mi dia qualche risposta, adesso».

«Non posso farlo e lo sai bene» bisbigliò. «Non su Rami. Né su questo Uriel, di cui ignoravo persino l'esistenza».

Però, pur non volendo, una risposta me l'aveva già data. Lui sapeva cosa stesse accadendo con Rami. Non stavo impazzendo, quindi; la maledizione non mi aveva bruciato il cervello. C'era una spiegazione. Già questo, per me, rappresentava un sollievo che, per il momento, poteva essere sufficiente. E poi, se in qualche modo c'era Gilbert dietro quello strano fenomeno, significava che potevo stare tranquilla. Lui, al contrario di me, sapeva sempre quello che faceva.

«Va bene» concessi. «Quando avrò compiuto diciotto anni».

«Certo» disse. «Te lo prometto».

«E dei Reazionari e della guerra, invece? Può dirmi qualcosa?»

«Dei Reazionari e della guerra» ripetè, sollevato. «Dei Reazionari e della guerra posso dirti quello che vuoi».

Però avevo bevuto troppo per stare dietro a tutti quei nomi e quei ragionamenti basati su ipotesi e congetture. Una cosa, tuttavia, l'avevo capita: Gilbert era davvero intenzionato ad andare a trattare con loro.

«Non può farlo» gli dissi. «È troppo pericoloso. Sa cosa pensano dei geni, loro...»

«Certo, lo so bene» disse, passandosi una mano tra i capelli. «Pensa se attaccassero. Se la mia ipotesi sul reclutamento delle Creature degli Inferi fosse corretta... ne verrebbe fuori una guerra totale senza precedenti storici. Abbiamo il dovere di fare di tutto per evitarlo».

«Abbiamo?»

«Ho» si corresse.

«Perché lei sì e io no?»

«Perché io sono un mediatore. Una guerra tra geni e Umani, per me, sarebbe un fallimento personale».

Non avevo mai visto Gilbert tanto costernato. Avrei dovuto dire qualcosa di consolante ma la verità era che, in fondo, non avrei potuto dargli torto. Anche io, al posto suo, mi sarei addossata tutta la colpa. Tentai di poggiargli una mano sul braccio ma lui si ritrasse immediatamente.

«Scusi» dissi. «Vorrei fare qualcosa per aiutarla».

«Non puoi. Non c'è niente che si possa fare, per aiutarmi» rispose.

«Kirk, l'anno scorso, disse che...»

Mi interruppi. La conversazione che avevo origliato, in quella stessa casa, mi tornò in mente con violenza.

Ci sarebbe una sola alternativa altrettanto valida: dovresti farlo tu, gli aveva detto Kirk.

Forse aveva ragione. Gilbert era considerato il genio più forte di tutti. Aveva già il numen degli Incendiari, con cui era nato, e quello dei Velatori, acquisito chissà come. Chissà da chi, più che altro. Con il numen dei Vendicatori... non avrebbe avuto più rivali. Nessun Reazionario sarebbe più stato una minaccia per lui. Sarebbe potuto andare a cercare di trattare con loro senza correre alcun rischio e, se anche non ci fosse riuscito, sarebbe stato in grado di intervenire contro di loro in modo da evitare la guerra.

Perché una guerra sarebbe stata la fine.

Il ragazzo che amavo più della mia vita era un Eques, e così anche mio padre. I miei migliori amici erano soldati. Nessuno di loro avrebbe potuto tirarsi indietro, rifiutando una chiamata alle armi. E ognuno di loro avrebbe corso il rischio di ritrovarsi faccia a faccia con Kirk nella condizione di dover attaccare per primo.

No. Se c'era un modo per evitarlo l'avrei fatto. Non mi importava del prezzo da pagare.

«Cosa ti ha detto?» domandò Gilbert, poiché mi ero ammutolita, persa nei miei pensieri sconclusionati.

Non avevo coraggio di dirlo a voce alta. Ma era una soluzione. Era la soluzione. Lui avrebbe rifiutato, ovviamente. Non sarei mai riuscita a convincerlo con le parole. Però avevo un'arma dalla mia parte.

Bieca, meschina.

Ero identica alla ragazza che aveva amato.

Patetica.

Mi alzai in piedi e lui sollevò uno sguardo stanco su di me.

«Ti senti male?» mi chiese.

Portai le mani all'asciugamano.

Avrebbe dovuto essere Rei.

No. Un vero genio non avrebbe anteposto un proprio egoistico bisogno al bene della collettività. E io volevo essere un vero genio. Ero stanca di stare a metà. Avevo bisogno di sentirmi davvero parte di qualcosa. Era arrivato il momento. Presi coraggio e, senza darmi il tempo di cambiare idea, mi liberai dell'asciugamano.

O meglio, manifestai l'intenzione di farlo. Perché Gilbert, balzando in piedi con uno scatto, mi aveva afferrato entrambe le mani prima che riuscissi a disfarmene del tutto. Non avevo coraggio di guardarlo. E lui, evidentemente, non aveva coraggio di parlare, né di lasciarmi andare rischiando che portassi a compimento il mio intento. Così rimanemmo qualche secondo in stallo, immobili e in silenzio.

«Per favore, no» sussurrò.

«Voglio farlo» risposi, con un filo di voce. «È la cosa giusta da fare. Lo sa anche lei».

«No. È la cosa peggiore che tu possa fare».

«La cosa peggiore sarebbe lasciare che la uccidano o che scoppi la guerra».

Mi girava la testa e stava cominciando a venirmi la nausea. Mi stava rifiutando. Ebbi un mancamento e mi portai istintivamente le mani alle tempie pulsanti. Gilbert ne approfittò per tentare malamente di legarmi l'asciugamano al torace e poi, maledicendolo, per scardinare la coperta dal letto rifatto e avvolgermela intorno alle spalle.

«Stenditi un attimo» mi disse.

Ubbidii. Non ero sicura di riuscire a reggermi in piedi ancora molto a lungo. Mi lasciai cadere sul suo letto e mi appallottolai su un fianco.

«... sconsiderata ragazzetta».

«Ma non mi rimproveri, le pare il momento?» biascicai, già mezza addormentata.

«È sempre il momento» rispose.

«Va bene» concessi, affondando il viso sul cuscino. «Finché mi rimprovera significa che ci tiene».

Forse ribatté qualcosa, forse no. Le palpebre si erano ormai fatte pesantissime.

Allora. Devo dire ben due cose, stasera.
La prima è che ho pubblicato, per la prima volta su SPQT, un capitolo scabroso.
La seconda è che, questa settimana, la pubblicazione dei capitoli potrebbe subire alcune variazioni perché, durante il weekend, dovrò lasciare Tivoli (😱) per recarmi in terre ostili e sconosciute (😱😱).
La terza è che ho messo tutte le virgole al posto giusto.

... no su seriamente l'angolo autrice con tutte le virgole al posto giusto non si può proprio guardare. Essù. E poi avevo detto che le cose da dire sarebbero state due, che è mo sta cafonata. Facciamo i seri.

AppleAnia

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