2.21 • GRANDE PUFFO BEVE IL GIN

Quando avevo lasciato il sotterraneo della Setta, quasi un anno prima, non avrei mai pensato di farci ritorno. Non avrei neanche mai pensato di sottopormi nuovamente e volontariamente alla maledizione di stordimento. L'ultima volta avevo accettato di farmi stordire, tanta era stata la smania di tornare in superficie.

Però, quella volta, c'era Gilbert con me. Sapevo che non mi sarebbe accaduto niente di male. Affidarmi a Viktor era stata sicuramente una scelta più avventata. Ma non avrei potuto fare altrimenti. Avevo bisogno di vederlo.

Tutto sembrava identico a come lo avevo lasciato, notai, riprendendo coscienza a poco a poco: l'altro soffitto di pietra grezza, la finta luce solare, la piazza centrale con le panchine e le siepi fiorite, l'intricato labirinto di stradine e vicoli. Identico, ma notevolmente meno affollato.

«Grazie mille» dissi a Viktor.

«Figurati» rispose, con le mani in tasca. «Dov'è che andiamo, adesso?»

«In Accademia» dissi, guardandomi intorno cercando di orientarmi. «Sai dov'è?»

«Certo» rispose. «Andiamo».

Sorprendentemente, sarei stata in grado di ritrovarla anche da sola. Tutto, intorno a me, sembrava terribilmente familiare. Anche l'Accademia con il portico e la grossa piazza davanti. E il suo portone sprangato.

«Non c'è nessuno?» domandai.

Non sapevo dove abitasse Kirk. Se non lo avessi intercettato in Accademia non avrei proprio avuto idea di dove andarlo a cercare. Avrei chiesto a qualcuno a caso, magari. Di sicuro, in quel posto, non c'era genio che non lo conoscesse.

«Quando il portone è sbarrato significa che i vertici dell'esercito sono in riunione» rispose Viktor. «Aspettiamo qui».

«Quanto tempo è passato da quando siamo partiti?» chiesi.

Alla fine avevo insistito e avevo convinto Viktor a partire dopo gli allenamenti. Non avrei fatto un'assenza, proprio quel giorno. Non avrei dato quella soddisfazione a Ionascu. Quindi, anziché all'ora di pranzo come concordato, ci eravamo messi in viaggio sul calar della sera.

«Un paio d'ore circa» rispose.

«Quindi è notte fonda» sussurrai. «È preoccupante che siano in riunione a quest'ora?»

«Preoccupante per chi?» mi chiese.

Però, a differenza di mia madre, Viktor non stava insinuando. Stava solo chiedendo.

«Per tutti» risposi. «Per l'equilibrio che si è creato tra le parti».

«Quell'equilibrio è talmente instabile che se il tuo magister mollasse il colpo finirebbe tutto in pezzi».

«Sì, ma lui non mollerà» esclami.

«Spero che tu abbia ragione, Ania».

Ci sedemmo e attendemmo per una, forse due ore ancora, finché un rumore sordo di chiavistelli e ingranaggi non ci fece saltare in piedi. Il portone si aprì e ne fuoriuscì una vera e propria folla di geni.

«Non ci posso credere» sentii, prima ancora di riuscire a distinguere un volto noto tra tutti quelli dei soldati.

«Kirk!» esclamai, raggiungendolo di corsa e gettandogli d'impulso le braccia al collo.

«Che accidenti ci fai qui?» mi chiese, dandomi qualche colpetto sulla schiena.

«Ho bisogno di te» piagnucolai e indietreggiai in modo da poterlo guardare in viso.

Era lo stesso di sempre: gli occhi di ghiaccio, i capelli neri un po' mossi, la barba di qualche giorno. L'espressione impunita. Avevo temuto così tanto quell'incontro, terrorizzata dall'idea di trovarmi faccia faccia col viso deturpato di un genio debole e sofferente, lo specchio della mia coscienza ferita, del mio senso di colpa urlante.

Ma Kirk era sempre Kirk.

Aveva mezza faccia in meno, era vero. La cicatrice si diramava sulla metà destra del suo viso come quel che resta di un percorso per le biglie sul bagnasciuga dopo il passaggio di un'onda. Ma era lui. Era sempre bello. Era sempre il capo. Non era cambiato niente. Era insieme ad altri geni, tutti in divisa, tutti un passo dietro di lui.

«Che è successo alla tua faccia?» mi chiese. «Certo, potresti pensare che dovrei preoccuparmi della mia, piuttosto».

«Niente di grave» mi affrettai a rispondere, carezzandomi l'occhio gonfio e nero. «Un piccolo incidente con l'harpastum».

«Giocate ad harpastum?» chiese, sbalordito.

«Non per nostra scelta» intervenne Viktor, anche se a lui l'harpastum piaceva eccome, ne ero certa.

«Ah, Viktor» disse Kirk, lanciandomi un ultimo sguardo indagatore e tendendo la mano al mio compagno. «Felice di rivederti».

Quindi si conoscevano, addirittura. Li osservai stupita stringersi la mano ma poi mi accorsi che l'attenzione di Viktor era stata catturata da altro: un ragazzo, un altro soldato, alto, di una magrezza impressionante, con i capelli rossi tagliati completamente a casaccio, il viso talmente ricoperto dalle lentiggini da sembrare abbronzato e una protesi di un materiale metallico al posto della gamba sinistra.

«Lui è Agenore» disse Kirk indicando il rosso con un movimento della testa.

«Puoi scusarci un attimo?» domandai a Viktor, poiché non mi sembrava di avere tempo per ulteriori presentazioni.

«Ci mancherebbe» disse.

Raggiunse quell'Agenore e gli altri geni, con alcuni dei quali era chiaramente in confidenza, e lasciarono insieme l'Accademia.

«Vieni con me» mi esortò Kirk.

Lo seguii in silenzio attraverso un groviglio di vicoletti polverosi, brulicanti di persone nonostante l'ora tarda, fino a una strada chiusa che terminava in una costruzione dalla facciata chiara, del tutto simile alle altre.

«È casa tua?» chiesi, perplessa.

«Sì» rispose, salendo gli scalini e girando la chiave nella serratura della porta di ingresso. «Perché questo stupore?»

«No, niente» dissi, a disagio. «Credevo che la casa del capo fosse più... cioè... visto il palazzo del Pontifex a Villa Adriana...»

«Ah, ho capito» disse, invitandomi a entrare. «Mi dispiace averti delusa, ma questa era la casa di Alastor, quindi ora è la mia. Non ci sono differenze di classe, tra geni».

«Sì, giusto» ammisi. «Così dovrebbe essere dappertutto».

Kirk accese il camino e mi invitò a sedermi accanto al fuoco per scaldarmi, ma io esitai.

«Jurgen è qui?» chiesi, con un filo di voce.

«Sì, è al piano di sopra» rispose lui, serio. «Vuoi vederlo?»

Volevo vederlo? Non ero sicura di essere preparata.

«Sì, è meglio se vieni a vederlo» aggiunse, visto il mio tentennamento. «Le cose sono sempre più terribili quando dobbiamo immaginarcele».

Jurgen era proprio come lo avevo lasciato. Era stato spostato dal divano di casa di Gilbert al letto della camera degli ospiti di casa di Kirk, ma, per il resto, sembrava che per lui il tempo non fosse passato. Non era dimagrito, non aveva un brutto colorito e tutto sembrava fuorché malato. Pareva solo addormentato. Gli sfiorai una guancia e sentii che era tiepida.

Kirk si passò una mano tra i capelli e si mise a sedere su un sgabello. Era proprio lì, vicino al letto. Probabilmente aveva passato molte ore seduto su quello sgabello, al fianco del suo amico, aspettando che si svegliasse.

«Kirk» sussurrai, e lui alzò lo sguardo su di me. «Mi dispiace tanto. È tutta colpa mia».

«Non è colpa tua» mi rispose, dopo qualche attimo di silenzio. «Jurgen è un genio intelligente e potente. Ha agito consapevolmente. Non devi preoccuparti».

Ingoiai a forza il groppo che avevo alla gola. Non dovevo mettermi a piangere. Non ero io, lì, ad aver bisogno di essere consolata.

«E tu?» gli chiesi, carezzai un'ultima volta il viso di Jurgen e feci il giro del letto per avvicinarmi a Kirk. «Tu stai bene?»

«Io sto bene» rispose e, per la prima volta da quando era arrivata, mi rivolse un sorriso stanco. «Tu, piuttosto. Sei impazzita?»

«Perché?» domandai, stupita.

«Come perché? Ti sei fatta stordire e accompagnare da un genio che a malapena conosci. Se non fosse stato Viktor, ma un altro...»

«Per favore» lo interruppi, esausta.

I miei ricordi si interrompevano davanti a casa di Viktor. Però, evidentemente, avevamo camminato a lungo, visto come mi sentivo stremata. Probabilmente eravamo dovuti saltare nel dirupo, proprio come avevo fatto con Gilbert la prima volta.

«Non metterti a farmi la paternale anche tu, ti prego» sussurrai. «Ho già mia madre per quello. E Gilbert. E la mia amica Yumi».

«Scusami» rispose. «Ma avresti potuto chiamarmi. Sarei venuto io da te. Sai che posso farlo».

«Sì» ammisi. «Ma non me la sono sentita».

«E perché?» domandò.

Già, perché? Perché, in fondo, temevo che mi odiasse. Per la cicatrice, per quello che era successo a Jurgen. Perché, da quando ero comparsa nella sua vita, non avevo fatto altro che creargli problemi.

«Andiamo a parlare di sotto» disse, alzandosi in piedi e lanciando un'occhiata a Jurgen. «Hai bisogno di scaldarti».

Ci accomodammo sul tappeto, davanti al fuoco, e lui si accese una sigaretta.

«Che cosa è successo?» mi domandò.

«Ricordi i gemelli Vanhanen?»

«Certo».

«Dimmi una cosa. Quanti sono?»

Mi fissò per un po' senza parlare, poi fece un tiro.

«Sono tre» rispose espirando il fumo che subito venne risucchiato dalla canna fumaria del camino.

Ero rimasta piuttosto calma, fino a quel momento. Era una cosa strana, certo. Non più strana di tante altre cose, avevo pensato. Avevo scoperto dell'esistenza di Tibur, di essere la nipote della Sibilla Elissa e di Alastor. Cosa poteva mai essere, a confronto, un terzo gemello Vanhanen? Ci sarebbe stata una spiegazione, avevo pensato. Come c'è sempre stata, per tutto il resto.

Ma, invece, questa volta, non c'era. Era finita. Kirk era la mia ultima speranza. Non era un sogno, né uno scherzo. Stava succedendo davvero.

«Perché stai piangendo?» chiese.

Perché stavo piangendo? Perché, nonostante avessi fatto di tutto per negarlo e minimizzarlo, ero terrorizzata.

Però, dopo aver raccontato tutto a Kirk, mi sentii subito meglio. Non mi aveva affatto presa per pazza.

«È una cosa strana, è vero» disse, infine. «Hai completamente rimosso l'esistenza di Rami. Devi chiedere a Gilbert. Vedrai che saprà darti una spiegazione».

«Lui è qui?» chiesi, tirando su con il naso.

«Sì» rispose, mettendomi una mano sulla spalla. «Andiamo, dai. Ti accompagno».

Sarebbe andato tutto bene. Gilbert avrebbe sicuramente saputo aiutarmi. Ci alzammo e ci incamminammo verso l'ingresso.

«È a casa sua con Genevieve» aggiunse.

Mi paralizzai.

«Con chi?» gracchiai, sperando di aver capito male.

«Genevieve. Non è la tua professoressa?» domandò, perplesso.

«Non ci voglio andare».

Kirk mi guardò con le sopracciglia aggrottate.

«Sei sicura di sentirti bene?» mi chiese.

«Sì» mentii. «Senti, hai qualcosa da bere?»

Mi lanciò un'ultima occhiata sospettosa, poi si alzò e uscì dalla sala, per rientrare con una bottiglia e due bicchieri in mano.

«Tieni, bevi questo» disse, porgendomi un bicchiere.

Trangugiai la bevanda sentendo prima la gola e poi la trachea in fiamme. Era esattamente quello di cui avevo bisogno.

«A che stai pensando?» mi chiese, dopo il terzo bicchiere.

«A Grande Puffo» risposi.

Lo avevo detto sul serio? Nonostante fossi seduta per terra, mi sentivo le ginocchia molli. E le mani sudate.

«Chi o cosa sarebbe Grande Puffo?» mi chiese Kirk.

Gli spiegai, sganasciandomi dalle risate senza alcuna ragione, tutta la situazione del villaggio dei Puffi. Grande Puffo era il capo indiscusso della comunità e a nessuno era mai venuto in mente di contestarlo. Non che ne avessero mai avuto motivo, comunque, poiché lui agiva sempre nell'interesse della collettività.

«Proprio come te, Kirk» dissi. «E, proprio come te, lui si veste come tutti gli altri e vive in una casa a forma di fungo identica a quelle degli altri Puffi. Non è più grande e non si trova in una posizione migliore nel villaggio. Mettiamoci pure che i Puffi sono tutti blu, proprio come i geni...»

Kirk, a sua volta ubriaco, aveva trovato irresistibile tutta la faccenda. E, così, avevamo finito la bottiglia.

«Mi dispiace non averti saputo aiutare» disse, a un tratto, tornando serio. «Ma sono felice che tu abbia pensato di venire da me».

«Perché non avrei dovuto? Sei sempre stato sincero con me».

«Ho sempre saputo chi fossi» disse. «Ma ho aspettato il momento peggiore per dirtelo. Non mi do pace da quel giorno, per questa cosa».

«Non fa niente» mi affrettai a dire.

Era una cosa a cui non avevo neanche mai pensato, finché non me lo aveva fatto notare mia madre.

«Credevo che mi disprezzassi» disse. «Pensavo che non ci saremmo più visti».

«Anche io pensavo una cosa del genere» sussurrai. «Ma pensavo che fosse per colpa mia».

«La prossima volta, allora, facciamo in modo di parlare, anziché pensare» disse, e io annuii.

«Ania» sussurrò, poco dopo. «Chi è l'erede? Se non lo scopriamo non riusciremo mai a prendere il Lapis Niger».

«Non ne ho idea» ammisi. «Ci ho pensato tanto ma non ne sono venuta a capo. Ho così tanti pensieri, Kirk. Certe volte sembra che la testa mi stia per scoppiare».

«Mi capita la stessa cosa» disse.

Kirk era diventato, improvvisamente, serissimo.

«Lo scopriremo» dissi. «Prenderemo la pietra e guariremo Jurgen».

Lui alzò il suo sguardo di ghiaccio su di me e sorrise.

«Grazie» disse. «Ma non è solo per Jurgen. La pietra ci serve. La guerra si sta avvicinando».

«La guerra?»

«Sì» confermò, e mi prese delicatamente una mano. «I Reazionari si muovono nell'ombra. Ma attaccheranno presto, sono sicuro. E noi non possiamo permetterlo».

Non mi piaceva essere toccata da qualcuno che non fosse Rei. Eccetto Kirk. Il suo tocco era caldo e confortante. E la mia testa era confusa e leggera. Lasciai che intrecciasse le sue dita alle mie.

«E ho paura che, quando accadrà, saremo nemici» disse, in un sussurro.

Ero ubriaca. Avrei dovuto tapparmi la bocca. Perché, se avessi parlato, mi sarei probabilmente lasciata sfuggire qualcosa che non avevo intenzione di dire. Ma la possibilità, stranamente, non mi spaventava per niente. Non con lui. Ero stufa dei segreti e delle mezze verità.

«L'anno scorso mi dicesti che, se avessi ceduto il mio potere a qualcuno, avrei potuto evitare la guerra» dissi.

Lui lasciò la mia mano con un scatto e l'improvvisa privazione di quel contatto, stranamente, mi lasciò una sensazione di insoddisfazione.

«Sì, è vero, l'ho detto» disse. «Ma non intendevo certo istigarti a immolarti per la causa. Sopratutto perché non è la tua causa».

«Perché non è la mia causa?» chiesi. «Sono un genio tanto quanto voi. Non voglio che succeda qualcosa alla mia famiglia. A Gilbert. O a te».

«Grazie» disse e, per la prima volta da quando lo avevo conosciuto, mi sembrò imbarazzato. «Ma nessuno ti chiederebbe un sacrificio del genere. Non è necessario. Gilbert proverà a risolvere con la diplomazia».

«Cosa?» domandai, schizzando in piedi. «Vuole trattare con i Reazionari?»

«Lui prova a trattare con tutti».

«Ma è pericolosissimo» starnazzai. «Non deve farlo!»

«Prova a dirglielo» rispose, stringendosi nelle spalle. «Neanche io sono d'accordo. Ma lui è convinto di avere una possibilità».

La porta d'ingresso si spalancò di colpo e Gilbert comparve sulla soglia.

«Parlavate di me?» tuonò.

«Sì» rispose Kirk, senza neanche alzarsi. «Vuoi un bicchiere di gin? Ah, no. È finito».

Gilbert entrò a grandi falcate e avanzò fino a raggiungermi.

«Ma che hai tu, in testa?» mi domandò. «Ho incontrato Viktor Mironov in Accademia. Mi ha detto che eri scesa con lui».

«Avevo bisogno di vedere Kirk» dissi.

«Devi smetterla di bere» abbaiò. «E di comportati in questo modo. Devi smetterla di prendere iniziative».

«Cerca di calmarti» gli disse Kirk. «Non è mica successo niente».

Ma Gilbert era così furioso da spaventarmi.

«Seguimi fuori» intimò. «Ti riaccompagno in superficie».

«Solo se vuoi farlo» gli fece eco Kirk. «Per me puoi anche rimanere qui».

«Sì, va bene» concessi.

Mi chinai su Kirk, che era rimasto seduto per terra. Gli presi il viso tra le mani e gli scoccai un bacio sulla guancia ustionata.

«Grazie» gli dissi. «A presto».

«Ah, Gilbert» disse lui, continuando però a guardare me. «Non farla stordire. Che veda pure il punto d'accesso».

«Non credo sia una buona idea» rispose Gilbert. «La sua mente è debole».

«Non mi interessa quello che credi» tagliò corto. «La sua mente non è debole. E il controllo degli accessi, che ti piaccia o meno, è ancora una mia competenza».

Gilbert mi lanciò uno sguardo infuocato.

«Andiamo» comandò.

Insomma qui mancano altri nove capitoli e poi abbiamo finito anche la parte due. Perché sì, questo secondo coso sarà composto di trenta capitoli e non di quaranta come il primo coso. Per il terzo vedremo, ho alcune notizie da darvi ma lo farò più avanti.
Ma veniamo a noi. Ieri sera sono uscita a cena e sono andata a scofanarmi in un ristorante di pesce favoloso che si trova proprio sopra Villa Gregoriana (se guardate la mappa al primo capitolo si trova in pratica in quel complesso di edifici segnati come mensa e dormitori) e ho scattato una foto ripugnante del Tempio di Vesta apposta per voi:

Ovviamente basta cercare Tempio di Vesta Tivoli su google per trovare foto di gran lunga migliori di questa merda fatta col telefono e l'esposizione di 3 secondi (che non so manco che significa ma so che bisogna rimanere fermi e io ero pure un po' alticcia quindi vabbè). Però questa foto, per quanto brutta e scattata di notte e da lontano, l'ha scattata AppleAnia in persona (mica Triccheballacche) appositamente per i propri followers in visibilio (signor Sindaco di Tivoli, se stai leggendo e stai pensando di iniziare a retribuire questa mia costante e fruttuosa promozione del territorio con conseguente innegabile e cospicuo incremento del turismo, IO NON MI OFFENDO).

AppleAnia

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