2.20 • ASSETTO DA GUERRA
Ci mancava solo l'harpastum a rendere la mia vita ancora più odiosa di quanto già non fosse.
Così, oltre Devon, la scuola, Rami, le preoccupazioni, la lontananza forzata da mio padre, da Rei e da Gilbert, c'erano anche gli allenamenti quotidiani. Ionascu, a quanto sembrava, aveva intenzione di organizzare un torneo scolastico. La squadra vincitrice avrebbe poi potuto accedere al torneo dei vincitori, con le squadre vincitrici delle altre scuole.
Il che significava che esistessero altre scuole. E già questa, per me, era stata una scoperta sconvolgente.
Oltre agli allenamenti fisici intensivi a cui Ionascu ci sottoponeva ogni giorno, c'erano le regole del gioco da imparare. Il torneo sarebbe iniziato in concomitanza al nuovo anno scolastico, quindi a settembre. Considerato che mai nessuno di noi aveva tenuto in mano un pallone ovale, avevamo pochissimo tempo.
Il campo di pozzolana era diviso in due parti uguali da un riga. Ognuna delle due metà campo era a sua volta suddivisa in due sezioni, di cui quella esterna, più sottile, era chiamata 'ceppi'.
Ceppi, comunque, non era solo un nome. La divisa da harpastum, infatti, prevedeva anche un accessorio di cui, all'inizio, non avevo colto il senso: un'alta cavigliera di ferro che Ionascu, a inizio allenamento, chiudeva personalmente con una chiave a tutti i giocatori, esclusi i Venatores. Quella cavigliera serviva per essere legati alla catena in caso di imprigionamento. Da qui, ceppi.
All'inizio della partita tre palloni venivano posti sulla linea mediana del campo e i giocatori, sette per squadra, si disponevano sul fondo della loro metà campo, subito prima dei ceppi. Al fischio di inizio, i tre giocatori sine imperio di ogni squadra dovevano scattare in avanti per cercare di accaparrarsi i palloni prima degli avversari.
Dopodiché, per i sine imperio, il gioco si svolgeva con regole del tutto simili a quelle della palla prigionera: lanciando una delle palle, senza oltrepassare la linea di centrocampo, dovevano colpire il corpo dell'avversario, imprigionandolo. Se l'avversario, invece, fosse riuscito a bloccare il pallone, sarebbe stato il lanciatore a finire imprigionato. I prigionieri di entrambe le squadre potevano poi liberarsi solo prendendo al volo una palla lanciata dai loro compagni. Era tutto chiaro e semplice.
C'era, ovviamente, qualche variazione cruenta.
Perché le partite di harpastum non erano solo partite. Erano una guerra simulata senza esclusione di colpi. E quindi, mentre i sine imperio erano impegnati a prendersi a pallonate l'un l'altro in modo da imprigionare gli avversari, i geni e i Magi, ai quali era consentito usare i propri poteri (zanne escluse) a mani nude, giocavano la vera partita.
I Venatores, arroccati in una sezione di campo rialzata a forma di lunetta adiacente alla linea dei ceppi e chiamata 'serraglio', coordinavano la le azioni militari e, intanto, facevano attenzione a non essere colpiti e imprigionati.
I Magi erano posizionati nei pressi del serraglio in difesa del Venator. Imprigionare il Venator, infatti, significava terminare e vincere la partita, indipendentemente dal numero di giocatori rimasti in campo. I geni si affrontavano tra loro o con i Magi per agevolare o mettere in difficoltà i sine imperio e in attacco o in difesa dei Venatores.
Oltre a mordere e accecare, come ci aveva spiegato Ionascu, tutto era consentito. Anche il violento placcaggio di spalla che mi aveva appena mandata a zampe all'aria.
«Artigli del Flagello, Ania! Scusami!» disse Viktor, trafelato, affrettandosi a porgermi la mano per aiutarmi ad alzarmi. «Ti ho fatto male?»
«No, non ti preoccupare» dissi, mettendomi in piedi.
Giusto il tempo di lasciare la sua mano e Fabio l'aveva già placcato a sua volta e steso e, entrambi, si stavano rotolando nella pozzolana ghiacciata.
Odiavo quello sport. Odiavo qualunque cosa mi costringesse al contatto fisico con gli Umani.
I corpi accaldati e adrenalinici dei miei compagni mi mandavano fuori di testa. Ogni loro muscolo o organo era in assetto da guerra: il battito cardiaco accelerato, il respiro affannoso, le pupille dilatate. Era uno stato che li poneva in una condizione di maggiore attenzione che amplificava le risposte a qualsiasi stimolo: era sufficiente un mezzo insulto per scatenare reazioni inconsulte.
Per fortuna Ionascu, senza neanche provare a nascondere tutto il suo disprezzo, mi aveva consentito di tenere il medaglione al collo. Per il resto, la nostra tenuta ginnica era rimasta invariata: cavigliera per tutti, subligaculum e strophium per le ragazze, subligaculum e basta per i ragazzi. Ed era necessario prestare la massima attenzione nella legatura perché, altrimenti, al primo placcaggio ci saremmo ritrovati nudi. Tutte le ragazze, infatti, in neanche mezza giornata, avevano acquisito la manualità di un vecchio pescatore.
«Ania, attenta» pensò Roze.
L'avevo scoperto il primo giorno di allenamento. I Venatores erano in grado di comunicare telepaticamente con i geni della loro squadra.
Ancora frastornata per il placcaggio di Viktor, schivai per un pelo un assalto di Taide.
A differenza degli altri, in me non ardeva alcun fuoco agonistico. Cioè, non me ne sarebbe potuto fregare di meno della palla, della partita, del torneo e dell'harpastum in generale. Le mie uniche preoccupazioni erano evitare in tutti i modi il contatto fisico con gli Umani, che in quelle condizioni mi facevano orrore, e non rimanere col sedere di fuori.
Per Taide, invece, sembrava che ne andasse della vita. Visto che la sua aggressione nei miei confronti non era andata a segno, si era sbilanciata in avanti. Peró, purtroppo, si era subito ripresa.
La vidi muovere le mani nel complicato rituale di gesti in cui i Magi erano soliti esibirsi prima di attaccare e che, in genere, poteva essere il momento buono per contrattaccarli e batterli.
A me, però non fregava niente di contrattaccare e batterla.
Ma Taide, in ogni caso, non aveva la minima intenzione di attaccare me. La sfera di potere che si sprigionò dalle sue mani sfrecció sopra la mia testa e si schiantò contro qualcosa o qualcuno alle mie spalle.
«Rami!» urlò Roze, vedendolo a terra. Poi si rivolse a Jacopo, fermo nel serraglio della sua metà campo: «L'ha fatto apposta! L'hai vista?»
Certo che l'aveva fatto apposta. Quel colpo non era diretto a me, ci avrei scommesso. Era passato sopra la mia testa di almeno venti centimetri, e Taide non era solita lanciare attacchi così scoordinati e approssimativi. Ma non solo. Stava anche ridendo.
Rami era caduto malamente a terra e, quando aveva provato a rialzarsi, non ci era riuscito. Ci aveva provato due o tre volte, barcollando a ogni tentativo prima di accasciarsi di nuovo, poi aveva desistito.
«Ti sei fatto male?» gli domandai, chinandomi su di lui.
Ero stata io a buttarlo in mezzo a quell'orribile squadra. Mi sentivo responsabile.
«No» disse, con un filo di voce, portandosi una mano alla fronte. «Ma mi gira la testa».
«È normale» gli disse Nate. «Ti passerà in pochi minuti. Vieni, ti accompagno nello spogliatoio».
Ma Ionascu dov'era? Taide aveva deliberatamente colpito un sine imperio senza palla in mano, azione vietatissima dal regolamento, e avrebbe dovuto essere punita.
Rami, nonostante avesse passato un braccio intorno alle spalle di Nate, barcollava vistosamente a ogni passo, mentre tutti noi lo guardavamo allontanarsi attoniti.
«Jacopo» disse Roze, rompendo il silenzio, con la voce stranamente ferma. «Taide l'ha colpito di proposito. Deve essere espulsa».
«Cammina meglio adesso di prima» le rispose Taide, prima che Jacopo potesse aprire bocca.
«Certo che sei proprio una poveraccia» mi ritrovai a dire.
«Prego?» mi chiese lei.
Non avrei voluto raccogliere. Non mi importava niente di lei né dell'harpastum. Ma non tolleravo quel genere di ingiustizia.
«Sei una poveraccia» ripetei.
Taide, alta tutta una testa più di me, mi si avvicinò minacciosa, con la siepe di capelli ricci che si portava in testa che ondeggiava a ogni suo passo.
«Non ho capito» le dissi, quando mi ebbe raggiunta, nel silenzio più totale. «Pensi di farmi paura?»
Chiedi a Roberta Rispoli e a Nerissa che fine fanno le stronze come te che incrociano la mia strada.
«Fatela finita!» urlò Yumi. «Ania, lascia perdere».
«Va' a scusarti con Rami» dissi a Taide. «Per averlo colpito e per averlo preso in giro».
«È arrivata la giustiziera col culone» rise. «Va' a dare ordini a qualcun altro».
«Non mi interessa la giustizia» le risposi. «Io mi occupo di vendetta. Cerca di non scordartelo».
Solo per un attimo cambiò espressione. Non era stupida come Nerissa. Sapeva bene cosa stava rischiando. Si era spinta tanto oltre solo perché era certa che non l'avrei mai attaccata così, davanti a tutti, col rischio di essere anche vista da Ionascu.
«Vaffanculo» disse, poi si chinò su di me in modo che nessun altro sentisse. «Demone».
«Vaffanculo tu» le risposi e la allontanai da me con uno spintone perché, per i miei gusti, si era fatta troppo vicina.
Era stata la mossa sbagliata, però. Perché, una volta che si fu sentita le mani addosso, Taide rispose alzando le mani a sua volta e mi tirò uno schiaffo. E io, sopraffatta e annientata da quella stessa adrenalina che tanto mi ripugnava negli Umani, ne tirai uno a lei. Ma non avrei voluto farlo, infatti cercai subito di scusarmi.
Taide, però, mi aveva già acchiappata per i capelli. Mi sentii immediatamente afferrare anche dalle braccia. Erano Viktor e Yumi. Jacopo si era affrettato ad acchiappare Taide, che si contorceva tra le sue braccia pelose come una bestia rabbiosa, pronta a scagliarsi su di me.
«Stronza!» mi urlò.
«Ania, devi stare calma» mi disse Viktor, stringendomi nella sua morsa e trascinandomi via con la forza. «Lascia stare. Lasciala perdere».
Mi spintonò fino agli spogliatoi dei maschi dove Rami, insieme a Nate, era andato a riposarsi, e dove, finalmente, riuscii a respirare e a calmarmi.
«Va meglio?» mi chiese Viktor, porgendomi una bottiglietta d'acqua.
Iulian e Roze ci raggiunsero un istante dopo.
«Ma che è successo?» domandò Nate.
«Ho litigato con Taide» risposi, asciugandomi la bocca con il dorso della mano.
«Ania, grazie» disse Rami. «Ma non era necessario. Non preoccuparti. Sono abituato».
Alzai lo sguardo su di lui e mi sentii, improvvisamente, malissimo. Dal corpo di Rami non avvertivo... niente. Lui non desiderava affatto vendicarsi di Taide, né di nessun altro. Non era stata la sua sete a muovermi, dunque. Avevo fatto tutto da sola.
I Vendicatori sono spesso autoalimentanti, e quindi imbattibili, mi aveva detto Rei, tanto tempo prima.
«Scusami» dissi a Rami, in imbarazzo. «Mi sono fatta prendere la mano».
Lui accennò un sorriso e Ionascu spalancò la porta in quel momento. Percorse a lunghe falcate la distanza che ci separava, mi afferrò per un braccio e mi tirò su a forza.
«Ti ha dato di volta il cervello?» mi urlò, strattonandomi.
«Non ho cominciato io» risposi.
«Cento giri di campo» abbaiò. «Adesso».
Aspettai che mi lasciasse, poi mi sistemai con calma i capelli e lo guardai negli occhi. Non gli avrei mai dato la soddisfazione di vedermi intimorita. Né a lui, né a Taide, né a nessun altro.
«Con piacere» dissi, lo oltrepassai, e mi avviai di nuovo fuori.
«Per questo motivo, storicamente, l'harpastum era precluso ai geni» disse, alle mie spalle.
Finsi di non aver sentito.
«...e a tutti gli altri demoni».
Mi fermai sulla porta.
«Sì, sicuramente era questo il motivo» dissi, poi mi voltai a guardarlo. «Di sicuro non c'entra niente il terrore che avete dei geni né la loro netta superiorità su voi tutti. Proviamo a schierare in campo una squadra di soli geni contro una di Venatores, Magi e sine imperio, senza quelle ridicole restrizioni. Basteremmo io e Viktor per annientare il resto della scuola. Basterei io da sola, anzi, se mi fosse consentito usare le zanne».
Le parole mi stavano uscendo dalla bocca e non avevo modo di frenarle. La diga che le aveva trattenute fino a quel momento era andata in pezzi. Mi sentivo strana. Le mani mi stavano tremando.
«Ania» disse Yumi, sperando forse di riuscire a recuperare la situazione prima che Ionascu si avventasse su di me. «Lo scopo di questo torneo è proprio l'integrazione tra razze...»
«L'integrazione?» urlai, anche se non avevo alcuna intenzione di prendermela con Yumi. «È dall'alba dei tempi che pare che l'integrazione dei geni si basi esclusivamente sulla loro repressione!»
«Professore» intervenne Viktor, affiancandolo. «È la sete a farla parlare così. Ania non è abituata all'agonismo».
Ma lui lo ignorò.
«Che continuassero pure a essere discriminati, allora» sibilò, fissandomi negli occhi. «Animali maledetti».
«Che è successo?» domandai, mettendomi a sedere.
«Ania, devi essere impazzita» sibilò Yumi. «Hai detto delle cose che...»
«Mi ricordo cosa ho detto» risposi.
E ricordavo anche un'altra cosa, seppur vagamente. Non ero riuscita a trattenermi. Avevo sfoderato le zanne. Avevo sfoderato le zanne davanti a un professore.
«Noi non abbiamo capito niente» disse Iulian, chino su di me. «Improvvisamente Ionascu si è scagliato su di te e ti ha colpita».
«Ho capito io» intervenne Viktor, chinandosi accanto a lui. «Hai tentato di sfoderare le zanne. Ionascu ti ha solo preceduta. Eri tu che stavi per attaccarlo».
Forse Yumi, alla fine, aveva ragione. Mi ero veramente levata di testa. Ionascu non era un normale Umano, era un Venator. Era addestrato appositamente per prevenire e contrastare gli attacchi di gente come me.
«Con cosa mi ha colpita?» domandai, portandomi una mano al viso indolenzito. «Con un tirapugni?»
«Con le mani» rispose Viktor.
«Va segnalato» affermò Yumu, decisa. «È inaccettabile che un professore...»
«No, lascia perdere» la interruppi.
La sera in cui avevo litigato con mia madre, non sapendo quale fosse la casa, avevo dovuto girare in lungo e in largo tutto il quartiere residenziale per più di un'ora prima di trovarla. La seconda volta, invece, col favore delle tenebre appena calate, ero andata a colpo sicuro.
«Sì?» domandò una voce dall'altra parte della porta.
«Sono Melania Mei, signora».
La porta si aprì e una donna bionda fece capolino sull'uscio.
«Mi scusi per l'ora» aggiunsi. «Ma è una cosa molto importante».
«Oh, Ania!» esclamò, prendendomi le mani. «Cosa è successo alla tua faccia? Prego, accomodati».
Accettai l'inviato ma rimasi ferma all'ingresso, mentre la donna saliva la prima rampa delle scale e, portandosi una mano davanti alla bocca urlava:
«Viktor!»
«Artigli del Flagello, Ania!» disse Viktor, in piedi nella neve davanti a me. «Così, senza una spiegazione?»
«Mi dispiace» ammisi. «Non è per sfiducia. Ma non saprei neanche da dove cominciare».
«Ma perché pensi che io possa aiutarti?» chiese, fissandomi con i suoi occhi verdi un po' troppo distanti uno dall'altro.
«Non puoi?»
«Posso» disse, dopo aver riflettuto qualche secondo. «Però, senti...»
«Certo» lo interruppi. «È ovvio».
Non era convintissimo, però. Mi fissò ancora per qualche attimo, cercando di sondare le mie intenzioni.
«Domani dopo scuola».
«Saltiamo gli allenamenti?»
«Fanculo gli allenamenti, Ania».
Eccoci qui con il capitolo di ieri... o forse era quello di sabato 🥲 dovete perdonarmi ma è un periodo molto incasinato in cui non sto riuscendo a stare dietro a tutto. Alcune volte ho il capitolo pronto ma non lo pubblico perché non faccio in tempo a scrivere la postfazione che tanto amate (e che oggi sarà triste e deprimente però ç__ç) oppure perché penso "ah sì, ora pubblico" però poi guardo l'orologio e sono le 23. Quindi niente, abbiate pazienza ç_ç
SadAppleAnia
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