1.8 • DEMONE
Cara Melania,
quando torni?
Qui va tutto bene ma mamma ultimamente mi sembra molto triste e preoccupata. Ho provato a chiederle il motivo ma non ha voluto dirmelo. Sai come fa lei. Ha detto che tornerai presto, è vero? Mi sento un po' solo.
Torna presto.
Daniel
«Cos'é? Una lettera del tuo ragazzo?» domandò Yumi, uscendo dal bagno.
«No» ridacchiai, «è di Daniel, mio fratello».
Me l'aveva recapitata il ragazzo con gli occhiali della biglietteria quella mattina stessa. Lì per lì mi ero chiesta per quale motivo Daniel (non avevo dubbi sul mittente perché avevo riconosciuto la sua calligrafia sulla busta) mi avesse scritto una lettera anziché chiamarmi o scrivermi su whatsapp. Però poi, ripensandoci, non mi veniva in mente neanche un momento in cui il mio cellulare avesse avuto segnale. Da quando ero arrivata lo avevo guardato molte volte, con l'intenzione di chiamare mia madre, principalmente. Ma non sembrava esserci neanche un punto, a Villa Gregoriana, in cui fosse utilizzabile.
«Uh, peccato» sorrise Yumi sedendosi sul letto.
Riposi la lettera di Daniel e andai a sedermi accanto a lei.
«E tu, invece?» chiesi.
«Io cosa?» domandò, sulla difensiva.
«Hai un ragazzo? O qualcuno che ti piace?» insistetti.
Lei mi scrutò con aria sospetta.
«Stai forse insinuando qualcosa?»
«Niente!» dissi alzando le mani. «Cioè. Ho notato che tu e Devon litigate come due innamorati. Ho pensato che magari...»
«Piantala» tagliò corto lei. «Devon è solo un vecchio amico e in questo momento, tra l'altro, lo odio».
«Ok...» risposi, poco convinta. «Senti, ma perché non si può telefonare da qui?»
«Perché i telefoni sono roba da comuni mortali. I Superbi qui si ostinano a rifiutare ogni tipo di tecnologia».
«Ma non mi prende neanche il cellulare» insistetti.
«Ah guarda, quello puoi anche buttarlo» disse. «Interferiscono con la magia. La magia disturba il segnale e li rende inutilizzabili».
«In effetti potrei. Si è spento da giorni e non sono riuscita a trovare una presa per ricaricarlo» sbuffai.
«E non la troverai» confermò Yumi.
Da quello sfortunato incontro con Rei nel cortile delle biblioteche di Villa Adriana, Devon, Iulian e Nate avevano preso a frequentare l'ippodromo con regolarità.
«Oggi voglio andare anche io a vedere la corsa» disse un giorno Yumi, a mensa. «Ti va di accompagnarmi, Ania?»
«Ma sì, certo che mi va» mentii, sperando che fosse un'idea campata in aria e che se ne scordasse prima di costringermi a saltare di nuovo nella cascata della Grotta delle Sirene.
«Bene, ci andiamo oggi pomeriggio?»
Stavo per prendere coraggio e risponderle che un pomeriggio passato a guardare una corsa di bighe mi sembrava allettante tanto quanto una mazzata sui denti, quando Yumi disse:
«Lo sai che anche mio fratello è un auriga?»
«No, non lo sapevo» dissi.
«Quindi? Andiamo?»
«Andiamo» risposi.
L'ippodromo era una specie di fossa posta di fronte alle Cento Camerelle: alla base c'era la pista ovale da cui si dipartivano i sedili di pietra per gli spettatori che correvano in giri concentrici tutto intorno ad essa, e fornivano dunque una buona visuale dall'alto. Una colonna con una grossa quadriga in terracotta sulla cima torreggiava sulla pista.
Una volta raggiunti i nostri amici, avevo capito subito che la corsa in sé per sé non interessava a nessuno. Il motivo per cui tutta quella gente era lì, accalcata e scalpitante intorno a quella pista ellittica, erano le scommesse. Devon, Iulian e Nate non facevano eccezione.
«Corre Nakamura, oggi» disse Nate. «Io scommetto su di lui».
«Anche io» disse Iulian.
«Io no» rispose Devon.
«Ma Nakamura vince sempre» insistette Nate.
«Non oggi» disse Devon.
«Perché, chi c'è oggi?» chiese Yumi.
Ma Devon non rispose neanche. Perché, in pochi attimi, il vociare della folla si spense. Mi sporsi per cercare di capire cosa stesse accadendo e vidi i cancelletti di partenza che venivano abbassati. Nello stesso momento qualcuno sparò un petardo e nel cielo, proprio sopra la quadriga di terracotta comparvero sette aquile di fumo disposte a formare un triangolo.
La gara era quindi cominciata. Dodici bighe irruppero nella pista, tra le urla di incitamento della folla, sollevando un polverone.
«Vedi?» mi urlò Yumi, per sovrastare il boato degli spettatori. «Sono dodici come i mesi dell'anno».
Nonostante la polvere, la distanza e il fatto che tutti i partecipanti indossassero un elmo e una protezione di cuoio per il torace, riuscii comunque a riconoscere Rei. Guidava la biga blu scuro.
«Onii-chan è gennaio».
Alla fine del primo giro la sua biga trainata da due stalloni neri, lucidi e asciutti, sfrecciando a tutta velocità aveva già seminato tutti gli altri.
Guardai su nel cielo e mi accorsi che una delle aquile di fumo era sparita.
«Indicano i giri mancanti» mi disse Iulian. «Una è sparita perché adesso mancano sei giri».
Nate urlò un incoraggiamento osceno per Rei e io e Iulian ci mettemmo a ridere.
«Non c'è niente da ridere» disse Devon. «La gara è appena cominciata».
Eppure, checché ne pensasse Devon, man mano che le aquile nel cielo diminuivano, il distacco tra Rei e gli altri pareva sempre più evidente. Yumi e Nate lo incitavano ogni volta che ci passava davanti anche se le loro urla finivano inghiottite da quelle della folla.
«Rei sembra molto popolare» dissi a Yumi.
«Lo è. Vince sempre».
«State zitte» ci interruppe Devon. «Guardate lì».
La biga viola che, stando alla leggenda, doveva essere Dicembre, stava risalendo pericolosamente la classifica.
«Chi è quello?» chiese Yumi.
Ma nessuno le rispose. Sembrava che Iulian e Nate avessero smesso di respirare. E non solo loro: in realtà una buona parte degli spettatori era ammutolita. Avevano scommesso tutti su Rei, dedussi.
La biga viola si era portata al terzo posto e mancavano ancora due giri: ormai era rimasta una sola biga, quella azzurra di febbraio, a separarla da Rei. L'auriga della biga viola affiancò la biga azzurra giusto alla fine del rettilineo, poi la strinse nella curva, la speronò e la fece ribaltare.
«Accidenti» disse Yumi. «Speriamo non si sia fatto male».
Ma, non appena il polverone si fu un po' abbassato, ci accorgemmo della tragedia che si stava consumando: l'auriga della biga azzurra, così come tutti gli altri del resto, aveva le redini legate alla vita. La sua biga si era ribaltata ed era rimasta lì in curva. I cavalli si erano sganciati e non si erano fermati ma, anzi, si erano impennati, avevano nitrito e poi, come impazziti, avevano cominciato a correre trascinandosi dietro l'auriga.
Lo vedemmo dimenarsi con un coltello in mano, nel tentativo di recidere le redini. Non ci riuscì. Il coltello gli sfuggì e Yumi si coprì gli occhi.
«Qualcuno lo aiuti!» pianse.
Io mi voltai disperata a guardare Iulian.
«Capita spesso che un auriga muoia, purtroppo» mi disse. «Non guardare».
Ma io non potevo non guardare. C'era qualcuno a cui tenevo, lì in mezzo.
Rei spinse al massimo i suoi cavalli, doppiò l'auriga azzurro e affiancò i suoi cavalli imbizzarriti. Senza esitare si liberò dalle redini, aspettò il momento giusto e staccò un balzo dalla sua biga. Afferrò con un braccio solo il collo di uno dei due cavalli impazziti e riuscì a issarsi e a montarlo. Estrasse il suo coltello dal gambale e tagliò le redini. Immediatamente l'auriga in terra frenò la sua corsa: rotolò un paio di volte lungo la pista poi si arrestò sulla schiena, immobile e all'apparenza privo di vita.
Rei riuscì a fermare i cavalli, smontò e corse a soccorrerlo. Le altre bighe, intorno a loro, continuavano a sfrecciare a tutta velocità. Mi ritrovai col fiato sospeso e le lacrime agli occhi, a pregare che non lo investissero.
Rei tolse l'elmo all'uomo riverso a terra e ci accorgemmo che si trattava di Takeshi, il suo amico. Yumi singhiozzò.
Uno sparo ci fece sobbalzare: in cielo non c'erano più aquile. La gara era finita. La biga viola aveva vinto.
Immediatamente entrarono delle persone in pista e portarono via Takeshi che, fortunatamente, sembrava aver ripreso i sensi. Rei non aveva vinto. Le persone che avevano scommesso su di lui avevano perso i loro soldi. Eppure, quando si alzò in piedi nella polvere per salutare il suo amico che veniva portato via, la folla lo applaudì come se fosse stato un eroe.
«Ania» sentii tirarmi la manica da Yumi. «Guarda».
Rimanemmo con la bocca aperta quando l'auriga della biga viola, togliendosi l'elmo, liberò una cascata di capelli di un brutto biondo cenere.
«È Nerissa» disse Yumi.
«Certo che è lei!» esclamò Devon, entusiasta come se non avesse appena assistito alla stesa scena orripilante che avevamo visto anche noi. «Lo sapevo che avrebbe vinto!»
«Ha quasi ucciso Takeshi!» gli urlò Yumi.
«Ha vinto» ripetè Devon.
Yumi non disse più una parola finché, quando ormai il sole era calato e non era rimasto quasi più nessuno sugli spalti, Rei non ci raggiunse.
«Onii-chan» lo chiamò con una strana voce nasale, prendendolo per un polso. «Stai bene?»
«Sto bene» la tranquillizzò lui, poggiandole una mano sulla testa. «Non preoccuparti».
Io non ebbi il coraggio neanche di muovere un muscolo. Avevo un presentimento.
«Devo andare da Takeshi» disse lui. «Potete riaccompagnare voi Nerissa a Villa Gregoriana?»
Lo sapevo.
«Certo che no!» disse, lasciandogli subito il braccio. «Perché mai dovremmo fare una cosa del genere?»
«Perché siamo venuti insieme, ma io devo andare da Takeshi. Non è esperta, non può attraversare da sola la Grotta delle Sirene» rispose lui.
Poi accadde una cosa che non mi sarei mai aspettata. Cioè Rei, repentinamente e senza preavviso, si mise a parlare in Giapponese con Yumi.
Yumi ormai mi dava le spalle, ma potevo osservare il volto di Rei: la sua pelle bianca, gli occhi a mandorla neri come la notte, la bocca perfettamente definita chiusa in un'espressione seria.
Yumi girava ritmicamente la testa in direzione di Nerissa che, con ancora indosso quella specie di corazza in cuoio e la corona di alloro della vittoria in testa, aspettava distante un paio di metri, con aria scocciata, guardandosi le unghie.
Quando Yumi annuì, rassegnata, Rei fece cenno a Nerissa di avvicinarsi.
«A dopo» disse Rei rivolgendosi a sua sorella, o forse a Nerissa. Di sicuro non a me. Non mi aveva guardata in faccia neanche per un attimo.
«Sei stata grande!» esclamò Devon, rompendo il silenzio.
«Grazie» rispose Nerissa, atona.
Raggiungemmo un Pecile buio e deserto senza dire più una parola.
«Bene» disse Devon a Nerissa, una volta raggiunta la piscina centrale. «Io in genere vado da solo, quindi sarei felice di accompagnarti. Chiaramente, se preferisci una ragazza, puoi andare con Yumi o con Ania».
Nerissa mi guardò come se fossi la cosa meno interessante che fosse mai capitata per errore nel suo campo visivo.
«Ania sarebbe il demone?» chiese.
«Il demone?» scattò Yumi. «Come ti permetti?»
Lei buttò indietro la testa e scoppiò a ridere.
«Come mi permetto? Ho solo detto la verità».
«Ragazze» si intromise Devon, «cerchiamo di non agitarci».
Misi una mano sulla spalla di Yumi.
«Devon ha ragione» le dissi. «Lascia stare, non fa niente».
Ed era vero. Quello che pensava di me una persona del genere non mi importava neanche un po'. Non volevo che Yumi litigasse con lei per colpa mia quando (ero quasi sicura) Rei le aveva chiesto di non farlo.
Yumi, nonostante tutto, parve capire. Quella che invece non capì fu proprio Nerissa che anzi, con Yumi sottotono e con ben tre ragazzi come pubblico, pensò bene di sparare la stoccata finale.
«Quello che mi dà fastidio» disse, «non è tanto il fatto che tu sia qui. No, ormai sono abituata al tanfo dei demoni. Quello che mi manda fuori di testa è il fatto che tuo fratello, quel cosetto sordomuto, sia ancora in vita».
«Stupida stronza!» urlò Yumi, avventandosi su di lei.
La afferrò in un attimo per i capelli ma Devon e gli altri riuscirono subito a dividerle.
Yumi aveva iniziato a imprecare in giapponese. Io, però, ero rimasta impietrita.
«Che vuol dire?» domandai, iniziando a sentire le mani formicolare.
«Tuo fratello, il piccolo demonio. Se fosse andato a morte forse avremmo evitato la guerra. Invece abbiamo sacrificato centinaia di vite per salvarne una sola: quella di un inutile mostro handicappato».
«Piantala!» urlò Yumi dimenandosi fuori di sé, mentre i ragazzi riuscivano a stento a trattenerla, nonostante fossero in tre.
Ma, per me, in quel momento, Yumi e gli altri non esistevano più. Tutte le loro voci, le urla di Yumi e le imprecazioni, mi sembravano solo rumori ovattati e lontani. Esistevamo solo io e Nerissa. E la mia sete. Non quella di Devon, né quella di Yumi. La mia.
«Tuo fratello è un mostro» ripetè, in un sibilo. «Tu sei un mostro. E anche tua madre, e tutti quelli come te».
Il cuore mi batteva all'impazzata, il mio respiro, corto e veloce, sembrava non fosse più sufficiente a ossigenarmi il cervello che, infatti, minacciava di lasciarmi da un momento all'altro.
Ero in preda a un vortice di immagini e sensazioni, ricordi tanto inaspettati quanto fugaci: il sorriso triste di Rei. Le mie lacrime sulle sue dita. Il calore della sua mano stretta intorno alla mia.
E poi mi riscossi e lo visualizzai con lei. Insieme. E mi venne in mente Daniel, il mio adorato fratello, così indifeso e così gentile. Nerissa parlò in quel momento.
«Giuro che, se avessi potuto, tuo fratello l'avrei ammazzato io stessa» mi disse.
E poi all'improvviso le orecchie cominciarono a fischiarmi e la vista si fece confusa. Sentii delle urla, delle mani che provarono ad afferrarmi, senza riuscirci. Poi vidi del sangue. E poi più niente.
Questo capitolo brulica di scoppiettanti novità.
La principale è la scena d'azione. Avete sentito le vostre mani tremare e i vostri cuori palpitare per la sorte del povero Takeshi? (No vero? ç_ç)
La seconda è l'introduzione delle corse con le bighe, che ci lascia con una domanda di stampo esistenziale: perché Rei, di tanti posti, tiene il pugnale proprio nel gambale?
Continuate a leggere e prima o poi troverete una risposta a questa domanda (no, non è vero).
Ultima cosa, forse la più elettrizzante, è che in questo capitolo ho potuto usare la parola checché. È terribilmente soddisfacente.
AppleAnia ❧
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