1.6 • PRECIPIZIO

«Non ne verremo mai a capo».

Disse Yumi poggiando la fronte sul solito tavolo intorno al quale ci eravamo riunite con gli altri giurati, quella mattina. La signora Petrocchi ci aveva concesso qualche minuto di pausa.

«Chiaro» le rispose Hans. «Avete la verità davanti agli occhi ma vi rifiutate di vederla».

«Quella di tua cugina non è la verità. È la sua versione dei fatti» replicò Yumi, stizzita come se odiasse quella Maia da tutta la vita.

«Uno dei congiurati le ha confidato le intenzioni di Kierkegaard. Uno dei luogotenenti a lui più vicini. Cos'è che ti sfugge, Nakamura?»

«È ora di riprendere» disse la signora Petrocchi battendo le mani, ma Yumi e Hans non la ascoltarono neanche.

«Non c'è niente che mi sfugge. Quello che sfugge a te, Vanhanen, è che il congiurato potrebbe aver mentito. Perché mai avrebbe dovuto tradire Kierkegaard? Eppure l'hai appena detto tu, che era uno dei geni a lui più vicino».

«Si era innamorato di mia cugina. Voleva fare colpo su di lei».

«Scusate» intervenni a voce bassa, «ma Kierkegaard cosa dice al riguardo? Non possiamo parlare con lui?»

Hans scoppiò a ridere e si lasciò cadere pesantemente contro lo schienale della sedia.

«Ecco fatto! Tutti uguali i geni

«Basta così, cari» ci interruppe la signora Petrocchi. «È ora di ricominciare».

«Quell'Hans!» sbraitò Yumi appena fummo uscite dalla sala riunioni.

«Il problema non è Hans» le risposi cercando di calmarla, «è molto più grave il fatto che la giuria non riesca a mettersi d'accordo, anzi, che brancoli proprio nel buio».

Lei si voltò a guardarmi con aria sospettosa. Stavamo camminando sotto il porticato del giardino ma si fermò, mi prese per un braccio e mi costrinse a voltare le spalle al muro.

«Perché vuoi vederlo?» mi domandò con un'enfasi eccessiva «Ania, io ti ho difeso davanti ad Hans ma davvero la tua richiesta è stata strana. Potrebbe essere un membro della Setta, anzi, potrebbe essere il capo. Avresti davvero voglia di incontrarlo?»

Non riuscivo a esprimere a parole quanto non condividessi quell'inquietudine. Mi aveva descritto la Setta come un gruppo di geni fanatici e spaventosi ma non riuscivo proprio a percepirne il pericolo potenziale. Non quanto Yumi avrebbe voluto, perlomeno.

«Era solo una proposta, Yumi» dissi, e tutt'a un tratto mi sentii come se fossi io quella saggia, tra le due.

«Ok» concesse. «Sentiremo la sua versione il giorno del processo, comunque. Ma tu dimmi la verità: hai qualche ricordo legato a lui?»

«Ma figurati» risposi, sinceramente. «Niente di niente».

«Va bene allora» concluse lei. «Cerca però di stare un po' più attenta a quello che dici. Tutti sanno che sei un genio. Hans e quelli come lui non aspettano altro che di vederti inciampare».

La mensa, a pranzo, era meno affollata che a cena. Ci sedemmo al tavolo della sera prima, quello vicino alla finestra, dove però trovammo Devon da solo. Scriveva qualcosa, il suo pranzo era ancora tutto lì. Non si accorse di noi neanche quando ci sedemmo accanto a lui.

«Buongiorno, Devon» disse Yumi.

Lui alzò la testa di scatto e si affrettò a strappare via il foglio sul quale stava scrivendo dal blocco e a farlo sparire.

«Fallo di Priamo, mi hai spaventato» esclamò. «Come è andata la riunione?»

Nonostante una parete fosse interamente di vetro, non filtrava neanche un raggio di sole. Quella sala scavata nella roccia che, la sera prima, sembrava tinta di ocra e di rosa al bagliore delle candele e del fuoco nel camino, di giorno appariva grigia, fredda e carica di elettricità, come il cielo poco prima di un temporale.

Yumi rispose vaga (non era permesso rivelare notizie riguardo il processo, si era raccomandata la signora Petrocchi), afferrò il blocco di Devon e la penna e iniziò a scarabocchiare qualcosa.

Il mio sguardo si posò su Devon, per prima cosa. Forse aveva qualche potere anche lui, forse no. Yumi, invece, mi aveva detto a chiare lettere di non averne alcuno. Lei, però, era la figlia di un Eques, proprio come me e quello, forse, spiegava la sua capacità di essere snebbiata e giustificava la sua presenza. Ma Devon? E, come lui, i suoi amici? Che ruolo avevano all'interno della comunità?

Riflettevo su questo quando una mano gelida mi si posò delicatamente sulla spalla. Mi trovai a temere, chissà poi perché, che potesse essere Nerissa. Per questo non riuscii a nascondere lo stupore quando, voltandomi, mi ritrovai davanti Maia Vanhanen.

Sorrise debolmente a Yumi e Devon poi si rivolse a me.

«Mi dispiace disturbarti, ma vorrei parlarti un momento».

«Va bene...» risposi, totalmente spiazzata.

«In privato» disse lei, per nulla imbarazzata, guardando gli altri. «Se vuoi, ti aspetto al nostro tavolo».

Lanciai uno sguardo interrogativo a Yumi e Devon che mi risposero rispettivamente stringendosi nelle spalle e allargando le braccia, quindi seguii la sua figura fluttuante fino al tavolo vicino al camino dove lei, il fratello e il cugino erano seduti anche la sera prima. Fortunatamente Hans non c'era e Maia mi incoraggiò ad accomodarmi con loro.

«Scusa se ho interrotto il tuo pranzo» disse.

Poi, guardando verso il gemello, aggiunse: «Lui è mio fratello Heikki. E io sono Maia Vanhanen».

«Certo, so chi siete» risposi.

Heikki, per la prima volta da quando ero arrivata alzò lo sguardo a incrociare il mio. La somiglianza tra loro due era davvero impressionante. Tutti e due avevano i capelli biondi, quelli di Heikki più corti, lisci e impalpabili. La pelle bianchissima, gli occhi grigi. Potevano essere un filo inquietanti, forse. Ma erano indiscutibilmente belli.

«Senti...» riprese Maia dopo essersi scambiata uno sguardo fugace con il fratello, «abbiamo saputo quello che è successo con Hans. Volevamo dirti che ci dispiace, tutto qui. Il suo è un pensiero personale, anche se spesso si proclama portavoce di tutti i Vanhanen. Non è così».

Maia parlava al plurale, ma Heikki aveva ricominciato a mangiare non degnandomi più di uno sguardo e tutto pareva fuorché dispiaciuto.

«Ti ringrazio» dissi, un po' a disagio. «Ma non sei tu a doverti scusare, comunque».

«Lo so» disse lei, «ma ci tenevo comunque a farlo».

Rimanemmo qualche secondo zitti.

«Beh ok... grazie» dissi. «Tornerei al mio tavolo, allora».

«Certo» rispose lei, «scusa ancora per l'interruzione».

Naturalmente Yumi e Devon vollero un resoconto dettagliato della breve conversazione.

«Non avercela con lei. Non è mica colpa sua se suo cugino è così insopportabile» aveva detto Devon.

Non ero neanche riuscita ad aprire bocca per dire che non avrei avuto alcun motivo di avercela con una persona che avevo appena visto per la seconda volta nella mia vita, che Yumi aveva risposto, acida:

«Guarda che anche lei è insopportabile. Se non te ne accorgi è solo perché ti piace».

«Non mi piace!» urlò quasi lui. «Dico solo che non si può giudicare una persona dalla sua famiglia» poi si bloccò, indicando un gruppetto di ragazzi, tra cui Reijiro, che entravano per il pranzo «Anche a me non piace tuo fratello, per esempio, e non è certo un segreto. Ma non ho nessun problema con te».

Mi voltai con dignitosa disinvoltura dove Devon aveva indicato. Reijiro ci salutò con la mano e proseguì insieme ai suoi amici.

«Cosa c'entra mio fratello, adesso?» sbraitò Yumi. «Devi smetterla con questa storia!»

Mentre loro continuavano a discutere ci fu una manovra che attirò la mia attenzione. Reijiro stava passando vicino al tavolo in cui sedeva Nerissa insieme alle sue amiche. Fu una questione di un secondo, ma mi accorsi di come i loro sguardi si incrociarono.

«Posso chiederti una cosa?» domandai sottovoce a Yumi quando ebbero finito di discutere, cercando di allontanare quell'immagine dalla mente.

«Tutte queste persone... chi sono? Perché sono qui? Tipo Devon, Iulian e Nate o... non so... Nerissa... hanno dei poteri?»

«Alcuni sì, altri no. Non è necessario avere dei poteri» rispose. «Anzi, le persone senza poteri, che si chiamano sine imperio, sono in netta maggioranza rispetto agli altri».

«Ho capito» dissi, anche se non era esattamente vero. «Ma quindi queste persone cosa fanno? Studiano o lavorano nelle loro città di residenza?»

«C'era una scuola qui, ma è stata chiusa tanti anni fa. Quindi ognuno va a scuola dove vuole. Ovviamente parliamo di scuole selezionate».

«Quindi cosa fanno qui?»

«Io sono un legionario» rispose Devon. «E anche Iulian e Nate».

«Cioè siete dei soldati?» domandai, sgomenta.

«Sì, guarda» disse, allentandosi il collo della felpa in modo da scoprire la parte alta del petto, sulla quale spiccava un tatuaggio.

«SPQT» lessi, a stento. «Leg... dieci?»

«Tredici» mi corresse, poi tornò a sistemarsi la felpa sulle spalle. «Tredicesima legione».

«Caspita» esclamai, con l'intenzione di approfondire in un secondo momento perché un'altra domanda mi stava ronzando in testa con urgenza.

«Sentite, e io invece? Che potere ho?»

«Con quei cosi addosso proprio nessuno» rispose Yumi, ammiccando verso i miei bracciali.

«Devi chiedere a un genio adulto» mi suggerì Devon, alzandosi in piedi con il vassoio in mano.

Pensai all'uomo della giuria che mi aveva difeso con Hans. Lui aveva affermato senza mezzi termini di essere un genio.

«Ok, ne conosco uno» conclusi.

«Perché mi guardi così?» mi domandò Yumi, dopo che Devon si fu allontanato per svuotare il vassoio. «Vuoi chiedermi dell'altro?»

«Sì, solo un'ultima cosa» bisbigliai. «Perché Devon e Reijiro non vanno d'accordo?»

«I motivi ufficiali sono molteplici: Devon trova che Onii-chan sia presuntuoso e superbo e che si sia preso delle libertà eccessive approfittando del fatto di essere il figlio di un Eques e...»

«E il motivo ufficioso?» la interruppi, intuendo che la lista delle motivazioni ufficiali non sarebbe stata tanto breve.

«Non so i dettagli ma credo ci sia di mezzo una ragazza».

Come se pronunciare quelle parole le avesse rinnovato una piaga, ricominciò a guardare Devon, che si stava riavvicinando ignaro, con una certa ferocia.

«Tieni» mi disse lei, avvicinandomi il blocco da disegno che aveva sottratto a Devon. «Ti ho fatto qualche schizzo delle persone che devi ricordarti».

«Oh, grazie... sono bellissimi» dissi, osservando i suoi disegni.

Decisi, quindi, di lasciar cadere il discorso di Reijiro. Anche perché, a quel punto, di approfondire mi andava fin troppo poco.

Quella sera stessa, come da accordi, io e Yumi ci recammo a casa della signora Petrocchi per discutere ancora dell'annosa questione dei bracciali di mia nonna.

«Vieni qui, cara» mi esortò la signora, allungando le mani verso di me. «Togliamo questi affari».

Senza particolari aspettative, lasciai che mi prendesse delicatamente la mano. Afferrò uno dei miei bracciali e tentò di sfilarlo. Non ci sarebbe riuscita, si sarebbe incastrato come sempre.

«Ecco fatto» disse, invece, con il bracciale in mano. «Coraggio, sfiliamo anche l'altro».

Incredula, le porsi anche l'altra mano. Stesso tocco, stessa procedura. Mezzo secondo e anche l'altro bracciale era stato sfilato.

«Come ti senti?» mi domandò Yumi.

«Come se mi fossi appena sfilata un bracciale» risposi, esasperata.

«Guarda, cara» mi disse la signora Petrocchi, mentre i miei bracciali scomparivano dalle sue mani.

«Cosa... dove...?» balbettai.

«Sono spariti perché non è più necessario che li indossi, cara» sorrise la signora.

«Ma...»

«Non te li ha regalati tua nonna, corna di Bacco!» mi precedette Yumi. «Erano brachialia coercitionis

«Coercitionis?» domandai, sconvolta.

«Avevi una segnalazione. Avresti dovuto indossarli ancora per qualche mese ma sono riuscita a intercedere, visto che ora sei qui. Potresti sentirti un po' strana, adesso, cara» mi rassicurò la signora Petrocchi. «Non preoccuparti. Cerca piuttosto di startene tranquilla, va bene?»

I giorni seguenti passarono senza che accadesse niente di particolare. Ci riunivamo di continuo con il resto dei giurati; la claustrofobia non mi dava tregua e, purtroppo, sembravamo lontanissimi dalla conclusione.

Contrariamente a quanto previsto dalla signora Petrocchi, non mi sentivo strana. Non più del solito, almeno.

«Possibile che tu non abbia idea del perché ti abbiano inflitto una simile condanna?» mi chiese Yumi, una sera, nella nostra stanza. «Ibrachialia coercitionis, al giorno d'oggi, vengono imposti solo ai geni che abbiano usato il loro potere sugli Obumbrati. Hai fatto qualcosa del genere?»

Certo che sì: la gita scolastica.

«Certo che no» risposi perché, nonostante tutto, non mi fidavo ancora del tutto di lei. «Fino a qualche giorno fa non sapevo neanche di averceli, i poteri».

«Uhm, va bene» concesse, infilandosi sotto le coperte. «Stai ancora leggendo il libro di Onii-chan?»

Lo avevo letto e riletto già tre volte, a dire il vero. Due cose mi avevano colpito. Una di esse era il capitolo intitolato Declassamento dei Geni, che raccontava di come i geni erano stati, alcuni anni prima, riclassificati tra i demoni e non più tra i numi tutelari come i lari con cui erano imparentati. La seconda era il capitolo dedicato ai geni Vendicatori, che era stato interamente strappato, chissà perché.

Io e Yumi ne avevamo discusso a lungo ma neanche lei sembrava in grado di darmi qualche risposta.

«Che ne direste di andare a farci un giro a Villa Adriana?» chiese Yumi, un giorno, a mensa.

«Perché no» rispose Nate.

«Cosa c'è a Villa Adriana?» domandai, incuriosita.

«Beh, c'è il cuore pulsante di Tibur» esclamò Devon, dandomi una pacca sulla testa.

«Il cuore pulsante di Tibur è dove ci sono i templi di Vesta e della Sibilla. Cioè qui» lo corresse Yumi. «Ma a Villa Adriana c'è più movimento, di sicuro. E poi c'è un'enorme biblioteca. Potresti trovare le risposte che cerchi».

«Forse non è una cattiva idea» disse Iulian. «Sembra che quel libro che ti porti sempre dietro ti abbia fatto venire dei dubbi anziché toglierteli, Ania».

«Vero?» chiese Yumi, soddisfatta. «Coraggio, andiamoci!»

Ero ancora sufficientemente ingenua da pensare di poter raggiungere Villa Adriana in auto. Quindi, quando arrivammo al terrazzetto che affacciava dentro la Grotta delle Sirene e Yumi mi esortò a saltare giù, mantenni ancora la genuina speranza che stesse scherzando.

«Coraggio» disse Devon, «vado prima io».

Detto fatto, senza aggiungere altro, si stiracchiò le braccia e saltò di sotto, ululando.

«No!» urlai, sporgendomi per guardare di sotto, ma lui era già stato trascinato giù dall'acqua e risucchiato all'interno della montagna.

«Non ti preoccupare» disse Iulian, pacato come sempre, come se non avesse appena visto il suo amico inghiottito da una cascata. «Adesso andiamo noi».

E così anche lui e Nate saltarono di sotto.

«Avanti, adesso vai tu» mi esortò Yumi.

«Perché non vai prima tu?» le chiesi.

In fondo, potevo davvero fidarmi di quelle persone? Conoscevo tutti loro solo da una manciata di giorni. Avevo veramente intenzione di buttarmi solo perché me lo stavano dicendo loro?

«Perché se vado prima io non credo che poi salterai anche tu».

«Allora andiamo insieme» dissi.

«Ok».

«Ok».

Io però non ne avevo la minima intenzione. Il fiume saltava nella grotta e si attorcigliava in un mulinello agitato che spariva nella roccia. Non sapevo dove conducesse quell'apertura. E non volevo saperlo.

Ecco come avrei fatto: avrei raggiunto Villa Adriana in autobus. Se, una volta sul posto, avessi avuto conferma che Yumi e gli altri erano davvero vivi e lì, allora la volta successiva mi sarei forse lasciata convincere a...

«Ora!» urlò Yumi afferrandomi per il braccio.

Mi sbilanciò, cercai un appiglio senza trovarlo. Precipitammo.

Cosa, cosa? Sentite puzza di metropolvere dei poveri? Beh però, se è vero che anche l'occhio vuole la sua parte, bisogna ammettere che il salto nella cascata è visivamente su tutto un altro livello (di disagio).
Se consideriamo pure che Villa Gregoriana e Villa Adriana disteranno circa cinque chilometri una dall'altra, verrebbe da pensare che piuttosto che buttarsi nella cascata, rischiando di affogare o di spappolarsi su qualche roccia, avrebbero potuto farsela a piedi. Meglio non farsi troppe domande, va.

AppleAnia

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