1.36 • AZOTO LIQUIDO

Per un attimo, guardando Kirk negli occhi, mi dimenticai di dove ci trovassimo.

«Stai forse dicendo che Alastor... era mio padre?» domandai, sconvolta.

«Ma figurati» rispose lui. «Certo che no».

Ma non feci neanche in tempo a tirare un sospiro di sollievo che continuò:

«Era tuo zio».

Mi voltai a guardare verso Mario che rispose al mio sguardo senza muovere un muscolo.

«Che stai dicendo? Come è possibile?»

«Non è che ci siano molti modi» rispose Kirk. «Era il fratello di tua madre».

«Mia madre non ha fratelli» risposi, in automatico.

«È vero. Ora non ne ha più».

Mi portai una mano alla fronte. Sembrava assurdo, eppure aveva un senso. Era questa la verità da cui i miei genitori volevano proteggermi? Era questa parentela a renderli così determinati a ricorrere a una misurata tanto estrema come la cancellazione della memoria? Era...

«Mi credi?» mi chiese Kirk.

...era questo il motivo per cui Kirk voleva il mio potere?

«Sì» risposi. «Sì, ti credo».

«Non uno ma due eredi, dunque» disse uno dei leoni.

«L'ombra di uno di voi due aprirà il varco nelle catacombe».

«Catacombe?» domandai. «È lì che si trova la pietra?»

«Non potete lasciarli passare!» esclamò Mario.

«Siamo qui per impedire che l'area venga profanata da Obumbrati, Umani e Creature degli Inferi. Non certo per impedire l'accesso ai geni, legittimi proprietari del Lapis Niger».

«Dobbiamo provarci» dissi a Kirk.

«Non farlo» mi supplicò Mario. «E, soprattutto, non con lui. Ti prego».

Mi imposi di reprime quella sgradevole sensazione di inquietudine che lo sguardo di Kirk mi aveva provocato solo qualche minuto prima. Lui voleva mettere le mani sulla pietra per salvare il suo amico e nient'altro.

Se dovessimo riuscire a prenderla, avrei voluto domandargli, una volta guariti mia madre e Jurgen, cosa ne faremo della pietra?

Chiederglielo sarebbe stata la cosa giusta da fare. Però, il rischio di ricevere una risposta inaccettabile era troppo alto. E io avevo bisogno di prendere quella pietra.

Mario mi poggiò le mani sulle spalle.

«Io ti aspetto fuori» disse. «Stai attenta».

«Lo farò» risposi, sentendomi improvvisamente le lacrime agli occhi, come se ci stessimo dicendo addio. «Ci vediamo dopo».

Una volta che Mario fu uscito, Kirk staccò una fiaccola dal muro e la usò per fare luce su ruderi davanti a noi.

«È quello che resta di un altare?» domandò.

«Sì» risposi. «Non l'hai studiato a scuola? Si dice che questa sia la tomba di Romolo».

Davanti a noi c'era effettivamente un altare a forma di U e una serie di piattaforme più piccole, probabilmente basamenti di statue o colonne ormai distrutte. Su due di questi avevano ripreso posto i leoni e si erano nuovamente pietrificati.

E poi c'era lui. Il cippo piramidale con l'iscrizione bustrofedica, tutto mutilato e scorticato.

Ognuno di questi elementi era privo della parte superiore, compreso il cippo, purtroppo. Rimanemmo per qualche istante a guardarlo.

«Chi violerà questo luogo sia maledetto... al re l'araldo... prenda il bestiame... giusto?» lesse Kirk. «Che cazzo vuol dire?»

«Non lo so» ammisi. «Sul Libro Sibillino la maledizione era scritta per esteso ma non ho fatto in tempo a leggerla».

«Perché?»

«Sono arrivati i Reazionari e mi hanno attaccata» risposi. «Per questo ti ho chiamato. Ero ferita. Ma, appena arrivata in questo posto, sono guarita. Tu, invece, come hai fatto ad arrivare così in fretta?»

Kirk era accorso per salvarmi, nonostante tutto. Lui era accorso per salvare me. Me? O per salvare l'erede di Alastor? Era impossibile non avere il dubbio, a quel punto.

Lui annuì, serio.

«Ne parliamo dopo» rispose. «Ora entriamo. Ecco l'ingresso. È dietro l'altare».

Omne ignotum pro terribili, tutto ciò che è ignoto fa paura.

Forse non era sempre vero. Forse, ignorare il testo integrale della maledizione poteva essere persino un bene. Tanto saremmo entrati comunque. Rimanere nell'ignoranza, alcune volte, poteva essere la scelta migliore.

Ci calammo in quella botola, comparsa davanti ai nostri occhi nel momento esatto in cui i leoni ci ebbero autorizzati a passare. Kirk scese prima di me e io lo seguii, un po' in ansia.

Il leone aveva parlato di catacombe. Non era esattamente il posto che speravo di visitare.

Uno scalino dopo l'altro, l'aria si andava facendo sempre più gelida e rarefatta.

«Stai attenta» mi disse Kirk, voltandosi con la torcia in mano. «Si scivola parecchio su questi sassetti».

L'impervia scalinata ci condusse a un bivio: un'altra scalinata o un corridoio stretto e angusto.

«Continuiamo a scendere» disse Kirk. «Se dovessi nascondere e sigillare un oggetto lo farei più in profondità possibile».

«Ok» concessi, ma stavo cominciando a sentirmi male.

«Ania» mi chiamò lui, dopo aver sceso i primi due o tre scalini, quando si accorse che non lo stavo seguendo.

«Sì, eccomi» dissi.

Ma i miei piedi non avevano la minima intenzione di schiodarsi.

«Lo sai che non c'è niente di cui aver paura» mi disse. «Non ci sono Umani, qui. La tua claustrofobia non esiste».

«Ho paura lo stesso» ammisi. «Se rimanessimo intrappolati...»

Non riuscivo a respirare bene.

«Se la tua paura è questa» mi disse, «non posso certo garantirti che non accadrà. Decidi tu. Se non te la senti ti riaccompagno in superficie».

«E la pietra?» domandai, con la vana speranza che gli fosse venuto in mentre un altro modo per impossessarcene.

«Scendo da solo e la prendo io. Ormai ci siamo arrivati troppo vicino per mollare».

Mi avvicinò la torcia alla faccia e io lo guardai negli occhi chiarissimi.

«Sembra serva un Vendicatore» risposi, dopo un attimo. «Vengo con te».

Non lo avrei mandato solo. Non dopo che aveva fatto tanta strada solo per venire ad aiutarmi.

«Bene, dai» disse, porgendomi una mano che afferrai molto incerta. «Andiamo».

Scendemmo altri tre o forse quattro piani, lentamente, stando attenti a non scivolare su quella specie di brecciolino nero di cui la scalinata era ricoperta. Ne raccolsi qualche manciata e me la infilai nelle tasche del cappotto. Quei sassetti avrebbero potuto tornarmi utili. Per marcare il tragitto e ritrovare l'uscita, per esempio.

«Un altro po' e raggiungiamo il nucleo fluido del pianeta» disse Kirk, ansimando a causa della mancanza di ossigeno.

«Allora Alastor deve averlo congelato» risposi, battendo i denti.

Scendemmo l'ultimo scalino e tirammo un sospiro di sollievo. Basta, le scale erano finite. Avevamo raggiunto l'ultimo piano. Non ci restava altro da fare che seguire lo stretto cunicolo, quindi.

Dalle pareti della galleria si affacciavano file di loculi scavati nella roccia che un tempo avevano ospitato le salme dei defunti.

Sfortunatamente, la galleria si diramava in quello che sembrava un vero e proprio labirinto. Decine di gallerie e di bivi identici, file e file di loculi tutti uguali, immobili e vuoti come le orbite di un teschio. Ogni dieci passi circa, lasciavo cadere un sassetto.

«Non ce la faccio più» dissi, dopo una po'. «Non riesco a respirare e fa troppo freddo».

«Lo so, sono stremato anch'io» disse Kirk.

«Forse non siamo nel posto giusto» provai a dire.

«No, siamo sicuramente nel posto giusto» mi rispose Kirk.

«Perché ti sembra troppo maledetto per non nascondere un oscuro segreto?»

«Sì, anche» rispose. «Ma anche perché lì in fondo vedo il varco di cui parlavano i leoni».

Era proprio davanti a noi. Una strettissima fenditura nella roccia alla fine di quello che sembrava un corridoio cieco. Illuminata appena da un gelido raggio lunare che filtrava da un lucernario scavato come un pozzo in decine di metri di roccia.

«Alastor è passato da qua. Alla sua morte ci passerà il suo erede» lesse Kirk.

Era inciso sopra l'apertura.

«Alastor è passato da qua?» chiesi, incredula. «Non una maledizione? Un insulto ai visitatori?»

Kirk non mi rispose e mi voltati a guardarlo. Era serissimo. Allungò il braccio e sfiorò l'incisione.

«Ti manca?» gli domandai.

«Era tutta la mia famiglia» rispose.

Rimanemmo qualche istante in silenzio.

«Comunque» riprese Kirk, tornando subito normale. «Se ci è passato lui, di sicuro, questa è l'entrata giusta. Un modo per oltrepassarla deve esserci».

Mi avvicinai per sbirciare all'interno della fessura ma Kirk mi trattenne.

«...e, altrettanto sicuramente, ci avrà piazzato qualche trappola. Lui non lasciava mai niente al caso, proprio per natura».

Kirk mi oltrepassò, avvicinò la torcia e cercò di guardare all'interno.

«Bene» disse.

«Cosa?»

«Non vedo niente».

«È una buon a notizia?»

«Sì» rispose Kirk. «Se avessi conosciuto Alastor capiresti quanto».

Il varco era così stretto che, a stento, riuscii ad infilarci un braccio.

«Senti qualcosa?» mi chiese Kirk, agitato.

«No, niente» risposi, tastando l'aria.

«Sfilalo, non sono tranquillo» disse Kirk.

«Ok» risposi.

Qualcosa mi sfiorò appena la pelle del polso.

«Aspetta, c'è qualcosa» dissi.

«Sfila quel braccio!» mi urlò lui.

Eccolo di nuovo. Qualcosa di viscido e sfuggente come una medusa, solo molto più freddo. Kirk mi afferrò per le spalle e mi costrinse a sfilare il braccio.

«Sei impazzito?» domandai. «Vuoi entrare o no?»

Sul polso stava affiorando una ferita, una specie di ustione.

«Ti fa male?» mi chiese Kirk, in ansia.

«Per niente» risposi. «Forse perché siamo così vicini alla pietra?»

In effetti era stata una sensazione molto strana. Così come era strano vedere la pelle arrossarsi, gonfiarsi e desquamarsi senza avvertire alcun dolore, come se non fosse stata neanche la mia.

«Può essere. Cosa hai sentito?»

«Un freddo talmente pungente da sembrare quasi caldo» risposi. «Hai presente quando ti bruciano una verruca con l'azoto liquido?»

«No che non ho presente» sbuffò lui. «Sono cresciuto con la Setta, ti ricordo. Non conosco questo genere di torture mortali, per fortuna».

«Ok» risposi. «Quindi cosa facciamo?»

«Non entreremo mai da questa fessura» sentenziò. «È così stretta proprio per evitare che qualcuno possa entrarci».

«Se fosse come dici tu sarebbe stato più sensato chiuderla del tutto».

Ci pensò un attimo, afferrò delicatamente il mio braccio e osservò attentamente l'ustione.

«Evidentemente, è stata lasciata aperta per consentire a qualcuno o a qualcosa di uscire».

«Quindi credi che ci sia qualcuno o qualcosa chiuso là dentro con la pietra?»

«Non è che lo credo. Sono sicuro» rispose. «Alastor aveva cicatrici simili».

Dopo quell'ultima frase piombammo nel silenzio. Le cose che avevo in comune con Alastor stavano diventando troppe considerato che, fino a qualche mese prima, ne ignoravo addirittura l'esistenza.

Eppure, essere, forse, il suo erede, poteva avere dei vantaggi, in quel momento. Alzai lo sguardo per leggere nuovamente l'iscrizione ma, con la coda dell'occhio, riuscii a vedere lo stesso una specie di nebbia fuoriuscire dalla fenditura.

«Allontanati!» urlò Kirk all'improvviso, scaraventandomi, con una spinta, più lontano possibile dalla parete rocciosa.

Caddi a terra. Li vidi uscire. In pochi attimi. Uno dopo l'altro.

«Alzati, presto!» mi esortò, cercando di tirarmi su dalle braccia.

Ma anche lui sembrava paralizzato e, un istante dopo, si accasciò accanto a me. La torcia che teneva in mano rotolò un paio di volte sul pavimento umido, poi si spense.

Quelle che stavano fuoriuscendo erano persone. O, almeno, quello che ne rimaneva. Un uomo con la testa quasi del tutto recisa dal corpo. Una donna con la veste insanguinata. Un bambino con le gambe e le braccia articolate al contrario. Gelidi, dai contorni non definiti, appena abbozzati, quasi trasparenti. Leggermente luminosi, nel buio della galleria.

«Flagello di Cicero!» esclamò Kirk. «Sono fantasmi?»

Non riuscivo ad alzarmi. Quella sensazione di gelo, talmente intensa da risultare bruciante, si diffuse improvvisamente in tutto il mio corpo e anche nel cervello.

Mi sembrò di vederlo, di vedere Alastor. Nella mia testa. Alto, bello. Agonizzante.

«Ania» mi chiamò Kirk scuotendomi per una spalla. «Non cedere, resta qui. Dobbiamo scappare!»

Alastor stava morendo. Senza nessuna ragione fui travolta dal dolore incontenibile di quella consapevolezza, dall'orrore di quella visione.

«Ania, ti prego!» urlò ancora Kirk. «Non possono farci del male».

Forse non potevano farci del male, ma sembrava potessero farmi impazzire. Il volto di Kirk si fece di nuovo nitido davanti ai miei occhi. Cercai di arretrare, gattonando penosamente sul pavimento. L'ultimo sassolino che avevo lasciato cadere sui nostri passi mi si conficcò nel palmo della mano. Certo che erano strani, per essere sassi. Ne presi uno in mano e me lo rigirai tra le dita.

Fui scossa da un'altra visione, atroce e lancinante quanto la prima. Un uomo dai lunghi capelli talmente biondi da sembrare quasi bianchi. L'odio che provai per lui mi contorse sul pavimento. Poi finì, tanto velocemente come era cominciata.

Aprii gli occhi, ansimando. Anche Kirk sembrava in preda a un delirio. Mi avvicinai istintivamente a lui e il fantasma che lo stava aggradendo indietreggiò, orripilato. Avevo ancora in mano il sassolino. Ma non era un sasso. Era una specie di... sì era un legume. Una fava.

Fave. Fave nere.

Lo sapevo. Libro di antologia pagina 59.

«Kirk, so cosa sono» urlai, gettandomi su di lui. «Sono Lemuri

«Lemuri» ripetè, stremato. «Quella specie di ratti del Madagascar?»

Infilai le mani nelle tasche, afferrai due strabordanti manciate di fave nere e, tremando dal freddo e dall'orrore, tracciai con esse un cerchio intorno a noi.

Gli spettri urtarono contro quello scudo invisibile e si fecero indietro.

«Questi ratti orrorifici hanno paura dei sassolini» constatò Kirk.

Poi mi guardò negli occhi e perse i sensi.

Sono molto affranta per l'incostanza con cui sto pubblicando in questo periodo.
Fino a un paio di settimane fa riuscivo a pubblicare quattro capitoli a settimana, ora riesco a stento a pubblicarne uno 😞
Verranno tempi migliori.
Comunque... nooooo Kirk non ci puoi stirare le zampe proprio ora ç_____ç
Tanto lo so che anche voi quando avete letto 'lemuri' avete pensato a lui:

Mi si rovina tutta l'atmosfera di terrore, porca l'oca ç_ç
Baci e alla prossima settimana (ormai giorno variabile, ma comunque entro la settimana).

AppleAnia

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