1.24 • CORVO

«Tu sai perché le ha detto così?» domandò Maia a Heikki, quando Jurgen, Kierkegaard e gli altri furono spariti all'interno dell'Accademia.

«Non ne ho idea» rispose Heikki, col solito tono scocciato.

Mi sentivo offesa e stupida. Jurgen e i gemelli erano amici. Quindi Maia non aveva tradito Jurgen, testimoniando al processo. Ma non avrebbe neanche mai potuto testimoniare il falso, dato che aveva infilato la mano nella Bocca della Verità e l'aveva tirata fuori tutta intera. Questo poteva significare una sola cosa: erano d'accordo.

«Ania?» mi chiamò Maia. «Tutto bene?»

«No» le risposi. «Tu e Jurgen eravate d'accordo».

«Non in mezzo alla strada» intervenne Heikki. «Andiamo a casa nostra».

«Non ci vengo a casa vostra» risposi.

Heikki avrebbe dovuto stare zitto. Poteva trattare in quel modo sua sorella, se a lei stava bene. Non certo me.

«Allora non avrai nessuna risposta» disse lui.

«Io non ho posto alcuna domanda» precisai. «Per me potete andare al diavolo tutti quanti».

Yumi aveva ragione. Erano  persone subdole e infide. Li lasciai lì, in mezzo alla piazza dell'Accademia, e me ne tornai a casa.

In un momento di follia avevo pensato di parlarne con mia madre, ma avevo rinunciato subito all'idea. Avrei voluto dirlo a Yumi, a Gilbert o alla signora Petrocchi. A tutti i membri della giuria che, come me, erano stati raggirati dai quelle viscide serpi bionde. Forse, parlandone con loro, sarei riuscita a dare un senso a tutta la faccenda. Perché purtroppo, da sola, mi mancavano troppi elementi per poter azzardare una ricostruzione dei fatti. Avevo troppe domande a cui non sapevo trovare una risposta.

Perché Maia, che non era neanche un vero genio, avrebbe dovuto prestarsi a un simile raggiro? E perché mai Jurgen e Kierkegaard avrebbero dovuto mettere in piedi quella pagliacciata? Che senso aveva progettare una congiura e poi mandarla a monte con le proprie mani? Forse qualcosa era andato storto nel frattempo?

Non volli più vedere Maia né nessun altro, comunque. Qualunque fosse il motivo, lei aveva tradito l'Impero, servito dal suo stesso padre, per schierarsi dalla parte della Setta. Io non volevo averci niente a che fare.

Non avevo però nient'altro da fare, in quel posto. Così lasciai che passassero le giornate nell'ozio quasi più totale, finché un giorno, mentre rileggevo per la millesima volta il libro di Rei, mia madre non si affacciò sulla porta della mia celletta con una torta in mano.

«Che roba è?» chiesi.

«Buon compleanno!» esclamò.

«Compleanno?» chiesi, sconvolta. «Non può essere».

«Invece sì» rispose lei, perplessa. «Hai un po' perso il senso del tempo?»

«Cioè, oggi è il venticinque febbraio?»

Poteva essere davvero passato tutto quel tempo da quando eravamo lì sotto?

Kierkegaard si presentò a casa di Gilbert giusto per il taglio della torta, quella sera.

«Scusi il disturbo» disse a mia madre, che era andata ad aprirgli. «Avrei bisogno di parlare con Ania».

Mia madre si scansò e lo lasciò entrare.

«Non voglio parlarti» gli dissi, andandomi a rifugiare per le scale insieme a Daniel.

Lui rise.

«Ma non ti faccio niente» rispose. «Dai, voglio spiegarti alcune cose».

«Mamma» dissi, aggrappandomi alla ringhiera. «È Kierkegaard. Quello del processo. Quello che è evaso il primo dell'anno e ha rapito il Pontifex».

«Certo» disse mia madre, poi gli porse la mano. «Prego, accomodati».

«Mamma?» chiesi, sconvolta. «Hai capito cosa ti ho detto?»

Si era forse insinuato nella sua mente come aveva tentato di fare con me al processo?

«Sì, ti ho sentita» rispose lei che, a dire il vero, pareva lucidissima. «Adesso smettila di fare la stupida e scendi».

Guardai Daniel che mi restituì uno sguardo interrogativo poi, malvolentieri e assai titubante, scesi le scale e li raggiunsi in soggiorno.

«Posso fumare?» domandò lui.

«Certo, ci mancherebbe» rispose mia madre. «Vado a prenderti un posacenere e una fetta di torta».

Lui si mise a sedere e si accese una sigaretta.

«La Setta non ti piace?» mi chiese.

«Per niente» ammisi.

«E perché non indossi il medaglione di Gilbert?» domandò.

«Che ti interessa?» chiesi, di rimando.

«Sarei più tranquillo se lo portassi» disse.

Che tizio assurdo.

«Ma chi ti conosce» risposi. «La tua tranquillità non è affar mio».

«Scusala» gli disse mia madre, passandogli il portacenere e un piattino con la torta. «Non è così, in genere. Si è incattivita a stare qui sotto».

«Grazie mille. Lo so, capita a tutti» convenne lui. «Non è facile senza luce del sole e senza calore».

«Non è per il sole» dissi, imponendomi di mostrarmi tranquilla. «È perché questo personaggio ha preso parte a una congiura che...»

«Non c'è nessuna congiura» disse lui. «La congiura era una bugia. Era solo una scusa per farmi arrestare e imprigionare nel braccio della morte».

Pensai di non aver capito bene.

«Cosa? E a quale scopo?»

«Il Pontifex il primo dell'anno passa a dare la sua benedizione ai condannati a morte. Mi serviva un'occasione del genere per rapirlo».

«Quindi ammetti di essere stato tu a rapirlo!» esclamai.

«Certo» rispose, calmo.

«Ma perché fare una cosa del genere?» domandai, allibita.

Cercai lo sguardo di mia madre, ma lei si era placidamente accomodata accanto a Kierkegaard e stava ascoltando con attenzione ogni sua parola.

«Come perché? Il Pontifex è a capo dell'Impero. La sua testa deve saltare se si vuole prendere il potere».

«La sua testa deve... Mamma? Intendi dire qualcosa?» chiesi, ormai sconvolta. «Sei d'accordo con lui?»

«No, non sono d'accordo» disse lei, per fortuna.

Però rimase seduta accanto a lui sul divano e Kierkegaard si voltò a sorriderle.

«Certo, ognuno ha la sua opinione ed è giusto così» le disse.

Spense la sigaretta e aggredì la torta, continuando a chiacchierare amabilmente con mia madre.

«Allora, vuoi venire a vedere l'Accademia?» mi chiese, quando si fu ricordato della mia presenza. «Sempre se tua madre è d'Accordo».

«Ah sì, per favore» rispose lei. «Non la posso più vedere ciondolare per casa».

Forse mi ero stufata anche io di ciondolare, pensai, seguendo Kierkegaard in strada. Indossava ancora quella brutta uniforme militare e camminava con le mani in tasca un paio di metri davanti a me.

«Spero che la mia visita non ti abbia disturbata troppo» disse, a un tratto, voltandosi per un attimo a guardarmi. «Volevo chiarire l'equivoco. E avevo l'impressione che ti servisse compagnia».

«Sì, mi serviva» ammisi. «Magari non la tua».

«Poco male. Penso che i ragazzi qui farebbero la fila per fartene».

In che senso? I ragazzi avrebbero fatto la fila per fare la compagnia... a me?

«È perché sei un Vendicatore» precisò lui, fermandosi a guardarmi. «Che io sappia sei l'unico esemplare femmina di Vendicatore attualmente in vita».

«Sarebbe una bella notizia?» chiesi, poiché non riuscivo a interpretare il suo sguardo.

«No, non direi» sorrise lui. «Ti staranno tutti in mezzo alle scatole, a fare i numeri per cercare di impressionarti. Forse ti converrebbe uscire con me. Sarebbe sufficiente a levarteli tutti di torno».

«Interessante» risposi, e ricominciammo a camminare affiancati. «Una nuova esperienza che potrebbe piacermi».

«Quella di uscire con me?»

«No» risi. «Quella di avere tutti i ragazzi che fanno i numeri per impressionarmi».

«Ah, sarebbe un'esperienza nuova?»

«Non proprio. Gianluca Tidei, in quarta elementare, per farsi notare da me, ha ingoiato la gomma da masticare».

«Ehi Kirk!» sentii alle nostre spalle. «Ah, ciao Ania».

«Ciao Jurgen» rispose lui, salutandolo con la testa.

«Ciao» dissi, accigliata.

Ero ancora offesa anche con lui.

«Stavo convincendo Ania a uscire con me» disse Kierkegaard.

Jurgen sorrise e mi strizzò l'occhio.

«Buona fortuna» mi disse. «Non sai quanto sa essere insistente. Sono in ritardo, ci vediamo in Accademia».

«Un numero impressionante, davvero. Sono molto colpita» dissi a Kierkegaard quando Jurgen si fu allontanato abbastanza.

«Flagello di Cicero, farebbe impallidire persino Gianluca Tidei» concordò.

Era piuttosto simpatico, questo sanguinario genio evaso di prigione.

«Ti ringrazio per essere venuto a spiegarti» dissi. «Scusa se sono stata antipatica».

«Ma no figurati, non mi sono offeso. Tanto lo so che ti piaccio» disse, sorridendo. «Non ti ricordi quello che è successo al processo? Non potevi levarmi gli occhi di dosso».

«Certo che non potevo» dissi, «eri tu che cercavi un contatto visivo con me, che in quel momento ero debole a causa della claustrofobia. Me lo ha detto Gilbert».

«Gilbert non sa quello che dice» rispose.

Avevo come un riflesso che faticavo a contenere. Non volevo che si parlasse male di Gilbert. Mi veniva spontaneo di provare a difenderlo. Però non mi sembrava che se lo meritasse. Ero ancora troppo arrabbiata con lui.

«Uscirai con me, quindi?» domandò. «Dai, dammi almeno una possibilità».

«Scusami, ma hai appena lasciato intendere di voler uscire con me solo perché sono un Vendicatore. Non so... ti sembra una strategia efficace?»

«So anche ingoiare la gomma da masticare, se serve» rispose, prontamente. «Comunque ne riparliamo dopo, siamo arrivati».

Attraversammo il portico e poi un grosso atrio rotondo col pavimento di marmo bianco con venature grigie, brulicante di gente in uniforme e non. Kierkegaard si fermò una dozzina di volte a salutare o a scambiare qualche parola con le persone che incrociavamo. Certo, ora che il suo viso era rimpolpato e decespugliato non si poteva negare che fosse un bel ragazzo. Di media altezza, con un fisico snello e tonico, la mandibola affilata, i capelli neri e gli occhi azzurri.

Era bello, ma Rei era più bello.

Quel pensiero mi colpì inaspettatamente come un pugno nello stomaco.

Effettivamente, comunque, lì dentro mi sentivo osservata. A giudicare da come mi guardavano sembrava che tutti sapessero chi fossi. Il posto, in ogni caso, era magnifico. Sembrava un teatro dell'opera tanto era elegante e illuminato.

«Come puoi vedere» mi disse Kierkegaard, fermandosi al centro dell'atrio ottagonale. «C'è un settore per ogni famiglia».

Feci una rapida panoramica di tutti i grossi portoni in legno, ognuno contrassegnato con un simbolo diverso.

«Quella è l'aula magna, dove si fanno le riunioni» disse Kierkegaard, indicando una porta tutta nera. «Poi, quello è il settore dei Velatori. Il loro simbolo è il cefalopode. Jurgen è uno di loro, per esempio. Quello lì con la vipera invece è il settore dei Perturbatori di Anime. Lì ci sono gli Incendiari, nel settore con il drago sputafuoco. Quello è anche il mio settore. Non so se lo sai, ma anche Gilbert è un Incendiario».

«No, non lo sapevo» ammisi.

«Quello là con la scimmia è il settore degli Osceni. Sta alla larga da loro, dammi retta» rise. «E quello con il corvo è il settore dei Vendicatori».

«Wow» dissi, osservando il grosso portone chiuso. «Posso entrarci, quindi?»

«Certo» rispose lui, incoraggiante. «E puoi anche mettertici comoda, visto che ci starai da sola».

«Eh?» domandai. «Perché da sola?»

«Perché non ci sono altri Vendicatori, al momento».

«E perché?»

«I Vendicatori sono geni rari» rispose. «E i pochi che ci sono in circolazione non vivono qui».

Mi sentii stranamente delusa.

«E quella porta là?» chiesi, indicando un portone sprangato, grosso il doppio degli altri.

«Quella è l'arena» rispose. «È il posto dove i geni si allenano».

«Potrei entrarci anche io?» domandai.

«Perché no? Potresti allenarti con gli Incendiari» disse lui.

«Davvero?»

«Certo» rispose. «Quando riavrai il medaglione di Gilbert».

«Ah» dissi.

Allora forse non sarebbe mai accaduto.

«È necessario. Già per lasciarti entrare devo violare un'infinità di regole. Non hai neanche finito il praticantato...»

«Ho capito» tagliai corto. «Parlerò con lui non appena tornerà».

Quindi non potevo fare niente, lì dentro.

«Allora torno a casa» dissi, mestamente.

«Ti accompagno».

«No, non è necessario».

«Senti» mi richiamò. «Non ho molto tempo libero ma, se vuoi, posso darti una mano lo stesso. Fuori dall'Accademia, intendo».

«Magari» gli risposi.

Uscii in strada. Forse in quel posto, finalmente, avrei imparato a conoscere e a usare il mio potere e non solo a reprimerlo.

Ero arrivata sotto casa quando mi resi conto di quello che avevo appena fatto. Era Kierkegaard il tizio che si era proposto di aiutarmi. Perché avevo accettato? Perché ero stata tanto gentile?

«Ciao» disse mia madre, sulla porta. «Tutto bene?»

«No» risposi, portandomi una mano alla fronte. «No, credo di essere impazzita».

In questa tiepida domenica novembrina eccomi qui a pubblicare un capitolo anziché uscire a spassarmela.
Non ve lo aspettavate, vero?
Però ve lo avevo detto che avrei provato a pubblicare sempre due capitoli di SPQT a settimana e quindi, con un colpo di coda inaspettato, eccolo qui!
Sperando che la pubblicazione domenicale non vi destabilizzi troppo, vi do appuntamento a mercoledì con il prossimo capitolo!
Ps. Ania sta diventando un pochino schizzata a stare chiusa lì sotto, vero? O forse sta emergendo il suo vero modo di essere?

AppleAnia 

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