1.22 • VILLA TECLA

Eppure, nonostante ci fossimo rinchiusi in quel luogo per la nostra incolumità, non riuscivo proprio a sentirmi al sicuro.

La Setta era interessante, a modo suo. In pochi giorni avevo già capito alcune cose importanti. Per esempio, avevo imparato a distinguere i geni da tutti coloro che non lo erano. Perché i geni avevano un colore diverso. Non il colore della pelle, ovviamente. Era come un bagliore, un alone azzurrino che ogni genio si portava appresso; me compresa, probabilmente. In poco tempo avevo iniziato a percepirlo anche intorno a mia madre e a mio fratello. Come Gilbert aveva previsto, capii quindi il motivo per cui ai geni non servissero sistemi di identificazione ulteriori.

Ero sicura che, se non avessi litigato con Gilbert, avrei potuto fare grandi passi in avanti anche nella conoscenza dei miei poteri. Ovunque andassi, vedevo bambini con i medaglioni al collo ed ero passata casualmente davanti a una costruzione chiamata Accademia.

Me ne andavo in giro per la città sotterranea con questi pensieri in testa, cercando di evitare i passi troppo affollati e, allo stesso tempo, anche quelli che lo erano troppo poco. La paura di ritrovarmi, d'improvviso, faccia a faccia con Kierkegaard non mi aveva certo abbandonata. Non indossando più il medaglione, poi, mi sentivo ancora più esposta e vulnerabile. Ma ero convinta della mia scelta. Gilbert non aveva scuse. Non lo avrei mai perdonato.

Svoltai per un vicolo; avrei voluto raggiungere quell'Accademia che avevo visto per caso il giorno prima, ma non ero sicura di essere in grado di ritrovare la strada. Quel posto sembrava un ingarbugliato labirinto di strade, stradine e vicoli, simile a un formicaio. Mi guardai intorno senza riconoscere alcun riferimento che potesse farmi sperare di aver imboccato la strada giusta quando, improvvisamente, sentii dei passi alle mie spalle.

Doveva essere lui. Kierkegaard. Venuto a vendicarsi di me. Oppure qualche suo scagnozzo pronto a saltarmi alla gola. Tutta quella fatica, il viaggio bendata, il salto nel vuoto, la lite con Gilbert... e tutto solo per finire morta ignobilmente ammazzata in un vicolo.

Mi feci coraggio e mi voltai. Se la situazione si fosse messa male, avevo pur sempre le mie zanne. Zanne che Gilbert mi aveva insegnato solo a non usare. Ma erano pure sempre zanne. Invece, incontrare Kierkegaard, quel giorno, sarebbe stato per me meno sconvolgente.

«Maia... Vanhanen?» dissi, mettendo pian piano a fuoco i contorni della sua figura.

Lei si avvicinò e mi sorrise debolmente.

«Che cosa ci fai qui?» domandai.

«Ciao» disse. «Quello che ci fai tu, credo. Mi ci ha spedita mio padre, per proteggermi».

«Ehm, no» dissi. «Mio padre mi ha mandato qui perché io sono un genio, e fuori sarei potuta incappare in qualche Venator. Tu cosa c'entri?»

Lei mi fissò col suo sguardo glaciale.

«Ci arrivi da sola?» chiese.

«No!» sbottai. «Non posso credere che anche voi siate dei geni! Dopo come mi ha trattata tuo cugino... e dopo il processo».

«Senti» rispose, «andiamo in un posto in cui possiamo sederci, ok?»

Mi condusse, in silenzio, lungo uno groviglio di stradelle, finché non si materializzò davanti ai miei occhi un corso d'acqua sulla sponda del quale cresceva un dignitoso praticello, su cui ci mettemmo a sedere.

«Io e mio fratello Heikki non siamo propriamente dei geni» cominciò.

«Lo so» risposi, guardinga. «Non avete l'alone».

«È vero, non lo abbiamo. Ma i Venatores fiutano comunque il nostro odore. È perché siamo metà e metà. Nostra madre era un genio, nostro padre no».

«No, aspetta» la interruppi. «Anche mia madre è un genio e mio padre no. Io e mio fratello però siamo geni, non... metà e metà».

«Sì, può sembrare strano, lo so» disse lei, sospirando. «In genere va così. Però se ci pensi, da padre moro e madre bionda potrebbero nascere figli biondi o mori. O anche castani. Senza contare il fatto che non tutti i figli debbano avere per forza lo stesso colore di capelli».

Il suo discorso mi parve abbastanza sensato.

«Quindi che genere di poteri avete voi due?» chiesi.

«Scarsi. Non abbiamo le zanne» rispose, quasi ne fosse rammaricata. «Abbiamo qualche potere mentale. Telepatia, più che altro».

«Ho capito» dissi. «Tuo cugino Hans lo sa?»

«No, ovviamente. Non lo sa nessuno. Cioè, nessuno a parte te, a questo punto. Non lo dirai in giro, vero?»

«Non che credo sia una cosa di cui vergognarsi» dissi, acida. «Ma va bene, non lo dirò a nessuno».

«Ti ringrazio».

Assunse un'espressione un po' più rilassata. Nei limiti delle sue capacità.

«Posso chiederti come mai te ne andavi in giro da sola come se stessi cercando qualcosa, poco fa?»

«Cercavo un palazzo che ho visto ieri. Un'Accademia».

«Ah sì, so dove si trova» disse, poi sembrò fare mente locale. «Ma eri completamente fuori strada!»

«Non ho un gran senso dell'orientamento, qua sotto».

Accennò una specie di sorriso.

«Senti» sussurrò. «Hai qualche notizia di tuo padre, per caso?»

«No» ammisi, tristemente. «Nessuna. E tu, del tuo?»

«Niente neanche noi» rispose. «Ma se vieni a casa mia possiamo ascoltare la radio. Ogni due ore trasmettono il bollettino».

«Che razza di radio potrebbe mai prendere sotto terra?» domandai a Maia, salendo le scale di casa sua, una costruzione del tutto simile a quella di Gilbert sul cui portone troneggiava un'insegna, scolpita nella pietra: «Villa Tecla».

«La radio di Tibur» rispose.

«Non sapevo neanche che Tibur avesse una radio. Non so se lo sai, ma ho perso la memoria in un incidente durante la guerra».

«Oh, sì» rispose. «Certo, l'ho saputo».

Entrammo in questa specie di museo polveroso che lei chiamava casa. Piccolo e angusto, proprio come la casa di Gilbert, ma pieno da scoppiare di mobili e oggetti scuri e decadenti.

«Ehi» esclamai, tanto per cambiare discorso, indicando un vecchio rottame di tubo catodico appoggiato su un tavolino. «Ancora meglio della radio».

«La televisione è corrotta. È in mano ai Reazionari. Loro controllano tutto».

«I Reazionari controllano tutto?» chiesi.

«Sì, esatto» confermò. «E non dicono mai la verità».

«Come lo sai?»

«Perché anche mio padre è Reazionario, di nascita. Poi lui ha preso le distanze da quella gente, ovviamente».

Maia si avvicinò a una vecchia radio, un grosso apparecchio impolverato. Afferrò un centrino dallo schienale di una poltrona sgangherata e con esso levò via, con un solo gesto, gran parte della polvere.

«Siete arrivati anche voi da poco?» domandai.

«Sì, da qualche giorno» rispose lei, cominciando a girare la manovella.

«È vostra questa casa?» chiesi.

«Francamente non ne ho idea» rispose, stringendosi nelle spalle. «Mio padre ci ha detto di venire qui, e noi l'abbiamo fatto».

«La situazione peggiora di ora in ora. Sono ormai giorni che non sorge più il sole. Equites e Venatores stanno facendo un buon lavoro, un buon lavoro davvero. Purtroppo abbiamo avuto molte perdite, moltissime. Un centinaio di Venatores risultano scomparsi, circa dieci sono le morti accertate. Abbiamo avuto una gravissima perdita anche tra gli Equites. Uno di loro, purtroppo non ancora identificato, è stato trovato morto stamattina. I decessi tra gli Obumbrati, per fortuna, sono ancora contenuti. Tuttavia non ne conosciamo il numero esatto. Per il momento è tutto, al prossimo aggiornamento».

La voce del cronista lasciò posto ad un sibilo fastidioso che indusse Maia ad affrettarsi a spegnere la radio. Non riuscivo a spiccicare parola. Un Eques era morto.

Rimanemmo in silenzio finché non si aprì la porta e non entrò nel soggiorno Heikki, con un altro ragazzo al seguito. Alto, moro e con la carnagione molto scura, in netto contrasto con l'incarnato latteo di Heikki. Ci guardò attentamente, poi si avvicinò a Maia.

«Ho perso il bollettino, vero? Che cosa è successo?» le domandò.

«È morto un Eques» rispose Maia. «Ma non hanno ancora saputo dire chi è».

Heikki si lasciò cadere accanto alla sorella sul divano, dal quale si sollevò una nube di polvere.
Fissò il soffitto, sospirò, poi le mise una mano sulla spalla, poi sospirò di nuovo, poi sembrò ricordarsi che nella stanza c'erano altre due persone.

«Chi sei?» mi chiese.

«Dai, Heikki» rispose Maia. «È Ania Mei, l'abbiamo conosciuta a mensa. Le abbiamo anche parlato».

«Non mi ricordo» disse.

«Ania» sorrise Maia, indicandomi con la testa il ragazzo che era entrato con Heikki. «Lui è Jurgen».

«Piacere di conoscerti» dissi.

Lui sì che era un genio. La sua aurea blu sembrava poter illuminare l'intera stanza.

«Piacere mio» rispose, accennando un sorriso. Era una persona elegante, nell'aspetto e nei modi.

«Ti accompagno a casa» mi disse Maia, alzandosi in piedi. «Non riusciresti mai a ritrovare la strada da sola».

Arrivai a casa che era ormai ora di cena.

Non avevo le chiavi, quindi bussai forte finché non venne ad aprirmi mia madre. Entrai e, circospetta, salii le scale fino al bagno, dove mi lavai le mani e mi sciacquai la faccia. Non riuscivo ancora a capacitarmi di aver incontrato per davvero i gemelli Vanhanen in quel posto.

«Melania, la cena è pronta!» urlò mia madre, dal piano di sotto.

«Mamma» le dissi, sedendomi a tavola «ho sentito la radio oggi. Hanno detto che un Eques è morto».

Guardai, con orrore, gli occhi di mia madre riempirsi di lacrime. Saltai in piedi e mi misi davanti a lei, facendo sobbalzare Daniel.

«Mamma» urlai, con le mani che mi tremavano. «È papà?»

«No, no» si affrettò a rispondere. «Non è papà».

Mi venne da piangere per il sollievo. Ma notai che anche mia madre continuava a piangere. E non di sollievo.

«Chi è?» le domandai.

«È Kento» rispose, lasciandosi sfuggire un singhiozzo.

Kento. Il padre di Yumi. Il padre di Rei. Non avevo mai ricevuto una notizia così brutta. E non avevo mai visto mia madre piangere. Anche Daniel la fissava sconvolto.

«Voglio andare da Yumi» dissi.

«Non essere sciocca» rispose subito mia madre. «Yumi è in Giappone. Come pensi di arrivarci?»

«Non lo so!» dissi, prendendomi la testa tra le mani. «Prenderò un aereo».

«Ma quale aereo!» urlò. «Forse non hai ben chiara la situazione. Non ci sono aerei! In superficie è tutto bloccato! Non hai capito che sono giorni che non sorge più il sole?»

Mi lasciai cadere di nuovo sulla sedia imbottita, completamente spompata.

«Come fai tu a sapere tutte queste cose?» le chiesi.

«Ascolto i bollettini alla radio» rispose. «Cosa che presumo abbia fatto anche tu».

Per un attimo temetti che avesse qualcosa da obbiettare. E lo aveva, ne ero certa. Aveva già smesso di piangere. Fortunatamente, però, ebbe la decenza di rimandare la ramanzina a un altro momento.

«Dov'è Gilbert?» domandai.

«Ah» rispose lei, colta alla sprovvista. «Se ne è andato. Ha detto che aveva degli affari da sbrigare a Tibur. Il lavoro che svolge non lascia molto tempo libero. Ma non te lo ha detto?»

«Ma non è pericoloso per lui andarsene in giro? Anche lui è un genio».

«Stai tranquilla, lui è perfettamente in grado di badare a se stesso».

Avevo troppi pensieri per dormire. Decisamente troppi per dormire da sola. Decisi, senza ragionarci più di tanto, di infilarmi nel letto di Daniel.

Il corpo di Kento giaceva al centro del tempio della Sibilla.

Intorno a lui tutti gli Equites, in circolo, piangevano silenziosamente mentre Flacara, l'oracolo, in trance, recitava una nenia funebre. Rei era in piedi, davanti al cadavere di suo padre, muto e immobile. La sua mano era stretta in quella di Nerissa che, invece, singhiozzava rumorosamente.

Tutto a un tratto l'oracolo tacque e tutti gli Equites si voltarono verso di lei. Flacara fluttuò fino al corpo di Kento, con le dita gli disegnò un segno sulla fronte e il corpo sembrò congelarsi. Poi si voltò verso Rei e Nerissa.

Si avvicinò loro, fissando Rei negli occhi e inducendo Nerissa a fare un passo indietro. Gli posò, con grazia, una mano sul cuore e cominciò a sibilare qualcosa di incomprensibile, le labbra appena dischiuse, i capelli agitati da un vento leggero che soffiava solo su di lei.

All'improvviso aprì gli occhi e il suo sguardo incontrò quello di Rei. Gli porse lo scudo bilobato che era stato di suo padre, e lui lo impugnò.

«Reijiro Nakamura» disse. «Sei un Eques di Tibur. Da oggi, fino alla fine dei tuoi giorni».

Ed ecco, come promesso, un capitolo un po' più corposo (sia di caratteri che di contenuti).
Poiché sono passati alcuni mesi dalla pubblicazione dei primi capitoli, mi rendo conto che qualcuno, leggendo il nome di Maia e Heikki Vanhanen, potrebbe pensare: "chi??"
Quindi facciamo un rapido recap: Maia e Heikki Vanhanen sono i figli di Immanuel Vanhanen che è uno dei dodici Equites. Come tutti i Vanhanen sono magri belli e biondi e si muovono tipo ballerine.
Quando li abbiamo incontrati? Maia viene nominata la prima volta da suo cugino Hans Vanhanen, il giurato infame che tormenta Ania.
Maia e Ania parlano solo una volta a mensa, quando Maia la avvicina per chiederle scusa per il comportamento di Hans. In quell'occasione Ania capisce che Yumi odia Maia.
L'ultima volta in cui Ania la vede è il giorno del processo, in cui Maia testimonia contro Kierkegaard con tanto di Bocca della Verità.
Fine del recap.
Non vi ci abituate.
A mercoledì prossimo!

AppleAnia

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