1.2 • LA GIURIA

«Senti» mi disse Yumi, non appena ci fummo sistemate nella nostra stanza, «scusa se te lo dico, ma non puoi presentarti alla riunione con la giuria in queste condizioni».

Aprii il mio borsone che, come promesso dal ragazzo della biglietteria, mi ero ritrovata in camera e ne estrassi faticosamente un asciugamano con cui iniziai a tamponarmi i capelli.

«Dammi il tempo di asciugarmi e...»

«Non mi riferivo a quello» mi interruppe. «È la tua condizione mentale a preoccuparmi. Davvero non ti ricordi niente? Niente di niente?»

Mi misi a sedere sul pavimento e mi presi la testa tra le mani.

«Ma cos'è che dovrei ricordare?» chiesi, esasperata.

Yumi mi si sedette accanto, ancora grondante e gelida proprio come me. Mi accorsi che non mi stava più ascoltando. Il mio movimento aveva attirato la sua attenzione su altro.

«Corna di Bacco! Perché indossi questa roba?» mi chiese, prendendomi per i polsi.

Osservai, accigliata, i miei bracciali. Era il momento di pormi una domanda del genere?

«Dobbiamo farteli togliere» concluse.

«Cosa?» chiesi. «Non voglio affatto toglierli! Sono un regalo di mia nonna. Mi ha fatto giurare di non toglierli mai».

«Non sono un regalo di tua nonna. E tu ci hai mai provato, a toglierteli?»

Sì, in realtà qualche volta ci avevo provato. Volevo molto bene alla nonna però, dopo qualche mese, quei bracciali dorati mi avevano stancata: erano grossi e pesanti e, in alcune circostanze, veramente eccessivi. Non erano venuti via, però. Forse si erano fatti stretti. Forse mi erano cresciute le mani.

«Scommetto che ci hai provato e non ci sei riuscita» mi incalzò Yumi.

«Senti» tagliai corto. «Dobbiamo continuare a parlare dei bracciali di mia nonna ancora per molto?»

«No, va bene, scusami. Non volevo essere aggressiva. Piuttosto, domani ci sarà l'incontro preliminare con gli altri giurati. Come pensi di regolarti?»

«Non lo so» ammisi. «Non ne ho idea. Mia madre mi ha scaricata qui fuori senza dire una parola. Speravo di avere delle risposte una volta qui, e invece...»

«Io sono distrutta dal fuso orario, devi perdonarmi. Voglio solo asciugarmi e mettermi a dormire. Domani ti spiegherò tutto quello che so, dopo la riunione. Nel frattempo, però, tu non aprire bocca. Non attirare l'attenzione su di te. Non fare domande. Qualunque dubbio ti venga, chiedimelo in seguito quando saremo sole, va bene? E cerca di tenere coperti quei bracciali».

«Va bene» concessi. «Anche io sono stanca».

Finii di asciugarmi i capelli, mi cambiai e mi infilai a letto. Yumi stava già dormendo. Alla luce fioca del lume mi guardai intorno. Ero entrata nella domus talmente sconvolta dalla sua inaspettata materializzazione e intirizzita dal freddo da non aver avuto modo di osservare attentamente l'ambiente che mi circondava. Di sicuro avevamo oltrepassato un cancello di ferro ed eravamo entrate in quello che sembrava l'ingesso di una grotta, avevamo disceso qualche scalino e ci eravamo trovate in una grande stanza, dal soffitto altissimo, che pareva scavata direttamente nella roccia. La stanza era vuota e illuminata solo da una finestra posta troppo in alto e oscurata dalle fronde degli alberi. Eravamo poi passate attraverso un'altra apertura che, purtroppo, sembrava dovesse condurci ancora più in profondità nella montagna. Ma non avevo neanche fatto in tempo a preoccuparmi di come gestire la claustrofobia che, attraversato un corridoio di pochi metri, avevamo raggiunto una specie di piccolo cortile circondato da un porticato. La porta della nostra camera si apriva direttamente su di esso. Il pavimento della stanza era di travertino, le pareti di pietra spoglia. Il mobilio era altrettanto scarno: due letti di legno cigolanti con lenzuola e coperte di lana bianca, due bauli tarlati e nient'altro. Una porticina stortignaccola conduceva a un bagno piccolissimo.

Mi girai nel mio letto scricchiolante molto a lungo, prima di piombare in un sonno agitato e pieno di incubi.

«Buongiorno» mi disse Yumi, la mattina seguente, tirandomi via le coperte. «Dormito bene?»

«Per niente».

«Ottimo. Nel baule troverai la tua toga. Infilatela e tieni bene a mente ciò che ti ho detto ieri. Ok?»

Mi alzai con le articolazioni scricchiolanti e feci come Yumi mi aveva detto: mi diedi una sistemata, mi infilai la toga bianca a casaccio e la raggiunsi sull'uscio.

«Coraggio» mi incitò, drappeggiandomi la toga intorno al corpo. «Andrà tutto bene».

Uscimmo nel cortile in cui eravamo passate anche la sera prima. Al centro di esso c'era una piccola piscina, una specie di vasca all'apparenza del tutto insensata.

«Da questa parte» mi incoraggiò Yumi.

Anziché ripercorrere lo stesso tragitto che avevamo fatto entrando, ci dirigemmo dalla parte opposta. Attraverso un breve corridoio, arrivammo in una stanza riccamente adornata da dipinti, affreschi e mezzi busti in travertino.

«Dobbiamo proseguire» mi disse Yumi, tirandomi per il braccio, poiché mi stavo attardando per scrutare l'affresco sul soffitto: era una scena di guerra di tipo mitologico. Una scena di guerra di cui non mi importava assolutamente nulla ma che sembrava un ottimo diversivo per perdere quanto più tempo possibile.

Yumi mi trascinò fuori da quella stanza fino a un secondo cortile, molto più grande, ricco e curato di quello su cui si affacciava la nostra stanzetta. La vegetazione del giardino, in netto contrasto con quella selvaggia del bosco fuori dalla villa, cresceva precisa e ordinata in un tripudio di fiori, piante ornamentali, alberi da frutto, ulivi e siepi tagliate a forma di animali. Un porticato, con colonne dai capitelli esagerati, correva tutto intorno al giardino e il sole splendeva alto nel cielo.

«Ma come è possibile? Non dovremmo trovarci sotto terra?» chiesi.

«Ania, dobbiamo sbrigarci».

C'erano anche delle statue, delle fontane scroscianti, delle panchine e quella che mi sembrò una vasca per i pesci. Non ero mai stata in un ambiente tanto magnifico e antico e, allo stesso tempo, così vivo. Yumi, del tutto indifferente davanti al mio attonito stupore, mi condusse sotto il portico fino a una porta che si apriva su una ripida scala buia.

«Dobbiamo scendere qui».

Ovviamente.

«Non voglio scendere. Soffro di claustrofobia» dissi.

«Dovrai fare uno sforzo».

Annuii, ma mi trovai comunque immobilizzata sul primo scalino.

«Ania» mi chiamò ancora Yumi. Nessuno mi aveva mai chiamata in quel modo, tra l'altro.

Presi un bel respiro dal naso, afferrai la mano che Yumi mi stava porgendo e scesi lentamente incontro a quell'oscurità.

Fortunatamente, la sala che ci aspettava alla fine della scalinata, era enorme. Non aveva niente a che vedere con lo sfarzo del piano superiore, però: era una spoglia sala di pietra senza finestre, col soffitto a volta e illuminata solo da quelle che mi sembrarono lampade a olio. Più che una sala per le riunioni pareva una prigione.

Yumi aveva salutato qualcuno dei giurati che si trovavano già sul posto e io, cercando di imitare la sua disinvoltura, sorrisi a destra e a manca a gente a caso imponendomi, intanto, di non cedere al terrore. Assecondando quella che era la mia disgraziata natura, roteai lo sguardo alla ricerca di tutte le uscite. Era una cosa che avevo sempre fatto: al cinema, al ristorante, al centro commerciale. Mi dava sicurezza. In quella sala, però, neanche a dirlo, di uscite di emergenza non ce n'era neanche l'ombra.

Ci accomodammo, quindi, intorno a un tavolo ovale, insieme a tutti gli altri. Alla mia sinistra prese posto una signora alta e po' rinsecchita, di età indefinibile, che ci sorrise, tirò fuori un lavoro a maglia già iniziato e prese a sferruzzare con movimenti espertissimi. Quando tutti i giurati in toga bianca ebbero preso posto intorno al tavolo, la signora ripose il suo lavoro, si alzò in piedi e iniziò, con una voce calda e avvolgente, come quella di una nonna:

«Benvenuti a tutti. Ci troviamo qui per giudicare l'imputato, Jesper Kierkegaard, Superbo ventitreenne, nato in Danimarca».

Pensai di non aver capito bene. In Danimarca? Lo aveva detto sul serio?

«L'imputato è accusato di far parte della Setta del Merro» continuò la signora, «reato che, in quanto classificato come crimine contro l'Impero, è punibile con la morte».

La signora fece una pausa e io rimasi pietrificata. La morte. Stavo facendo da giurato in un processo con pena di morte.

«Dunque» riprese, «l'imputato si è appellato alla provocatio ad populum, che è un suo diritto ma che rende il nostro compito più importante che mai. Dovremo, per prima cosa, accertarci della veridicità delle accuse e, successivamente, stabilire la giusta condanna per lui. Ho finito. Qualcuno ha qualcosa da aggiungere?»

Un ragazzo si alzò in piedi, puntando due occhi azzurri chiarissimi dritti contro quelli scuri e tondi della signora.

«Io ho qualcosa da aggiungere» disse. «Dalla sua introduzione, magistrato Petrocchi, sembra quasi che ci siano dei dubbi sulla sua colpevolezza. Ma lui è colpevole. Dimostriamolo e decidiamo come mandarlo a morte».

Rimasi sconvolta da quelle parole: il ragazzo che aveva parlato, probabilmente poco più che ventenne, mi aveva spaventata.

La signora Petrocchi, invece, non sembrava per nulla intimorita.

«Il tuo nome, caro?»

«Hans Vanhanen».

Il mormorio dei giurati si spense, lasciando posto a un silenzio carico di occhiatine di intesa e gomitate malcelate. Tutti sembravano impressionati da quel nome. Tutti, ovviamente, tranne me, visto che non avevo idea di chi fosse.

«Ah, sei il figlio di Immanuel Vanhanen?» domandò una signora della giuria.

«No» rispose Yumi, alzandosi in piedi, e io mi voltai a guardarla, allarmata. «È soltanto il nipote».

Il ragazzo le indirizzò uno sguardo di disprezzo che lei ricambiò con una smorfia, poi entrambi tornarono a sedersi.

«Molto bene» concluse la signora Petrocchi. «Se non ci sono altri interventi, direi che possiamo aggiornarci a domani».

«Non sarai la figlia di Gabriel, tu?» mi sentii domandare, una volta raggiunta la superficie e quindi il porticato.

Era stato il ragazzo di nome Hans a parlare.

«È la figlia di Gabriel, invece» rispose Yumi. «Qualche problema?»

«No, nessuno» sorrise lui. «Mi avevano detto che era messa male ma non pensavo così tanto. Ma sa parlare?»

«Sì» risposi, come un'idiota.

Hans alzò le sopracciglia divertito, poi si allontanò.

«Perché si dice che io sia messa male?» chiesi a Yumi. «E perché conoscete mio padre?»

Yumi sospirò.

«Circolò questa notizia... si diceva che tu avessi perso la memoria in seguito a un incidente avvenuto durante la guerra».

«Ah, certo. La guerra» risposi.

«Non sai niente neanche della guerra, vero? Ok, devo spiegarti qualcosa. Anzi, farò in modo che tu possa vederlo con i tuoi occhi. Vieni con me».

A ritroso lungo il sentiero inerpicato nel bosco che avevo percorso solo la sera prima per raggiungere la villa di Manlio Vopisco, Yumi mi condusse di nuovo all'ingresso, alla piccola biglietteria dove avevo parlato con il ragazzo sorridente.

Avrei dovuto aspettarmelo, eppure sentii le gambe molli quando mi resi che la biglietteria non c'era più. O meglio, c'era ancora, ma il piccolo gabbiotto di travertino era diventato solo l'ingresso di una costruzione enorme, scavata direttamente nella roccia e che si perdeva a vista d'occhio. Una biblioteca.

«Entriamo qui, vieni» disse Yumi.

Il ragazzo con gli occhiali era sempre al suo posto.

«Bentornate» ci salutò. «Prego, entrate pure».

Poche ore prima, nella domus, avevo creduto di essermi trovata davanti al fabbricato più magnifico che avessi mai potuto immaginare: in quella biblioteca dovetti ricredermi.

La luce filtrava abbondante dalle ampie finestrature della parete d'ingresso. Muovemmo qualche passo tra le scaffalature massicce e polverose sulle quali erano ammassati libri, papiri e rotoli di pergamene, poi ci addentrammo lungo il labirinto di librerie nel ventre della montagna, dove la luce solare iniziava a scarseggiare e a lasciare spazio al tremolante bagliore delle lampade attaccate alle pareti e appoggiate alle scrivanie.

«Sei sicura di saper tornare indietro?» domandai, un po' in ansia.

«Certo, non ti preoccupare. Ecco, guarda lì!»

Un ragazzo in jeans scuri e felpa nera oversize ci stava venendo incontro, sorridendo appena.

«È il tuo ragazzo?» chiesi a Yumi a voce bassa.

«Ma sei matta?» rispose lei, facendo finta di vomitare. «È Reijiro, mio fratello».

«Ciao, Ania» mi salutò lui, «è tanto che non ci vediamo».

Lo scrutai molto attentamente ma non mi sembrava di averlo mai visto prima.

«Non ti ricordi neanche di lui?» mi chiese Yumi.

«No, mi dispiace...» bofonchiai.

Mi accorsi con orrore che la mia voce stava cominciando a tremare.

«Yumi, non farle pressioni» disse il ragazzo, calmo, poi si rivolse a me. «Non preoccuparti, non è colpa tua. Ti aiuterò, per quello che posso».

«Puoi farle tornare la memoria?» domandò Yumi.

«Ovviamente no, non ho accesso ai suoi ricordi. Però posso mostrarle alcuni dei miei. Da dove vuoi partire, Ania?».

Non seppi cosa rispondere, quindi rimasi zitta.

«Parti dalla guerra» rispose Yumi al posto mio.

Lui afferrò due sgabelli di legno, li posizionò uno davanti all'altro, mi invitò a sedermi e si sedette a sua volta. Mi prese il viso tra le mani e poggiò la sua fronte sulla mia: immediatamente mi sentii avvampare fino alla punta delle orecchie.

«Chiudi gli occhi» mi disse, «siamo pronti».

Insomma qui tra giapponesi, finlandesi e danesi sta diventando una Babilonia.
Qualcuno si chiederà: hai intenzione di infilarci qualcos'altro in un robo ambientato a Tivoli? La risposta, ovviamente (e purtroppo) è sì.
Quindi stay tuned, che qui abbiamo appena comninciato.

AppleAnia

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