1.13 • LA PROFEZIA
Il ritorno a scuola fu molto più traumatico del previsto.
Avevo passato tutta la prima settimana di gennaio a discutere con mia madre. Le avevo chiesto se fosse informata sugli ultimi avvenimenti ma non ero riuscita a cavarle una parola di bocca. Avevo insistito in ogni modo e in ogni momento, fino a sfinirla. Ma senza alcun risultato. Solo una volta, quando le feci presente che il rapimento del Pontifex significava che mio padre fosse intrappolato nel tempio senza poterne uscire, notai che ebbe un sussulto.
«Andiamo lì, mamma! Proviamo a tirarlo fuori!» le avevo urlato, sperando di riuscire a volgere in mio favore quel suo momento di esitazione.
Lei però si era subito ricomposta e mi aveva risposto: «Non c'è modo di entrare o uscire dal tempio senza il permesso del Pontifex».
Lo avevo comunque considerato un progresso, lì per lì. Sentire mia madre parlare di Tibur con tanta disinvoltura mi aveva fatto ben sperare. Quell'episodio, però, non si era mai più ripetuto, nonostante io avessi provato più e più volte ad approfittare della sua stanchezza e della sua preoccupazione.
Il sette gennaio mi ero seduta al mio banco in prima fila con il morale sotto la suola delle scarpe. Gaia non si era ancora vista.
«Mei» mi chiamò Rispoli, con il suo tono di voce fastidiosamente roco.
Quando mi voltai a guardarla mi accorsi che tutta la classe ci stava fissando.
«Che cosa vuoi?» le domandai.
«Dov'è la tua amica?»
«Ancora non è arrivata».
Si mise a sedere accanto a me, sulla sedia vuota di Gaia. Quella manovra attirò l'attenzione delle mie amiche, che sopraggiunsero all'istante.
«Non è il tuo posto» le dissi.
«Ma chi lo vuole!» rise.
«E allora perché non ti alzi?» le chiese Corinna, che era sempre piuttosto diretta nei modi.
Anche le amiche di Roberta si erano avvicinate, e il resto della classe ci fissava in silenzio.
«Perché tanto lei non verrà» rispose, tirando indietro la sedia per poggiare i piedi sul suo banco.
«Che stai dicendo?» le domandai.
«Il suo diario segreto potrebbe essere inavvertitamente finito nelle mani di Rocchi» rispose, e le sue amiche scoppiarono a ridere. «Credo che non si farà vedere per un bel po', qui a scuola».
Stronza maledetta. Vorrei vederti sghignazzare con un braccio solo.
Anche se, dal giorno della rimozione dei bracciali, la situazione si era andata via via stabilizzando, non mi sentivo ancora del tutto sicura. Avevo indosso il medaglione ma ci stavo ancora prendendo confidenza.
Quindi, per evitare incidenti, preferii lasciare l'aula.
Mi alzai facendo graffiare le gambe della sedia sui marmittoni del pavimento, afferrai le gambe di Roberta e la costrinsi con uno strattone a tirale giù dal banco di Gaia, poi uscii.
Attraversai tutto il corridoio e raggiunsi le scale. Istintivamente mi sfilai il medaglione da sotto il maglione e lo strinsi forte nella mano. Gradino dopo gradino, mi sentivo sempre più leggera; quando la mia sete fu completamente svanita mi resi conto di essere arrivata davanti alla sala professori.
La Di Pietro ne uscì con un'alta e pericolante pila di libri in mano. Mi affrettai ad andarle incontro.
«Professoressa, aspetti, le do una mano!»
«Oh, grazie».
Presi i volumi più in alto e la guardai aspettando indicazioni. Il suo sguardo rimbalzò rapido dal mio medaglione ai miei occhi.
«Ah, bene» disse, «vedo che hai conosciuto un genio adulto, finalmente».
«Come ha detto?» domandai, sconvolta.
«Coraggio, andiamo in biblioteca a posare questi libri».
Ma non intendeva la biblioteca scolastica aperta agli studenti, quella a piano terra. Ne raggiungemmo, piuttosto, un'altra mai vista prima, all'ultimo piano: una stanzetta angusta e ingombra, poco illuminata.
Posai i libri un po' qua e un po' là su ogni piano d'appoggio libero, poi la professoressa spostò un'intera enciclopedia dall'unica seggiola della stanza al pavimento e mi invitò a sedermi.
«Sono Superba anch'io, Melania».
«Davvero?» domandai, sgranando gli occhi.
«Sì. Deve esserci almeno un cittadino di Tibur, in ogni scuola selezionata. Così sono gli accordi».
Yumi mi aveva spiegato qualcosa del genere, mi sembrò di ricordare.
«Come mai?» domandai.
«Perché i Superbi devono frequentare questa scuola. O almeno, a Tibur è riconosciuto solo questo diploma. Quindi è consigliabile frequentare qui, in modo da non precludersi la possibilità di continuare con gli studi o trovarsi un lavoro lì. E, comprensibilmente, è necessario che ci sia almeno un esponente in ogni istituto».
«Ma...» dissi, confusa. «Gli altri docenti, il personale... ne sono a conoscenza?»
«Figurati, certo che no» rispose. «Soltanto il preside».
«E in questa scuola c'è qualche altro Superbo? Oltre me».
«In questo momento ci sei solo tu».
La porta si spalancò e, bofonchiando, entrò Mario il bidello con un paio di sedie in mano. Non ci vide, appoggiò le sedie imprecando e uscì.
«Avrà sentito qualcosa?» domandai, preoccupata.
«Oh, non c'è problema» rispose lei, «anche Mario è uno di noi».
«Davvero? Scommetto che è un genio!» dissi divertita.
«No, per fortuna» rise. «Mario è un Aruspice. O meglio, lo era, visto che gli hanno levato il cappello».
«Il cappello?»
«Sì, un cappello conico. È il simbolo dell'ordine degli Aruspici».
«Professoressa» dissi, dopo qualche attimo di silenzio. «Ha saputo cosa è successo?»
Lei si fece seria.
«Certo» disse. «In realtà pensavo fossi tu a non saperlo. Sai, tua madre è sempre stata molto chiara su questo. Non ha mai voluto che sapessi niente».
«Lo so» dissi, sconfitta.
«È meglio se torni in classe, ora. Parleremo con calma in un altro momento».
Annuii e, controvoglia, mi alzai.
«Professoressa» dissi, prima di uscire. «Lei che cos'è?»
«Io? Io sono solo un'insegnante».
Avevo trascorso il pomeriggio a casa di Gaia, tentando disperatamente di convincerla a tornare a scuola. Non ce l'avrei fatta, anche senza di lei.
Una volta rientrata a casa avevo chiamato Yumi su Skype. La piantina era un'idea carina e mi sarebbe stata utile per comunicare con Devon che, trovandosi ancora a Tibur, non aveva accesso a telefoni o computer. Ma, con Yumi, non mi pareva che ce ne fosse bisogno.
Dopo che mi ebbe risposto e che la sua faccia fu comparsa sul mio schermo, mi ero però resa conto di un fatto sconcertante: io e Yumi non eravamo in grado di comunicare. Lei parlava giapponese, io italiano. Nessuna delle due sembrava capace di parlare in latino, fuori da Tibur.
E così eravamo tornate alla piantina. Passai in balcone talmente tanto tempo e a orari talmente improbabili per stare appresso al fuso orario giapponese, da rischiare più volte un' orribile morte per ipotermia.
Devon mi aveva scritto che, a Tibur, le cose andavano piuttosto male. Il rapimento del Pontifex aveva seminato il terrore. Nessuno aveva più avuto notizie degli Equites e le vite di tutti erano più o meno paralizzate. Senza che glielo avessi domandato, poi, mi aveva scritto che Rei e Nerissa non erano più tornati. Gli avevo chiesto di Gilbert e lui mi aveva detto che stava bene, aveva ripreso il suo lavoro (mi resi conto in quel momento di ignorare quale fosse) ed era scontroso e taciturno esattamente come prima.
"Dobbiamo fare qualcosa!" scrissi il giorno dopo a Yumi. "Odio dover stare qui senza fare niente con mio padre intrappolato nel tempio!"
"Ma cosa possiamo fare? Mia madre non vuole che torni a Tibur. E poi, se anche riuscissimo ad andarci, come potremmo fare a raggiungere il tempio? E se anche lo raggiungessimo... cosa faremmo? Dobbiamo essere realiste, Ania. Non possiamo fare niente".
Purtroppo aveva ragione: non c'era niente che potessimo fare.
"Scusami ma ora ti devo lasciare" mi scrisse. "Nozomi è venuta a prendermi per uscire".
"Chi è Nozomi?"
"È una mia amica, è nella mia scuola. Anche lei è Superba".
Leggere quelle parole mi fece sentire terribilmente sola.
Ero patetica. Ero seduta, lì su quello sgabelletto traballante sul balcone, con il cappello in testa, la sciarpa girata tre volte intorno al collo e alla faccia e il naso colante, a elemosinare tempo e informazioni.
Yumi, invece, aveva un'amica Superba, lì in Giappone. Un'amica con cui avrebbe potuto accomodarsi davanti a una fumante tazza di cioccolata calda a discutere di Kierkegaard e del Pontifex.
Volevo tornare a Tibur e stare con Yumi e con Devon. E volevo rivedere Rei. Non c'era cosa che desiderassi di più.
Qualche giorno dopo, la Di Pietro venne a chiamarmi in classe. Sembrava stranamente affannata e agitata, cosa molto insolita per lei.
Salimmo di nuovo nella piccola biblioteca all'ultimo piano, dove anche Mario ci stava aspettando.
«Ti devo dire una cosa importante. La Sibilla ha parlato. Sai cosa significa quando un oracolo fa una profezia senza che nessuno lo abbia interpellato?»
«Sì...» risposi, presa un po' alla sprovvista. «Credo significhi che si stia andando incontro ad un destino ineluttabile».
«Esatto» disse lei, camminando avanti e indietro per tutti e due i metri quadri della biblioteca. «Esatto».
«Cosa... cosa ha detto?» domandai, rivolgendo lo sguardo ad entrambi.
«Ha detto che gli Equites devono essere liberati dal tempio. Che sciagure ben peggiori affliggeranno questo mondo. E che, senza Equites, questo mondo non ce la farà».
«Ok...» risposi, senza sapere bene cos'altro aggiungere.
Lei continuò a camminare avanti e indietro nervosamente, aggirando o scavalcando pile di libri più o meno alte sul pavimento e guardandomi ogni tanto per poi distogliere subito lo sguardo da me.
«Lara...» la chiamò Mario.
Lei si fermò di scatto, guardandomi negli occhi.
«Devi essere tu a farlo» disse. «Devi farlo tu».
«Che cosa?»
«Il detentore del braccio della bilancia, il punitore, il giudice universale» mi rispose, recitandomi a memoria la profezia.
«Il braccio della bilancia, il punitore, il giudice universale» ripeté Mario. «Un Vendicatore».
«Cosa?» chiesi, sconvolta. «Credevo che quei titoli spettassero a Giove! Siete sicuri di aver interpretato bene la profezia?»
«Siamo sicuri» rispose la Di Pietro.
«Ma... se...» bofonchiai, poi presi un bel respiro e mi imposi di darmi un contegno. «Ma se anche intendesse davvero un Vendicatore, perché proprio io?»
«Tu ne conosci qualcun altro?» mi domandò la professoressa.
«Beh, no. Io no» ammisi. «Ma deve esserci...»
«C'è» tagliò corto lei, «ma nessuno di cui ci si possa fidare. Tu sei un' eccezione, Melania, questo te lo devi mettere in testa. I Vendicatori sono spietati e spesso malvagi».
Un vortice di pensieri irruppe nella mia mente: confusione, paura di fallire, sensazione di impotenza di fronte agli eventi.
E quella consapevolezza.
Avevo di nuovo un ruolo, anzi, una missione. Ancor più importante del mio compito da giurato.
«Melania, so che sei spaventata. Mi stupirei se non lo fossi. Mi spiace, so che è tutto nuovo per te. Ma devi farlo, non c'è altra scelta».
Beh, non essendoci altra scelta mi sarei vista costretta a... no, un momento.
«Lei non mi lascerà mai andare».
«Di questo non preoccuparti» rispose, seria. «Nessuno può scavalcare l'oracolo. Neanche una madre. Nessuno».
«Professoressa» dissi, cercando di contenere l'entusiasmo mostrandomi ragionevolmente preoccupata. «Io non so come fare. Forse sarò un Vendicatore fidato ma di sicuro non sono un Vendicatore esperto».
«Non c'è problema. Vieni stasera qui a scuola e ti spiegherò io come fare. Ah, Melania» aggiunse, «non è proprio il caso che tu vada da sola. Hai qualcuno di cui ti fidi che potrebbe accompagnarti? Un Superbo, ovviamente».
Visualizzai immediatamente i volti di Yumi e Devon.
«Sì. Ho due amici».
«Benissimo. Falli venire qui quanto prima. Di' loro di sbrigarsi».
«Ok» dissi.
«Ora torna in classe».
Annuii e mi alzai.
«Melania» mi richiamò lei, «quel medaglione te lo ha dato Gilbert?»
Mi stava scrutando attentamente con quei suoi occhietti piccoli piccoli.
«Sì».
«Molto bene. Con un magister come lui, difficilmente potrebbe accaderti qualcosa di brutto. Andrà tutto bene».
«Grazie» risposi, sollevata.
«Un'altra cosa» aggiunse. «Chi ti ha detto che Giove non fosse egli stesso un Vendicatore?»
Ebbene, sfidando il caldo e una cappa d'afa soffocante mi sono presa di coraggio e sono andata pure a Villa Adriana. La cosa positiva di queste gite è che mi stanno facendo perdere una ventina di chili a botta.
... l'ippodromo è veramente piccolo e micragnoso, dodici bighe ci entrerebbero giusto in fila indiana :/
AppleAnia ❧
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