Primi di giugno 1676
La mattina a Vallebruna si prospettava poco interessante, come la maggior parte delle giornate di Vallebruna. Il rumore del mare si mescolava ai suoni del paese: il fabbro picchiava ferro sull'incudine, il falegname sul legno, mentre i carri dei raccoglitori percorrevano le vie trasportando le sporcizie abbandonate ai cigli della strada. Le case erano basse – le più alte a due piani – perché un terremoto, un secolo prima, aveva insegnato una dura lezione al borgo: gli edifici troppo alti crollano più facilmente. Solo dirimpetto al mare, a una distanza sicura dall'estuario del fiume, le case crescevano a tre piani: erano ostelli di proprietà di gente avida e si speculava sulla pelle dei marinai di passaggio. In tutto questo panorama a tratti fatiscente e a tratti semplicemente modesto si faceva strada l'odore del cibo: pane fresco dall'unico forno comune, pesce fritto e poco altro. Dove l'odore del cibo non arrivava spirava il respiro del mare, fatto di salsedine che impregnava i vestiti. Raramente capitava qualcosa di nuovo e di solito erano avvenimenti spiacevoli: qualche anno prima, un marito aveva quasi ucciso la moglie a forza di bastonate e i parenti di lei, avvertite le grida, erano accorsi in suo aiuto e avevano freddato il violento con un colpo di piccone tra le spalle, a tradimento. Se ne era parlato per mesi; poi una nave era affondata poco fuori dal porto e i sopravvissuti si contavano sulle dita di una mano, per non parlare delle enormi perdite in quanto alle merci che avrebbero dovuto circolare nella zona. L'ultimo colpo era stato l'omicidio di una giovane fanciulla il cui corpo era stato rinvenuto a galleggiare tra gli scogli; l'assassino non era mai stato trovato e i tipi loschi che avevano bazzicato lì attorno erano spariti nel corso di una notte.
Per questo motivo l'arrivo di una carrozza suscitava tanto scompiglio: non era una carrozza elegante, anzi, a dire il vero era piccola e anche piuttosto sgangherata; andava avanti per grazia di Dio, si sarebbe detto, ma l'evento era comunque significativo per un piccolo centro abituato agli asini e ai carri scoperti. Il fatto ancora più straordinario fu che si arrestò proprio nella piazza del paese, la piazza dove ogni martedì si teneva il mercato. Era mercoledì e la pavimentazione era ancora insudiciata dei resti di ortaggi marciti e di viscere di pesci, poiché il carro dei raccoglitori non era ancora passato di là. La chiesa era in una vietta poco distante e la messa mattutina era appena giunta al termine, cosicché una folla di curiosi prese a radunarsi prima dietro e poi tutt'intorno alla vettura.
Quando questa si arrestò di fronte al portone di un edificio a due piani, di cui il superiore era da tempo sfitto, tutti capirono che si trattava di nuovi venuti con una qualche intenzione di stabilirsi per un tempo abbastanza lungo. Questo non fece che accrescere la curiosità.
Il cocchiere, un uomo di quarant'anni che aveva un ottimo rapporto con il vino scadente, non smontò dal predellino per aiutare la discesa dei viaggiatori: essi dovettero farsi strada da soli, cercando di ignorare le centinaia di occhi che rimbalzavano dall'uno all'altra e i mormorii che serpeggiavano nel pubblico.
Per primo scese un giovane uomo di piacevole aspetto che subito si volse indietro e porse la mano all'interno; lo seguì, aggrappata a lui, una fanciulla di corporatura snella vestita in abiti stretti e aderenti, quasi sfacciati. Gli uomini si lasciarono sfuggire qualche apprezzamento, così come le donne non nascosero l'effetto del fascinoso sconosciuto. Tuttavia, era gente semplice e disavvezza agli estranei e, benché l'apparenza fosse positiva, non bastò questo a rilassarli.
L'uomo, verosimilmente il marito della fanciulla, la accompagnò all'uscio e afferrò la corda della campanella, pronto a tirarla; a quel punto, tra la folla si fece spazio un signore minuto, che chiamò: «Ferrarini? Ferrarini?»
Lo sconosciuto si voltò e cercò l'origine di quella che, per lui, restava una voce; dopo un paio di sguardi, rispose: «Sì! Tommaso Ferrarini!»
«Tommaso, ecco com'era! Tommaso Ferrarini!» esclamò l'ometto, sbucando tra le persone accalcate in prima fila. «Non vi attendevo così presto.»
I due uomini si strinsero la mano mentre la giovane donna, con aria timida, accennava un inchino.
«Dovreste aver parlato con mio fratello, Alessandro», continuò il Ferrarini aspettando qualche cenno di conferma da parte dell'altro.
«Certo, certo! Siamo già d'accordo e per questo mese l'affitto è pagato. Venite, vi faccio strada», replicò questi, presentandosi poi come Giovanni Calabracchi. Tratta una chiave dalla tasca dei pantaloni, aprì il portone e si fece da parte per lasciare spazio; ma Ferrarini, invece che entrare, tornò alla carrozza, spalancò la portiera e si sporse dentro. Quando ne uscì stringeva tra le braccia una bambina dai folti capelli neri, aggrappata stretta alle sue spalle. Il mormorio della gente crebbe, ma la famigliola scomparve immediatamente nel buio androne oltre la porta, al riparo da occhi indiscreti.
Avrebbero abitato al piano di sopra, quello sfitto da mesi; al pianterreno si trovava invece l'abitazione di Calabracchi, che viveva con la moglie e i tre figli minori. Nel salire la ripida scala malamente illuminata da una finestrella tonda posta in cima, Ferrarini e la moglie parvero far fatica: i gradini erano alti e lo spazio angusto, bastante a una persona soltanto; quando ebbero raggiunto il pianerottolo, tirarono tutt'e due un lungo respiro di sollievo.
Calabracchi scelse una chiave più piccola per aprire la serratura: la visione che si palesò di fronte ai nuovi arrivati non fu certo delle migliori; ma il buon Giovanni, che aveva una bottega da mandare avanti e che si era già alquanto attardato, a detta sua, di punto in bianco ebbe esigenza di andare via, congedandosi in fretta. Consegnò le chiavi, rinfrescò le regole basilari dell'affitto e si dileguò. I suoi passi scesero rapidamente le scale e, alla fine, il tonfo sordo del portone esterno confermò la semplice realtà: se l'era svignata per non dare spiegazioni dello stato della casa.
Ludovica scivolò dalle braccia del padre e si strofinò il nasino, perché la polvere le dava il prurito. Galatea aveva gli occhi ridotti a due fessure, in parte per l'oscurità, in parte per la generale idea di sporco che l'odore di chiuso suscitava istintivamente. Ottavio, dal canto suo, mosse i primi passi nella stanzetta, avanzando con cautela.
«Qui c'è una finestra, Tea. Aiutami ad aprirla!» disse a un certo punto e Galatea, riluttante, lo raggiunse. Dopo qualche minuto tra improperi bisbigliati riuscirono a scardinare un vecchio scuro interno tutto intriso di ragnatele, lo poggiarono a terra e quindi spalancarono la persiana che dava dal lato della piazza. La luce che penetrò, salvo portare un po' d'aria pulita, non fece che manifestare oltre ogni dubbio lo squallore della stanza. Su ogni piano orizzontale si era accumulata molta polvere e l'aspetto di tutto il mobilio era gravemente deturpato da un colore grigio piuttosto sconfortante; il pavimento, che in origine doveva essere un cotto non disprezzabile, era disseminato di insetti morti, sabbia e foglie portate dal vento. Qua e là si vedevano escrementi di topo.
Ludovica sentì mozzarsi il respiro; si gettò d'istinto nel grembo della mamma, chiuse forte gli occhi e cominciò a piangere. Mentre Galatea consolava la bambina, Ottavio divelse da solo lo scuro di un'altra finestra, quindi si avviò verso una porta chiusa sulla parete di fronte. Afferrò la maniglia vincendo la repulsione e spinse forte l'uscio, che ruotava su cardini del tutto arrugginiti.
«E qui è la camera da letto, come pensavo», constatò. Dal suo tono, sua moglie si rassegnò ad affrontare una situazione ancora peggiore. Ripresa la figlia in braccio, coccolandola con baci e carezze, lo raggiunse sulla soglia e guardò dentro: il materasso era marcio, l'intonaco cadeva a brandelli e l'odore di muffa rendeva il tutto insopportabile.
«Speriamo non sia da buttare anche questo», pensò Ottavio ad alta voce, esaminando attentamente la cornice di legno che sosteneva il materasso.
«Io non dormirò mai là sopra», sentenziò Galatea, picchiettando una mano sulla spalla di Ludovica, a cui era venuto il singhiozzo dal tanto piangere.
Ottavio, intanto, liberò una portafinestra chiusa da due travi inchiodate agli stipiti e, forzando la maniglia, la aprì: «Solo dall'interno...» disse, osservando la serratura. La porta dava su un balconato e il balconato su un cortile interno comune a tutte le abitazioni di entrambi i piani: a giudicare da porte e finestre, ogni piano era costituito da quattro appartamenti di due locali; il balconato metteva in comunicazione gli appartamenti su un medesimo piano e permetteva, allo stesso tempo, di stendere i panni ad asciugare. Chi avesse voluto scendere avrebbe potuto usare le due rampe di scale che si trovavano nei due angoli opposti del quadrilatero.
«Oggi sarà giornata di pulizie», disse Galatea. Poi aggiunse: «Meglio portare qui i bagagli o perlomeno lasciarli su quel balcone. Temo che il nostro cocchiere possa dimenticarsene e ripartire con le nostre cose». La prospettiva non era divertente, ma sarebbe stato tutto più tragicomico se si fosse avverata; Ottavio si fece coraggio e raccomandò, durante la sua assenza, di non fare nulla di pericoloso.
***
Angolo Autrice
Entriamo nel vivo, ragazzi! E soprattutto: da oggi per le prossime cinque settimane potrò pubblicare due capitoli, tenendo fissi i giorni di martedì e venerdì.
Non mancate di farmi sapere cosa pensate attraverso i commenti! Sapete quanto mi piaccia leggerli!
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