8 luglio 1676 pt. 2

Dopo un pranzo del genere, Ferraris cominciava a vedere la luce: non sul rapimento, ma sul rapporto che legava i suoi due ospiti. Un po' lo scocciava dover ammettere di essere troppo lontano dal risolvere il primo dilemma, benché non avesse mai avuto una sensazione di ovvietà simile a quella che provava quando si fermava a riflettere sulle circostanze note. Era sinceramente stimolato a trovare il colpevole, la mente macchinosa che si era spinta a mettere in atto un piano che non aveva solo del criminale, ma del folle: si trattava pur sempre del nipote del duca regnante. Dovevano esserci motivi e speranze ben fondate per arrivare a tanto.

Mentre passeggiava lungo la strada sterrata che portava al lavatoio, Ferraris si distolse per un momento dall'indagine per volgere l'attenzione a Ottavio. Gli aveva parlato, quella mattina, e piuttosto schiettamente: non gli competeva, per il momento, tutto ciò che ricordava, anche vagamente, la sensualità spicciola, la lascivia e la lussuria. Non avrebbe salvato la moglie facendo leva su quelle armi, perché lei aveva maturato una corazza tanto spessa da poter resistere a mille assalti con disinvoltura; e per quanto il marchese si fosse ostinato in quella direzione, nulla di buono ne sarebbe venuto. Avrebbe finito col rassegnarsi, col cedere, col perdere definitivamente Galatea. Ciò che doveva fare era metterla a proprio agio, insisteva Ferraris; e Ottavio ribatteva che costava fatica resistere alla tentazione, quando la vedeva rilassata e condiscendente.

"Io non nego che lei voglia fare l'amore con voi", aveva replicato a un tratto Ferraris, "semplicemente vuole essere lei a decidere quando. Finché voi insisterete a fare il primo passo, lei si trarrà un po' più indietro..."

"Ma io capisco che lei è sul punto di volerlo fare, dunque le vado incontro..." spiegò Ottavio.

"Sbagliate! Fate quello che fa lei: usate l'astuzia, dato che non vi manca. Fate promesse, datele speranze, ma fate il difficile. Non l'avete mai fatto e questo la coglierà impreparata. Non dico che dovete rifiutarvi: fatele capire che volete, che siete sul punto di, come dite voi, ma lasciate che sia lei a condurvi lì."

Ottavio, da uomo riflessivo quale era, aveva assunto un'espressione pensierosa e non aveva aggiunto altro. E Ferraris, che ormai aveva esaurito la spiegazione in modo abbastanza soddisfacente, gli aveva augurato una buona giornata e si era allontanato per la propria strada.

A pranzo, qualcosa cominciava ad andare per il verso giusto: carezze ben dosate, parole velate di passione, ma innocenti; sguardi ardenti, sospiri, baci che restavano nel desiderio e non scoccavano mai. Ottavio aveva affinato la tattica e raccoglieva altri segni incoraggianti; d'altro canto, se questo era il suo ambito, quello di Ferraris era completamente l'opposto. Più passava il tempo, più maturavano le condizioni. E più maturavano le condizioni, più abbisognava cautela; si era ritagliato un ruolo con limiti precisi, si era autoimposto un confine da non oltrepassare. Ciò che sarebbe successo, sarebbe successo con l'unico scopo di far del bene, per quanto non se ne vedesse affatto. Era certo che avrebbe funzionato, ma a un costo incalcolabile: come un salto in un abisso di nebbia di cui non si conosce il fondo.

Mentre procedeva, immerso nelle immagini che la sua fantasia gli proponeva davanti agli occhi, incrociò un uomo che viaggiava in direzione contraria con un mulo e un carretto.

«Da dove venite?»

Era per natura un tipo curioso, Ferraris: non si lasciava scappare l'occasione di fare una conversazione con chiunque gli capitasse sotto tiro. L'altro, invece, per quanto avesse un'aria affabile, non aveva alcuna intenzione di rallentare; pur di non perdere un potenziale compagno di cammino, Ferraris invertì il senso di marcia e affiancò lo sconosciuto.

«Non andavate da quella parte, voi?» brontolò quello, tirando il mulo, che ragliò malcontento.

«Ci andavo, ma non ho una meta. Voglio solo sgranchire le gambe e trovo che sia più piacevole farlo in compagnia.»

«Vengo da Trestalli, questa strada porta solo laggiù.»

«Un po' tardi per il mercato...»

«Io mi faccio tenere la merce. Non posso lasciare il bancone al mattino, quando tutti partono.» Non aveva chiaramente voglia di chiacchierare. Camminava da un buon tratto e probabilmente era stanco; dimostrava cinquant'anni, era ben piantato, era rimasto con pochi capelli sulla zucca. Ferraris, da una rapida occhiata, intuì quale fosse il suo mestiere: «Voi siete un locandiere, vero?»

«Cecco Stracci della locanda dell'Oca», si presentò con tono rude. Se non avesse saputo che gli affari gli andavano molto bene, Ferraris avrebbe ipotizzato che il suo cattivo umore fosse causa e conseguenza di una situazione economica precaria. No, era più probabile che si trattasse di semplice malumore dovuto al viaggio.

«Ho sentito parlare di un'Oca storta a Trestalli...»

«È la mia; una catenella che reggeva l'insegna si è rotta e ora l'insegna penzola. Per quello la chiamano così.»

«Non fareste meglio a mandare un garzone a fare il mestiere duro? Vi risparmiereste un sacco di fatica...»

«Fate l'impiccione di mestiere, voi?» grugnì quello, veramente infastidito dalle osservazioni di un perfetto sconosciuto. Ferraris sorrise, tentato di dire la verità e quindi che sì, il suo mestiere era proprio quello; ma si trattenne, mascherando la propria espressione dandole una piega imbarazzata che non aveva nulla di sincero. Sapeva che il silenzio avrebbe fatto parlare il locandiere, che infatti lasciò passare solo qualche secondo prima di continuare: «Di solito,» disse, «se ne occupa il garzone, ma oggi devo parlare con una persona, con un... amico».

«Vi chiedo scusa se faccio l'impertinente, ma sono uno a cui piace parlare... Ve l'ho detto, è che mi annoiavo tutto solo, è una manna trovare qualcuno con cui scambiare due parole...»

La restante parte del viaggio di ritorno fu piuttosto monotona per entrambe le parti; Ferraris cercò di prendere tutti i discorsi da lontano, portando l'altro a dirgli ciò che voleva sentire, mentre il locandiere, che stava a proprio agio solo dietro il bancone della sua locanda, si faceva cavare di bocca anche il minimo suono, fosse anche un lamento disarticolato. Alla fine concordarono una tregua e si salutarono alla porta d'ingresso di Vallebruna, dove uno si diresse verso la piazza principale, quella del mercato, e l'altro prese una stradina laterale. Quest'ultimo era, ovviamente, Ferraris: la sua non era una decisione affrettata, tutt'altro, era ben meditata, almeno dal momento in cui il locandiere gli aveva detto di dover incontrare una persona. Ferraris, dunque, imboccò un viottolo, proseguì dritto e alla prima svolta a sinistra, girò. Andava di buon passo, per recuperare lo spazio perso nel diversivo, e non rallentò finché non vide, nella strada parallela, il carretto di Cecco Stracci. Lo seguì fino al mercato, dove effettivamente ci fu la consegna della merce già pattuita: pesce, carne, verdura e tanto pane, biada per gli animali e vino per gli ospiti. Il campanile fece in tempo a scoccare tre quarti d'ora, prima che il carretto fosse pieno. Il povero mulo, che aveva avuto poco tempo per abbeverarsi alla fontana, crollava la testa da una parte all'altra senza osare dare un solo raglio, per paura del frustino che il padrone stringeva nella mano destra; tirava il suo carretto senza lamentarsi, incespicando talvolta sulle lastre di pietra della pavimentazione.

A questo punto, Cecco si mise alla ricerca dell'amico con cui era d'accordo di trovarsi; e Ferraris dovette farsi ancora più prudente perché il locandiere era costretto a guardarsi attorno con attenzione per riconoscere il volto che gli interessava e un uomo con l'occhio bendato non passa inosservato. Si nascose perciò dietro un angolo e stette lì, ostentando indifferenza, a controllare la situazione. Le bancarelle, ormai, abbassavano le tende, le ceste di invenduto venivano riposte, i poveracci raccattavano da terra gli avanzi mezzi marci abbandonati qua e là. Cecco Stracci si posizionò vicino alla fontana, sedette sul bordo di pietra e immerse una mano nell'acqua per rinfrescarsi dal caldo, quindi si passò quella mano sulla fronte per detergersi un po' da sudore e polvere. Il mulo, rianimatosi, beveva avidamente.

Ferraris, invece, cominciava a sospettare di star solo perdendo tempo. Se fosse stato in casa, allora, forse avrebbe concluso ben altro e senza dispiaceri. La sua fantasia ricominciò a intrecciare i ricordi ai frutti dell'immaginazione e della speranza, annebbiandogli la vista e l'attenzione. Poi, d'un tratto, tornò scattante; e incredulo, anche, perché ciò che vide gli sembrò senza dubbio una combinazione alquanto improbabile.

L'uomo che Cecco Stracci stava aspettando si era infine presentato all'appuntamento, ma dalla gestualità del locandiere si intuivano due cose: rabbia, per il ritardo, e nervosismo, perché la gente ancora in giro li avrebbe visti insieme. Ferraris ringraziò il proprio sesto senso per averlo tenuto in quell'angolo un po' buio ad aspettare: ne era valsa del tutto la pena.

Ne era valsa la pena al punto che la prima cosa che disse al proprio rientro fu: «Grandi novità, non indovinereste mai!»

Ottavio era rientrato giusto un momento prima e, approfittando del fatto che i bambini fossero in camera a giocare, aveva di nuovo messo in pratica i consigli ricevuti la mattina; dalla faccia scocciata che fece, Ferraris dedusse che stavano funzionando, ma non si scusò per la goffa interruzione. Galatea, già piuttosto rilassata, si interessò subito a queste novità; chiese se fosse il caso di parlare davanti ai bambini e, a un cenno negativo, controllò un'ultima volta la zuppa prima di sedere al tavolo, in fibrillazione.

«Se anche vi dessi tempo un secolo senza indizi, non potreste mai indovinare cosa mi è capitato oggi», ripeté con aria molto appagata.

«Dite, forza! Siamo tutt'orecchi!» lo incalzò Galatea e, senza pensarci, si sporse verso Ottavio e lo afferrò per la manica per trarselo vicino. Ferraris ammiccò e, misterioso, disse: «Ho incontrato una persona...»

«Su, fatela breve...» si lamentò Ottavio, sempre più indisposto.

«E va bene: ho incontrato Cecco Stracci, il famoso locandiere di Trestalli», rivelò platealmente con le braccia aperte e la testa leggermente inclinata su una spalla, un sorriso smagliante in volto. Lo soddisfece molto vedere come entrambi i suoi ascoltatori avessero cambiato espressione all'udire quel nome e decise di andare subito avanti, dilazionando la tensione. «Veniva per il mercato, dove ha i suoi fornitori; ma di solito manda il garzone, oggi, invece, è venuto di persona. E perché? Perché doveva incontrare qualcuno...»

«Sarà mica...» cominciò Ottavio, sbigottito.

«Proprio lui: Toni Pertica!»

«Mio Dio! Che cos'avranno in comune quei due? Che cosa si sono detti?»

«Questo, madama, non ve lo so dire: ero lontano, troppo, per sentire cosa si dicessero; quanto a quello che hanno in comune, non mi sbilancio. Potrebbe essere un caso o potrebbe essere qualcosa che non c'entra niente con la nostra indagine. Potrebbe trattarsi di contrabbando illegale o semplicemente di due amici che si ritrovano dopo tanto tempo. Anche se...»

Ottavio prese posto a propria volta, cupo in volto, e domandò a bassa voce: «Anche se...?»

«C'era qualcosa di strano nel modo in cui parlavano. Cecco Stracci aveva paura di Toni; non solo paura come se potesse fargli del male, ma anche paura di essere visto insieme a lui. Era nervoso, si guardava attorno con circospezione, a volte si tappava la bocca e gli parlava all'orecchio. Toni, niente di tutto questo. Aveva le mani sui fianchi e la faccia dura e tanta arroganza in ogni gesto. Alla fine non so come si siano accordati, ma Cecco non aveva un'aria contenta.»

Ottavio e Galatea scambiarono un'occhiata allarmata cui Ferraris corrispose un'alzatina di spalle. Non c'era bisogno di dirlo ad alta voce, ma dei tre fu Galatea a parlare: «Non è niente di certo, ma bisogna approfondire la cosa».

«Io posso andare alla locanda di Trestalli quando voglio, ma non ci andrò da solo. Voi dovete venire con me; fingeremo di aver fatto una passeggiata, di essere arrivati là e di volerci fermare per il pranzo. Ripartiremo nel pomeriggio», propose Ferraris accennando a Ottavio; Ottavio, però, era molto combattuto, prese due respiri profondi e poi disse: «Non credo che Robertone mi concederà un giorno libero. Settimana prossima c'è la festa patronale e il torchio sarà fermo: potremmo andare allora».

«Ma Toni Pertica partirà il giorno seguente», osservò Galatea. «Qualora ne uscisse qualcosa, come faremmo a intervenire?»

«Lei ha ragione: dobbiamo andarci prima», insistette Ferraris.

Ottavio si irrigidì: «Se chiedo un giorno libero per passeggiare tranquillamente fino a Trestalli, Robertone mi licenzierà e la mia falsa identità sarà rovinata».

«La vostra falsa identità potrebbe non servirci più dopo», replicò l'altro, chiudendo i pugni.

La questione era delicata: entrambi si riconoscevano vicendevole ragione e prudenza, ma vedevano la situazione da due punti di vista opposti e inconciliabili. Per questo, la decisione fu rimessa a Galatea, che decise in modo saggio ed equilibrato: Ottavio avrebbe parlato con Robertone il giorno seguente e si sarebbe fatto affidare una revisione da svolgere entro la festa patronale; Ferraris avrebbe preparato un piano per smascherare i rapporti tra Toni e Cecco e valutarne il ruolo nel rapimento di Ippolito; lei, mentre loro sarebbero andati alla locanda, avrebbe portato avanti la revisione al posto del marito.

Ferrarisfu subito entusiasta; Ottavio capitolò poco dopo, riconoscendole il merito.Galatea, sempre più di buon umore, chiamò i bambini e servì la cena.

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