15 luglio 1676

Ferraris provvide a scuoterlo bene, per far sì che si svegliasse in men che non si dica. Tali misure, tuttavia, non si rendevano necessarie, dato che Ottavio non dormiva più da qualche decina di minuti e se ne stava coricato sul proprio giaciglio solo per schiarirsi meglio le idee. Balzò infatti in piedi, non appena l'altro gli ebbe tolto le mani dalle spalle, e lo guardò con un certo biasimo non privo di una vena di risentimento. Si diede qualche pacca sulle spalle e sul petto, quasi volesse togliersi di dosso il contatto che aveva avuto con il traditore, e si avviò alla finestra più vicina.

«Non è ancora l'alba...» osservò, non tanto per pigrizia, quanto perché pensava che fosse troppo presto per attendere già l'arrivo del contingente di truppe ducali che sarebbero dovute venire in loro soccorso. Ferraris, però, considerava più prudente recarsi con un certo anticipo al luogo dell'incontro, soprattutto per non attirare l'attenzione dei paesani muovendosi in un orario più luminoso.

«Prendete la giacca e uscite avanti a me», gli disse e, vedendolo dirigersi verso la porta, lo trattenne con un: «Psst!» e riprese: «Non di là; se passerete dalla locanda, farete rumore e qualche garzone potrebbe vedervi. Dobbiamo uscire dalla finestra!»

«Perché a voi pare più normale che uno si butti dalla finestra invece che passare per la porta!» ribatté, mani sui fianchi e sguardo saccente. Ferraris si morse il labbro e replicò: «Fate come volete, ma non possiamo uscire entrambi dalla stessa porta, quindi qualcuno dovrà passare da qui».

«Fidatevi di me una volta tanto. Seguitemi», tagliò corto Ottavio, aprendo cautamente la porticina bassa e stretta. Si assicurò che l'altro lo seguisse, poi, girando occhiate per il corridoio, si mosse solo quando fu certo che non ci fosse nessuno in giro. Scesero le scale fianco a fianco fino a raggiungere il piano terreno, in un'anticamera che conduceva direttamente allo spazio adibito a locanda. Un telo inchiodato all'architrave divideva i due ambienti, perciò non fu difficile notare la luce soffusa di qualche candela penetrare da diversi spiragli e rattoppi; parimenti, la presenza di intrusi fu palesata dalle voci non lontane che si udirono mescolate a un rimestio di passi e di rumori di trascinamento.

«Perdonatemi, ora», bisbigliò Ottavio e, afferrato il braccio di Ferraris, gli piantò una forte gomitata nello stomaco. Quello, colto di sorpresa, cominciò a tossire e a massaggiarsi il petto, senza trattenere imprecazioni di sorta. Il marchese, cingendosi le spalle con il braccio per cui lo tratteneva, scostò in fretta la tenda, incespicando tra i tavoli. Un garzone, un giovanotto robusto di sedici anni circa, mise il naso fuori dalla dispensa e, vedendoli arrancare con fatica, intervenne a dire: «Che cosa vi prende, signori?»

«Non vedi che mio fratello sta male?!» sbottò Ottavio, diretto alla porta. «Apri, su, o finisce che ti vomita nella locanda e poi lo senti tu, l'oste!»

Il giovane, che evidentemente si riteneva oberato da responsabilità eccessive per la sua scarsa esperienza, non fiatò e, anzi, resse loro l'uscio e indicò un cantuccio riparato dietro la stalla dove nessuno si sarebbe lamentato dello sporco. Ottavio non perse tempo in ringraziamenti e trascinò il pesante ingombro come poté, seguendo i consigli del garzone. Una volta al sicuro, lasciò il braccio di Ferraris, che si buttò in ginocchio per superare gli ultimi crampi.

«Questa... me la pagate...» bofonchiò, respirando tra i denti con la mano ancora premuta sulla pancia. Ottavio fece spallucce e mormorò: «Il vostro debito è più consistente del mio».

Due minuti più tardi erano già in cammino verso Ponte San Giulio, dove avrebbero aspettato l'arrivo del contingente. Mai furono più silenziosi e cupi di quella mattina.

Galatea sollevò la testa dal tavolo percependo, per prima cosa, un dolore lancinante al collo. Era ancora buio e, poco dopo che si fu alzata per sgranchire i muscoli, il campanile scoccò cinque rintocchi cupi seguiti da uno più squillante. Si avvicinò alla finestra e socchiuse gli scuri, sbirciando un panorama appena accennato dal chiarore dell'aurora. Cambiava veramente poco dall'atmosfera del sogno da cui le sembrava di essersi appena svegliata e, con un brivido, cercò di afferrare l'ultima immagine di quel viso sconosciuto e familiare che avrebbe dovuto identificare, da allora in poi, il suo bambino perduto. La pace che la circondava, il silenzio e l'armonia degli elementi le diedero un senso di compiutezza; prese un lungo sospiro e, man mano che l'aria usciva da lei, percepiva dentro di sé un nuovo equilibrio, non privo di una sorta di gratitudine. Era finalmente il momento di tornare a vivere e l'avrebbe fatto anche per quel bambino, il suo Filippo, che era stanco di vederla piangere.

Ferraris sedeva sul ciglio della strada; non era eccessivamente trafficata, eppure Ottavio era nervoso per via del fatto che l'arrivo delle guardie avrebbe attirato l'attenzione su di loro e la voce avrebbe cominciato a circolare, con il rischio che il piano fallisse. Aveva sempre nutrito questo preciso dubbio e nessuna rassicurazione l'aveva mai distolto. Ferraris, perciò, non si stupiva che, proprio nel momento dell'attuazione, il suo compagno mancasse del suo solito sangue freddo.

Il campanile di Ponte San Giulio scoccò sette rintocchi e il marchese batté un piede a terra come sfogo alla pressione dell'attesa.

«Non trepidate come un cavallo nella scuderia; quei ragazzi in uniforme non possono volare», lo rimproverò Ferraris, quindi addentò quel che rimaneva di un pezzo di pane nero avanzato dalla cena alla locanda del Rimbalzello. Ottavio sbuffò, si passò una mano tra i capelli e sedette accanto a lui.

«Ne volete?» disse Ferraris in tono più conciliante, offrendogli l'ultimo boccone di pane. L'altro valutò l'offerta, si morse il labbro e infine alzò gli occhi su colui che l'aveva mossa. Ora che la benda era nuovamente al proprio posto, l'aria di Ferraris non era così minacciosa e strana come gli era apparsa. Accettò con un mezzo sorriso e gli sfilò il pezzo di pane dalle dita per poi portarlo alla bocca.

«Grazie», borbottò, una volta inghiottita la misera colazione. Ritrasse le ginocchia al petto e le cinse con le braccia, intrecciando le dita. Ferraris, di nuovo, dimostrava la sua tranquillità nella postura più rilassata, con le gambe distese e le spalle curve. Pure, anche il suo cuore era segretamente agitato, anche se il motivo della sua agitazione non era da imputare alle circostanze, bensì alla vicinanza di Ottavio. Sentiva con quanta pressione alcune confidenze spingessero per essere rivelate e, consapevole del fatto che, prima o poi, avrebbe dovuto confessargliele, lo preoccupava la scelta delle parole giuste, dei tempi convenienti a simili discorsi.

Ottavio fissava l'orizzonte nel punto in cui il tracciato della strada compariva sul fianco di una collina. Ferraris sospettava che non avrebbe prestato orecchio acuto ai suoi argomenti, qualora fosse stato in grado di smussare gli spigoli più taglienti e privilegiare il lato morbido e vellutato della faccenda. Perciò, cominciando in sordina e sottovoce, quasi parlasse a se stesso, esordì: «Il tempo è buono, oggi; l'aria è fresca...»

«Sì», convenne il distratto Ottavio, senza mutare l'oggetto della propria attenzione.

Ferraris prese coraggio: «A Vallebruna non sarà da meno, anzi, forse sarà addirittura migliore per via del mare». Come previsto, Ottavio non diede neanche a vedere di averlo ascoltato. Riprese: «Il signor parroco sarà molto contento della buona riuscita della processione. Starà già cantando inni di ringraziamento per una così bella giornata».

«Mmh mmh...»

Trovando all'improvviso scomoda la posizione in cui sedeva, Ferraris si distese con le mani a far da cuscino sotto la nuca e, contemplando il cielo azzurro sopra di sé, andò avanti: «All'animo malinconico sono estremamente invise le giornate di sole; è un peccato non poter dare conforto agli afflitti, non trovate?»

Nemmeno le opere di misericordia richiamarono il marchese, fatto straordinario davvero: era ormai ora di parlare chiaro. E la crescente sicurezza spinse Ferraris all'impudenza: «Sapete che cosa diceva sempre vostra moglie?»

Sovrappensiero com'era, Ottavio non afferrò subito l'allusione sottesa a quella domanda. Non intese, cioè, che Ferraris si stesse riferendo ai loro incontri amorosi e, ingenuamente, ammise: «No, non lo so...»

«Che eravate voi, quello che voleva. Non io.»

Ottavio volse il capo con una faccia interdetta che avrebbe suscitato il riso nel più serio degli spettatori, ma Ferraris temeva troppo la sua collera per notare il ridicolo che aleggiava attorno a loro.

«Che cos'è che avete appena detto?» domandò con voce strozzata. Ferraris deglutì e rispose: «Lei vi vuole con tutte le sue forze, ma qualcosa di malvagio la controlla».

«Che cosa blaterate? Qualcosa di malvagio?» e allo spaesamento si sostituì la rabbia temuta. «So io che cosa la controlla: siete voi, che vi servite di lei come una delle vostre concubine e volete allontanarla da me! Ho fatto male ad ascoltarvi, ad assecondare i vostri assurdi disegni: mi sono meritato il tradimento. Solo uno sciocco avrebbe affidato il proprio matrimonio a uno sciupafemmine come voi!»

«Lungi da me paragonare vostra moglie a una concubina!» ribatté deciso. «Se solo aveste la buona grazia di ascoltare ciò che vi sto dicendo, capireste ciò che intendo.»

«Ho ascoltato abbastanza da voi e non ho la minima voglia di farmi imbrogliare di nuovo», tagliò corto il marchese, alzandosi in piedi. «Ora, per l'amor di Dio, state zitto.»

All'orizzonte era infatti comparso un drappello di uomini in uniforme rossa: i fanti marciavano compatti, ognuno con la sciabola alla cintura e un pesante archibugio sulla spalla destra. Li accompagnava una decina di uomini a cavallo, tra i quali si distingueva, per i colori sgargianti del vestiario, l'ufficiale. Ottavio e Ferraris non rimasero fermi ad aspettare che li raggiungessero, ma si avviarono a passo svelto; a entrambi premeva non solo raggiungere il piccolo contingente per abbreviare i tempi, ma anche troncare di netto la tensione creatasi nuovamente tra loro all'accennare a Galatea.

Fu Ottavio a presentarsi per primo, sebbene l'ufficiale fosse già al corrente di gran parte delle informazioni e fosse pronto a inchinarsi senza indugi. Il marchese gli porse la mano, stringendola con un certo vigore; Ferraris si fece avanti subito dopo, prendendosi il compito di spiegare quanto ci fosse ancora di poco chiaro nel piano da adottare.

«I criminali vivono a Trestalli,» cominciò, «potrebbe trattarsi di gente pericolosa, perciò dovremo agire in fretta. In principio, rintracceremo il domicilio di Marco Raspante, stampatore, e lo arresteremo. Contemporaneamente, un paio o più dei vostri uomini si recheranno alla locanda detta dell'Oca storta e arresteranno l'oste, Francesco Stracci. Quindi marcerete verso Vallebruna e, con le accuse di tentato rapimento e omicidio, arresterete Antonio detto Pertica, marinaio. Per quanto riguarda Trestalli, Sua Altezza il marchese e io guideremo le operazioni; a Vallebruna, invece, il comando sarà vostro.»

L'ufficiale, un giovane venticinquenne volenteroso di nome Giovanni Negri, annuì con trepidazione: non era da tutti gli ufficiali della sua età, freschi di addestramento, dirigere un'azione sotto le indicazioni di Alessandro Ferraris per il volere del fratello del duca. L'emozione era tanta che, per mantenere il contegno di un buon militare, Negri dovette schiarirsi la voce un paio di volte sotto lo sguardo severo dei due nobiluomini, prima di riuscire a parlare loro. «Le Loro Signorie», disse, «vorranno certamente cambiarsi d'abito, prima di avviare l'arresto.»

«Dove sono i vestiti?» domandò Ferraris.

«Abbiamo un baule per ognuno di Lor Signori. Sua Grazia il duca si è premurato di assicurare a ciascuno un'ampia scelta di abiti e inoltre, Vostra Altezza, ha disposto che vi fosse riconsegnato l'anello con il sigillo.»

Ottavio approvò, ma aggiunse: «Non lontano da San Giulio si trova un laghetto d'acqua limpida. Vorrei lavarmi prima di indossare altri abiti».

«È tempo di gettare la maschera, Vostra Altezza», convenne Ferraris, afferrando le redini di un cavallo bruno che gli venivano tese da un cavaliere. Montati che furono in sella, il drappello si diresse lungo un sentiero che dipartiva dal corso principale e si persero tra i campi senza che nessun estraneo avesse assistito alla scena.

A Vallebruna, intanto, Galatea indugiava a svegliare i bambini; si era ricomposta, aveva pettinato i capelli in una lunga treccia che aveva poi attorcigliato dietro la nuca, e si era permessa di profumarsi il collo con dei fiori di lavanda colti a un cespuglio piuttosto folto che cresceva nel cortile comune.

La giornata, tutto sommato, non sarebbe potuta cominciare in modo migliore di quello: e benché l'assenza di Ottavio e Ferraris le desse qualche preoccupazione, tuttavia il cielo sereno, l'aria fresca e un'attitudine positiva nei confronti del futuro contribuivano a sollevarle notevolmente l'umore.

In quella pace surreale, rotta solo dai tonfi dell'impasto di pane sull'asse della madia, Galatea udì una voce distante. Lì per lì, non distinguendo l'intonazione e le parole, si impaurì, pensando a Melancolia, ma una rassicurazione la distolse subito da ogni timore. «Sciocchina, guarda che sono io, e non quel mostriciattolo che ti somiglia un po'.»

Si volse con un sonoro sospiro, rilassando le spalle e immergendo le dita nell'impasto.

«Fortuna!» chiamò, quasi rimproverandola. «Credevo non esistessi più per me!»

«Sono sempre stata al tuo fianco, anche quando quella megera ti impediva di vedermi e sentirmi. Quindi, in un certo senso, eri tu quella che non esisteva più per me.»

«Com'è possibile tutto questo?» considerò Galatea, lasciando da parte le tre forme di pane che aveva plasmato nel frattempo. «Non era una presenza nuova, Melancolia... La udivo parlarmi ben prima della tua ultima apparizione.»

Fortuna, che sedeva impertinente sul tavolo, dondolò le gambe con aria furba e spiegò: «Perché l'ultima volta il tuo orgoglio ti ha fatto emergere per un attimo dalla sua gabbia; poi, però, nonostante gli sforzi di tutti noialtri attorno a te, ti sei fatta governare da lei».

«Lo so, ormai ho imparato la lezione, ma...»

«Non ci sono lezioni da imparare, mia cara. I suoi attacchi sono subdoli, non si fa scoprire facilmente e quando si manifesta, in genere, è perché ha assunto il dominio della mente della sua povera vittima. Tardi, ormai, per trarsene fuori. Tu puoi, e te lo dimostra la tua buona cera di questa mattina.»

«Ho fatto un sogno, stanotte...» prese a ricordare, sognante, ma Fortuna la zittì immediatamente: «Non smorzarne la magia parlandone con me. È un'altra la persona cui la vuoi raccontare ed è giusto che sia così. La cosa importante è non lasciarsi scappare l'occasione: se tutto andrà come previsto, i tuoi uomini torneranno per pranzo. Mi raccomando, figliola: non farti ottundere il cuore dalla strega, non ora che una così dolce rassegnazione le pesa sopra. Il tuo bambino vuol vederti sorridere da lassù; e se è lassù, è anche merito di suo padre. Perché lo so, credimi, che temevi per la sorte del tuo piccolo: ora sei in pace...»

E con quelle parole, Fortuna decise di accomiatarsi da lei.

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