Le storie - Sciarada (goodwin_tamara)


Le tre ragazze camminavano con circospezione sul sentiero fangoso che attraversava il bosco: i loro stivaletti avevano le suole lisce e minacciavano continuamente di farle scivolare.

«Torniamo indietro?» piagnucolò Lucy.

Celeste si fermò e si voltò a fissarla con i suoi pungenti occhi azzurri, ma lo fece tanto bruscamente che l'altra ragazza le finì addosso. Lucy si allontanò di un passo il più in fretta possibile.

Prima di uscire, le tre ragazze avevano rubato una lanterna dal gabbiotto del giardiniere, ma i vetri non erano ben sigillati e la fiamma della candela oscillava, creando inquietanti giochi di luce sul volto scarno di Lucy. Celeste aveva sempre pensato che assomigliasse a un pulcino selvatico, con il naso curvo e sottile e quegli occhi troppo sporgenti nell'incarnato pallido.

Rosemary, che reggeva la lanterna, rise e poi avvicinò il suo viso da bambola a quello di Lucy.

«Non avrai mica paura, vero?»

Lucy scosse vigorosamente il capo, facendo ondeggiare i suoi stopposi capelli biondo pagliericcio.

«Quindi andiamo» concluse Rosemary. Lei e Celeste voltarono le spalle alla loro amica e ripresero a camminare sul terreno sdrucciolevole.

Celeste tese le orecchie. «Ci sta seguendo?»

«No.»

Si girarono all'unisono verso Lucy, che si torturava le mani ferma in mezzo al sentiero. Celeste le sventolò davanti la bambola di rametti secchi che avevano preparato quel pomeriggio.

«Allora?»

«Io torno indietro.»

«Non puoi» la rimproverò Rosemary. «Ormai abbiamo usato anche i tuoi capelli per fare quelli della bambola.»

«Perché non torniamo tutte a letto? Chi se ne importa di quella stupida leggenda! Di sicuro nel lago non c'è nessun demone.» Più parlava, più il viso di Lucy si accartocciava in un'espressione preoccupata.

Celeste sbuffò. «Lasciamola qui, Mary, altrimenti ci farà scoprire.» Poi si voltò verso l'altra ragazza e aggiunse: «Vattene! Torna al sicuro dal tuo orsetto di peluche.»

Lucy sobbalzò e poi cominciò a correre verso i dormitori. Scomparve oltre il fascio di luce della lanterna e le due ragazze rimaste sentirono un tonfo, seguito da un urletto. Rosemary rise. «Sarà caduta.»

«Probabile. Dai, fammi luce.»

Avanzarono nel bosco cupo finché giunsero al laghetto. Erano abituate a vederlo di giorno, ma di notte, illuminato appena dalla fiamma della candela, appariva molto più inquietante. Si fermarono sulla riva e i loro stivaletti sprofondarono nel fango.

«Che schifo.» Rosemary arricciò il naso. «Domani Miss Martha si arrabbierà tantissimo.»

«Oh, chi se ne importa. Tanto se il rituale va bene domani avremo un demone al nostro servizio.»

Rosemary rise. «Vero, e a quel punto non dovremo più avere paura di Miss Martha.» Si sistemò una piega del cappotto. «Ora, secondo il libro, dobbiamo lanciare la bambola nel lago e dire la formula magica.»

«Lo so» disse Celeste, scocciata. Sollevò il fantoccio, che aveva in testa ciocche dei loro capelli, e lo lanciò in acqua.

Poi le ragazze recitarono in coro: «Tinev, cih te cnun».

La bambola sprofondò nel lago nero, in silenzio. In lontananza si sentiva solo il bubolare di un gufo, poi anche quello tacque.

Che avessero sbagliato qualcosa? si chiedeva Celeste. Eppure era un rituale molto semplice, e Rosemary era troppo pignola per non averlo seguito alla perfezione. Si voltò verso l'amica, ma un'improvvisa vibrazione dell'aria la fermò prima che potesse aprire bocca. Era un tremore ancestrale, che le riverberava nel torace come se fosse la cassa armonica di un contrabbasso.

Poi il lago esplose, ma quella che schizzò sulla riva non era acqua. Le due amiche strillarono, mentre una sostanza nera e viscida macchiava loro i volti e vestiti.

Una figura informe emerse dalle profondità del lago. Due ali membranose si aprirono sulla sua schiena, mentre sul suo corpo nudo di donna colavano rivoli di quella sostanza nera. I capelli scuri si allungavano a dismisura e ognuno di essi terminava nella bocca di un'altra creatura grigia e indistinta, come un amo tra le labbra di un pesce. Gli occhi di una di queste si fissarono in quelli di Celeste, ed erano così pieni di paura e dolore, così profondamente umani, che la ragazza sentì la propria anima urlare di terrore.

«A voi bambine piace giocare» sibilò il demone.

«Giocare?» La voce di Rosemary arrivò ovattata alle orecchie dell'amica.

«Ora ve lo propongo io un gioco, bambine: una di voi dovrà morire, altrimenti sarete tutte mie.»

«Non è vero!» urlò Celeste. «Tu sei al nostro servizio.»

Il mostro mostrò i suoi denti appuntiti. «Ci vuole coraggio a ordinare a un demone cosa fare.»

«Ma devi farlo! È il patto.»

«Sta' zitta e ascolta. Entro domani a mezzanotte una di voi dovrà morire, e potrà ucciderla solo un'altra persona che ha partecipato al rituale, altrimenti tutte quante vi unirete a loro.» Indicò le creature alle sue spalle, che cominciarono a piangere.

«No, non puoi, tu...» riprese Celeste, ma il demone la interruppe. La sua voce divenne bassa e graffiante, mentre esclamava: «Sciocche, dovevate pensarci prima di invocarmi! Dovrete uccidervi a vicenda e, se nessuna avrà successo, sarete tutte mie». E poi scomparve nell'abisso da cui era apparso.

Nella radura tornò il silenzio. Celeste si voltò verso l'amica, ma la posto degli occhi scuri di lei continuava a vedere quelli disperati delle anime prigioniere del demone.

«Dovrei... ucciderti?» sussurrò Rosemary, incredula.

Celeste scosse la testa e i capelli le frustarono con violenza il viso. «Mary, tu non lo farai, vero?»

«No, certo che no.»

«Promettimelo.»

Rosemary annuì. «E tu? Promettimelo anche tu.»

«Croce sul cuore. Sei la mia migliore amica, come posso ucciderti?» Celeste sentì la propria voce incrinarsi mentre giurava.

Cercarono l'una la mano dell'altra e se la strinsero con forza, conficcandosi le unghie nella carne. Un tonfo in mezzo ai cespugli le fece sobbalzare e cominciarono a correre, con le dite ancora intrecciate. La lanterna oscillava violentemente e Celeste continuava a vedere nelle grottesche ombre che questa proiettava i volti tumefatti dei prigionieri del demone.

Raggiunsero l'edificio che ospitava i dormitori e qui rallentarono. Celeste cercò di respirare piano, ma dopo la corsa i polmoni minacciavano di scoppiarle in petto e il fiato le usciva in rumorosi rantoli.

«Sh, piano, Cel» la rimproverò Rosemary, silenziosa anche mentre ansimava. Salirono le scale in punta di piedi. Celeste temeva di veder comparire Miss Martha dietro a ogni angolo, e invece la loro insegnante non si fece vedere.

Strisciò nella sua camera e si chiuse la porta alle spalle. Solo allora si lasciò andare a un sospiro di sollievo.

Non fece però in tempo ad arrivare al letto che un dolore affilato la prese alla gola, come un amo che la tirava verso un pescatore invisibile. Cadde in ginocchio e si afferrò il collo con le mani. Sentiva le proprie dita stringere e il respiro farsi difficile, ma anche morire soffocata sarebbe stato preferibile a quella condizione di agonia.

Poi com'era cominciato il dolore scomparve, come se il demone avesse voluto darle un avvertimento. Ricorda che non puoi sfuggirmi.

Celeste si sdraiò sul pavimento e chiuse gli occhi, desiderando che fosse solo un terribile incubo.

A svegliarla il giorno dopo fu la domestica, Miss Svetlana, che come ogni mattina bussò alla sua porta con un doppio colpo di nocche.

La ragazza aprì gli occhi con fatica, mentre le ultime immagini del sogno continuavano ad affastellarsi nella sua mente: si vedeva stringere il fragile collo di Rosemary tra le mani, fino a che questo si rompeva schioccando come un rametto secco.

Si raggomitolò, desiderando un mondo in cui lei e la sua amica non avessero mai evocato il demone, una realtà terza che non poteva essere né il mondo reale né quello dei sogni.

Poi si rizzò a sedere e guardò il cappotto, che non aveva mai tolto e che era macchiato dell'acqua nera del lago. Cercò di pulirlo, ma quella sostanza putrescente aveva impregnato a tal punto il tessuto che ogni sforzo fu vano. Celeste lo prese e lo nascose nel fondo dell'armadio: ci avrebbe pensato poi.

Si cambiò in fretta, indossando un elegante abito blu col collo di pizzo, e poi si precipitò verso la sala da pranzo. Davanti alle scale andò quasi a sbattere contro Rosemary. La ragazza era perfetta come sempre, con i capelli neri legati in due ordinate trecce e il vestito con le pieghette stirate, ma i suoi occhi erano pesti e spenti.

Fecero insieme il tragitto senza scambiarsi nemmeno una parola e Celeste si sentì al contempo confortata e intimorita dalla presenza dell'amica. Avrebbe dato qualunque cosa per sapere cosa le stava passando per la testa. Cosa vedeva ora mentre la guardava? La propria migliore amica o una vittima sacrificale?

Entrarono in sala da pranzo e occuparono gli ultimi posti rimasti, uno di fronte all'altro. Dissero la preghiera del mattino, ma, prima che potessero iniziare a mangiare, Miss Martha si alzò in piedi richiamando su di sé venti paia d'occhi.

Il cuore di Celeste si attorcigliò su se stesso.

«Rosemary, Celeste e Lucy, alzatevi» esordì Miss Martha dal suo posto a capotavola.

Celeste cercò l'amica con lo sguardo, ma gli occhi dell'altra sfuggirono ai suoi come un rospo bagnato dalla presa insicura di una bambina.

Le sedie delle tre ragazze stridettero sul parquet.

«Dov'eravate ieri notte?»

Celeste abbassò lo sguardo nella ciotola del porridge.

Silenzio.

«Lucy, rispondi.»

Celeste si voltò verso di lei. La ragazza si stava torturando con dita febbrili una ciocca di capelli e non aveva il coraggio di guardare l'insegnante in faccia.

«Io... cioè, noi... cioè...» balbettò.

«Siamo uscite, volevamo vedere le stelle» intervenne Rosemary. Il tono basso e piatto fece accapponare la pelle a Celeste.

«Le stelle» ripeté Miss Martha, scettica.

Celeste annuì.

«Spero siate rimaste soddisfatte, perché questa fuga vi costerà una settimana di punizione. Lucy aiuterà la cuoca, Rosemary darà una mano a Miss Svetlana e Celeste al giardiniere. Comincerete stamattina, subito dopo la lezione di cucito.» Poi l'insegnante si sedette e cominciò a mangiare.

Celeste dovette trattenersi per non mettersi a ridere: aiutare il giardiniere! Cos'era quella punizione in confronto a quella che si era inflitta da sola?

Sotto lo sguardo curioso e indagatore delle altre ragazze, si sedette a sua volta e cominciò a mangiare, ma ogni cosa che metteva sotto i denti aveva il sapore della terra.

Finita la colazione, si spostarono nel salotto del cucito. Celeste si affiancò a Rosemary.

«Ragazze...» mormorò Lucy, raggiungendole, ma poi non continuò la frase.

Celeste la guardò come se fosse un insetto fastidioso. Tutti erano convinti che fossero un trio inseparabile, ma la ragazza sapeva che c'era un abisso che separava Rosemary e Lucy: la prima era la sorella che non aveva mai avuto, mentre l'altra era solo un'insignificante bambina che le si era appiccicata addosso come il fango all'orlo di un vestito. Le inseguiva ovunque e voleva fare ogni cosa come loro e, quel che era peggio, con loro.

L'idea di evocare un demone era stata di Celeste. Lucy l'aveva sentita mentre ne parlava a Rosemary e quello le era bastato per sentirsi tirata in causa. Nessuno l'aveva invitata, come sempre, ma per lei non era un problema: d'altra parte nessuno la invitava mai. Celeste non sapeva perché, tra tutte le ragazze della scuola, avesse scelto proprio loro. Non erano le più socievoli: Rosemary era tutta perfettina e a Celeste veniva facile rispondere male nei giorni in cui aveva la luna storta, ma Lucy si ostinava a considerarle le proprie migliori amiche.

«Cosa vuoi?» sbottò Celeste.

«Ieri... alla fine...»

«Finisci le frasi, mi irriti.»

Lucy tacque.

Rosemary le spinse dentro la stanza. «Muoviamoci, siamo rimaste indietro.»

Una volta che si furono accomodate, Miss Martha cominciò a spiegare nel dettaglio come ricamare una rosa a punto e croce, ma Celeste si smarrì nella sua voce calma. Si ritrovò a fissare le dita veloci di Rosemary che fissavano un punto dietro l'altro, tutti stretti stretti e vicini, e si domandò come sarebbe stato passare l'eternità prigioniere di un demone, insieme.

Eppure c'era anche un'altra opzione. L'idea la colpì con violenza, ma la scacciò subito: non avrebbe mai potuto fare del male a Rosemary.

Ma se anche non avesse fatto nulla, Rosemary sarebbe comunque finita tra le grinfie del demone. Ci sarebbero finite entrambe. Era quindi così sbagliato cercare di salvare almeno una di loro? Era così sbagliato cercare di salvarsi?

La tela cadde dalle mani di Celeste e lei nemmeno se ne accorse.

No, lei non era così. Non avrebbe ucciso Rosemary.

Uccidere. No, non ne era capace.

Eppure...

«Celeste!» La voce dell'insegnante la riportò alla realtà, facendola sobbalzare. Tutte la stavano guardando.

«Sì, Miss Martha?»

«Cosa stai facendo? Va tutto bene?»

«Sì, scusi, mi è scivolato.» Si affrettò a raccogliere il suo lavoro a malapena iniziato. Con la coda degli occhi sbirciò Rosemary, che si era immobilizzata con l'ago fermo a mezz'aria e la guardava con espressione impenetrabile.

Era strana Rosemary, quella mattina: di solito non era così silenziosa. E se ci avesse ripensato e avesse deciso di ucciderla? Come poteva essere certa che avrebbe mantenuto la promessa?

Celeste si rimise a sedere in fretta e girò lo sguardo dall'altra parte, dove Lucy stava ricamando con solerzia un fungo tutto storto.

«Miss Martha aveva detto di ricamare una rosa.»

Lucy sobbalzò. «Sì, ma pensavo che un fungo andasse bene uguale. A me piacciono di più i funghi, e questa è un'amanita muscaria, uno dei più belli.»

«Ma chi se ne importa, non è quello che dovevi fare.»

«Sì, ma...»

Celeste smise di ascoltarla, in fondo non aveva nessuna importanza quello che ricamava Lucy. Nonostante la sua insulsità, alla fine era quella che, scappando, aveva fatto la cosa giusta. Lei non sarebbe morta quella notte e avrebbe potuto continuare a ricamare la cosa sbagliata per un altro numero imprecisato di decenni.

Celeste strinse l'ago fino a farsi male e il sangue macchiò il telo bianco nel centro della rosa.

Dopo la lezione, la ragazza andò a scontare la propria punizione. Raggiunse il giardiniere in giardino, tremando di freddo nell'abitino leggero. Lui la guardò stranito, ma non fece domande. La portò nella serra e la mise a dare l'acqua alle piante di zucca.

Celeste faceva tutto in automatico, la testa concentrata su altro. Una luce bianca e opaca scendeva da un cielo nuvoloso e rendeva l'atmosfera onirica, contribuendo a creare nella sua mente una sensazione di altrove.

Continuava a pensare a Rosemary, che in quel momento stava aiutando Miss Svetlana a pulire le camere. La preoccupava che l'amica potesse entrare liberamente nella sua stanza, dove avrebbe potuto agire indisturbata. Facendo cosa, non lo sapeva nemmeno Celeste, ma ne aveva paura e si domandava come fosse possibile che in così poche ore fosse arrivata a temere le azioni della sua migliore amica.

Sollevò un innaffiatoio e balzò indietro, mentre un serpente nero fuggiva via, andando a nascondersi dietro uno scaffale. Celeste si allontanò in fretta: le sembrava di ricordare che una volta Miss Martha aveva detto che si trattava di una specie molto pericolosa.

Sapeva che avrebbe dovuto avvisare il giardiniere, ma per qualche ragione non lo fece. I suoi occhi e quelli del serpente si erano incrociati per un istante, e a lei era parso di vedervi l'anima del demone.

Quando il giardiniere la lasciò andare, l'ora di pranzo era ormai passata, ma lei si recò comunque in sala da pranzo, come ordinato da Miss Martha. Il tavolo era apparecchiato solo per due e i piatti di zuppa erano già lì. Davanti a uno di questi era seduta Rosemary, che sorseggiava distratta.

Celeste si immobilizzò sulla porta e poi con passo circospetto, come se si trovasse vicino a un animale selvatico, le si sedette accanto.

Rosemary poggiò il cucchiaio e si voltò verso di lei.

«Cel...» iniziò, ma si interruppe subito.

«Dimmi.»

«No, niente.» Abbassò lo sguardo nel piatto e raddrizzò la schiena già dritta. Poi accennò un mezzo sorriso di scherno. «Lucy ha aiutato a preparare il pranzo, non sono sicura che questa roba sia commestibile, ha un vago sentore di spazzatura.»

Celeste rise, sentendosi per un istante più leggera. Poi però le parole di Rosemary cominciarono a scavare dentro di lei come acido: l'amica era lì da sola, in sala da pranzo, come poteva essere sicura che non le avesse avvelenato la zuppa? Forse era questo che voleva dirle? Stava per avvisarla del veleno, ma poi ci aveva ripensato?

E ora non la stava forse fissando in modo strano? Se lo era sognata o gli occhi dell'amica continuavano a fissarsi sul suo piatto?

«Ah, maledetta Lucy!» esclamò invece Rosemary. «Non ha nemmeno messo in tavola l'acqua.»

Si alzò e abbandonò la stanza, diretta in cucina. Celeste la guardò sparire oltre la soglia.

Rosemary le aveva avvelenato la zuppa, ormai ne era quasi certa.

In fretta, senza nemmeno rendersi conto appieno di quello che stava facendo, prese il proprio piatto e lo scambiò con quello dell'amica. Rosemary ne aveva mangiato così poco che non si sarebbe certo accorta della differenza.

Un disperato senso di colpa investì il cuore di Celeste. Le mancava Rosemary, la sua Mary, la persona a cui fino al giorno prima avrebbe affidato la propria vita.

L'altra ragazza tornò dalla cucina con una brocca d'acqua e riprese a mangiare in silenzio. Per tutta la durata del pasto non si scambiarono più nemmeno una parola.

Nel pomeriggio era prevista una lezione di musica, ma il pianoforte era uno solo e quindi le ragazze avrebbero seguito la lezione cinque per volta. Rosemary era al secondo turno e Celeste al terzo, insieme a Lucy.

Mentre aspettava, Celeste si ritrovò a vagare sovrappensiero. Avrebbe potuto tornare in camera sua e riposarsi un po', ma non aveva il coraggio di entrarvi. E se Rosemary le avesse tirato un brutto scherzo?

In fondo già le aveva avvelenato il pranzo.

Certo, nonostante lo scambio dei piatti a Rosemary non era ancora successo nulla, ma era solo questione di tempo. Sicuramente l'amica pensava ormai di avere vinto, ma magari aveva preparato anche un piano B: era una ragazza molto previdente e non lasciava mai le cose incompiute.

In un modo o nell'altro, l'avrebbe uccisa entro la mezzanotte.

L'unica sua salvezza era precederla.

Precederla.

Farlo voleva dire ucciderla.

Celeste uscì in giardino e lo attraversò con passo leggero, come se stesse camminando sopra un tappeto di fragili ossicini.

Precederla.

Quale sarebbe stata la prossima mossa di Rosemary? Tutte le cose che la ragazza aveva detto e fatto nel corso della giornata si ripetevano all'infinito nella mente di Celeste, sconclusionate e confuse come pezzi di puzzle sparsi sul tavolo.

A Celeste sembrava di essere nel mezzo di una sciarada: doveva comprendere le intenzioni dell'amica partendo solo dai suoi gesti, mettendoli insieme e sperando di trovare qualcosa di senso compiuto. E aveva una sola opportunità perché, se avesse fallito, sarebbe morta.

Si assicurò che il giardiniere non ci fosse ed entrò nella serra. Si avvicinò allo scaffale dietro cui si era nascosto il serpente e cominciò a cercarlo. Il cuore le batteva all'impazzata e Celeste non era sicura di quello che stava facendo.

Alla fine lo trovò raggomitolato in un vaso vuoto, come se stesse aspettando solo lei.

Rapida, la ragazza tappò l'apertura con un sottovaso, intrappolando l'animale all'interno. Poi corse fino alla camera di Rosemary. Socchiuse l'uscio, fece cadere il serpente sul pavimento e serrò in fretta la porta.

Mentre nascondeva il vaso nel proprio armadio, si meravigliava per ciò che aveva fatto. Davvero aveva appena messo un serpente nella camera di Rosemary? L'animale si sarebbe infilato tra le lenzuola e poi l'avrebbe uccisa durante la notte.

Per smettere di pensarci, corse fino alla stanza della musica, dove il gruppo prima aveva appena finito la lezione. Si sedette subito al pianoforte, sperando di affogare nelle note l'inquietudine del suo animo.

Stava suonando un pezzo a quattro mani con Lucy, quando un urlo fece tremare i bicchieri nelle vetrinette.

Celeste smise subito di suonare e recitò una preghiera nella sua testa.

Tutte abbandonarono la stanza al seguito di Miss Martha, ma la ragazza rimase seduta dov'era.

Lucy si fermò sull'uscio. «Non vieni?»

Celeste spostò lo sguardo su di lei, dal suo viso pallido fino agli stivaletti sporchi di fango scuro. Annuì, e le due ragazze raggiunsero la camera di Rosemary, che aveva perso tutta la sua compostezza e tremava tra le braccia di Miss Martha, in corridoio. Arrivò trafelato anche il giardiniere, seguito da un'altra ragazza che era andata a chiamarlo.

«Ci penso io al serpente, voi andate via» disse brusco e sparì nella stanza.

L'insegnante le condusse in salotto e Celeste si sedette di fianco a Rosemary, al contempo delusa e sollevata che non fosse morta. Le loro spalle si toccarono e Rosemary si ritrasse con uno scatto, gli occhi stretti a una fessura che contenevano a stento un turbinio di emozioni indecifrabili.

«Celeste, accompagna Rosemary a bere un bicchiere d'acqua» ordinò Miss Martha.

Le ragazze si diressero in silenzio in cucina. Varcata la soglia, Rosemary si guardò intorno e, accertatasi che la stanza fosse vuota, chiuse la porta con uno scatto. Poi si voltò a fissare l'amica e i suoi occhi erano rabbiosi. «Tu! Sei stata tu! Mi hai messo il serpente nel letto! Volevi farmi fuori, vero?» Mentre parlava, si avvicinava con passi minacciosi a Celeste, che si trovò obbligata a indietreggiare.

«Mary, promettimi che non mi ucciderai!» continuò in falsetto, imitandola. «Bugie, tutte bugie! Avevi già deciso allora che mi avresti ammazzata?»

Celeste voleva difendersi, ma le parole sembravano fuggite dalla sua testa. Quindi Rosemary non aveva mai avuto intenzione di ucciderla? E l'atteggiamento sospetto che aveva avuto per tutta la giornata? Se lo era immaginato?

Fece un altro passo indietro e andò a sbattere contro un mobile. Rosemary le fu davanti in un attimo, il corpo di lei che schiacciava Celeste contro gli sportelli.

Rosemary allungo una mano e rovesciò il portaposate sul ripiano, in un fragore metallico. Prese un coltello e lo puntò verso Celeste.

Se non aveva avuto intenzione di ucciderla durante la giornata, ora di sicuro aveva cambiato idea.

Prima che potesse colpirla, Celeste sgusciò via, ma l'altra ragazza l'afferrò per l'orlo del vestito e la fece cadere in terra. Per un attimo Celeste vide tutto nero. Il cuore le batteva a mille e il sudore le stava impregnando i vestiti.

Si agitò in modo casuale, tentando di difendersi da un nemico che non riusciva a vedere chiaramente, ma all'improvviso un forte dolore allo stomaco la fece accartocciare sul pavimento come un verme.

Immaginò che Rosemary ne avrebbe approfittato per colpirla, ma quando si voltò verso di lei anche l'altra ragazza era piegata in due, appoggiata al mobile.

D'improvviso la porta si spalancò.

«Tutto bene?» domandò Lucy. «Abbiamo sentito dei rumori strani.»

Poi la ragazza le vide e sul suo viso si dipinse un'espressione sorpresa, che si trasformò subito in un sorrisino affilato che stonava nel viso ingenuo di Lucy.

«Capisco» disse solo.

Celeste invece non capiva. Fissò la ragazza attraverso il proprio dolore: i capelli sciolti, il vestitino beige, gli stivaletti sporchi di fango nero.

Nero?

Il fango non era nero. Gli schizzi del demone sì, però.

Gli occhi di Celeste si spalancarono per l'orrore. «Lucy, ma tu ieri sei rimasta?»

Lei si richiuse la porta alle spalle. «Io... cioè, me ne stavo andando, ma poi qualcosa mi ha spinta a tornare da voi. Non lo so, forse perché nella bambola c'erano, sì, insomma, anche i miei capelli.»

Lucy non se n'era andata. Aveva partecipato al rituale.

Non erano due i giocatori, ma tre.

Per tutto il tempo Celeste si era preoccupata della persona sbagliata.

«Cosa ci hai fatto?» rantolò Rosemary.

«Amanita phalloides. È un fungo velenoso, l'ho messo nella tua zuppa.» Poi mi guardò perplessa. «Non so perché sta male anche Celeste.»

Nella zuppa di Rosemary. Celeste gridò, contorcendosi sul pavimento.

Nella zuppa di Rosemary.

Se si fosse fidata, se non avesse scambiato i piatti, sarebbe stata salva.

«Ora chiamerò Miss Martha» spiegò Lucy. «Tanto quel fungo è mortale, non c'è niente che vi possa salvare.»

Celeste la vide sparire oltre la porta. Poi si voltò verso l'amica. Per un attimo se la immaginò con un amo in bocca, per sempre al suo fianco. «Mary, mi dispiace.»

Rosemary fece un sorriso amaro. «Anche a me.»

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