Tragica Curiosità


Titolo: Tragica Curiosità

Autore: federicagelmi

Elementi segreti: Rapimento,  Passaggio segreto, Fantasma



Camminare è una delle cose che preferisco fare.

Quando cammino il mondo si ferma, sono in pace con me stessa e al contempo mi tengo in forma; ogni volta finisco per scoprire luoghi inesplorati e nascosti, battuti solo da flora e fauna, nessuna traccia umana.

Il recente lockdown ha tenuto tutta Italia rinchiusa per molto, troppo tempo, e due sono state le conseguenze più negative per me: numero uno, nonché relativamente meno importante, non ho potuto camminare; numero due, decisamente rilevante, ho perso il lavoro.

Da quando ci hanno concesso nuovamente di uscire ho tagliato i ponti con famiglia e amici, non so ancora se per orgoglio o scarso livello di sopportazione; sicuramente ho preferito evitare di sentirmi addosso sguardi di compassione - per il lavoro, ma anche per aver passato l'intero lockdown rinchiusa da sola nel mio squallido monolocale -, oppure discorsi motivazionali.

In compenso, la prima cosa che ho deciso di fare subito dopo la riapertura è stata quella di tornare a camminare, sempre da sola per evitare di essere contagiata o di contagiare, ed è da qualche giorno che ogni volta spingo la mia macchina un po' più in là per raggiungere luoghi sempre più lontani.

Oggi sento che esplorerò un posto suggestivo, me lo dice il mio istinto di camminatrice, e di solito lui non sbaglia mai.

Quindi eccomi qui, uno zainetto carico solo di cibo e acqua in spalle e tanta voglia di scrutare il paesaggio, alla ricerca di un qualsiasi dettaglio invisibile a chi gli occhi li usa solo per guardare dove mette i piedi.

Intravedo dei passanti distratti, indosso la mascherina qualche metro prima di incrociarli e la tolgo altrettanti passi dopo, scuotendo la testa per i telefoni in mano, per la conversazione assente; io mi trovo qui da sola, certo, ma se qualcuno fosse con me non perderei tempo a controllare le notifiche quando potrei esplorare e condividere la passione della camminata e della scoperta.

Proprio quando ripongo con cura la mascherina nel suo sacchetto, noto con la coda dell'occhio un breve sentiero stretto, tracciato probabilmente da piccoli animali, che sparisce verso un muro nascosto da salici piangenti ed edera.

Guardo davanti a me assicurandomi che non stia arrivando nessuno, poi dietro, dove la coppia di passanti appena incontrata si allontana sempre di più, ignara di ciò che la circonda.

In un gesto abitudinario, faccio scorrere gli occhiali più su lungo il naso con un dito, dopodiché imbocco il sentiero quasi invisibile a occhi non attenti osservando con concentrazione il terreno alla ricerca di dettagli interessanti.

A parte qualche terrorizzato insetto e una rana gracidante, non noto altro di particolare, così raggiungo il muro controllando ancora una volta che nessuna persona sia in arrivo, subito dopo scosto qualche ramo per avvicinarmi comodamente senza rischiare di inciampare o sbattere la testa.

Ormai gli sono esattamente di fronte e riesco a vedere ogni dettaglio dei mattoni che lo compongono, crepe e buchi compresi; però, circa dall'altezza della vita fino a terra, il muro è completamente ricoperto d'edera - la stessa che vedevo spuntare tra i salici - e non si vede altro che le svariate sfumature di verde.

Sono affascinata da questa copertura parziale e netta, insolita da vedere in natura, e comincio a chiedermi se ci sia lo zampino umano.

Ancora presa dai dubbi, mi accuccio per avere l'edera esattamente davanti al viso e comincio ad analizzarla con curiosità, arrivando ad accarezzarla con la mano, lentamente e con delicatezza, fino a quando sento qualcosa di diverso: non un differente livello di durezza, bensì un soffio d'aria fresca che mi passa tra le dita.

Corruccio la fronte in un'espressione indagatoria e a palmo aperto, parallelo a quello che dovrebbe essere il muro, distendo il braccio sino a sfiorare l'edera, per poi schiacciarla; solo che non si piega alla forza che esercito, ma si scosta aprendomi uno scorcio di piante secche ed erba arida.

Un'ultima volta controllo che nessuno sia in arrivo - anche se probabilmente non mi vedrebbero, distratti come sono -, infine sposto con entrambe le mani l'edera pendente per permettermi di oltrepassarla ed esplorare ciò che nasconde il muro.

Il mio sospetto è che non nasconda chissà quali particolarità a causa della sua bassezza che lascia intravedere sufficiente paesaggio da farsi un'idea, tuttavia mi costringo a ricredermi, sbalordita e senza parole: l'erba troppo cresciuta e le piante spoglie fanno solo da sfondo all'imponente casa abbandonata, dalle pareti, probabilmente una volta bianche, scrostate in diversi punti e disseminate da crepe profonde; mi giro procedendo, quindi, all'indietro per ammirare il muro dal quale sono appena passata, ma al posto dell'ammasso di mattoni vedo un albero col tronco ricoperto d'edera, nient'altro che lui circondato dalla natura più selvaggia e trascurata. A furia di procedere a ritroso, il tallone del mio piede destro colpisce un sasso piuttosto sporgente e quasi rischio di cadere; ritrovo miracolosamente l'equilibrio e ne approfitto per voltarmi nuovamente e continuare a camminare normalmente, così torno ad osservare la casa: le finestre senza vetri mi lasciano intravedere solo una cavernosa oscurità prima che un colpo ricevuto alla nuca mi faccia cadere a terra accolta dal tenebroso nulla.

CLANG.

TONF.

Mi risveglio a causa dei rumori, stordita, gli occhiali storti sul naso che, deducendo dal dolore, avranno sicuramente lasciato solchi rossi lì dove si appoggiano, la vista offuscata non solo a causa della miopia e distesa sul lurido pavimento dissestato di quella che suppongo essere la casa che avevo appena avuto modo di notare.

Facendo pressione sulle braccia, alzo il busto e riesco a sedermi senza, però, osare alzarmi.

«Come diavolo ci sono arrivata qui?» borbotto, non riuscendo a tenermi nei pensieri la domanda spontanea.

«Il diavolo non ha niente a che fare con questo».

Porto istintivamente le mani alle tempie, la testa che mi pulsa dal dolore e la strana sensazione che la voce che ho appena sentito fosse nella mia mente, dalla doppia sfumatura contrastante: stridente come l'unghia sulla lavagna, profonda come gli abissi del mare.

«Quando sono caduta devo aver sbattuto forte a terra» dico ancora, scuotendo il capo in un gesto di autoconvinzione. «Sì, dev'essere così».

«È plausibile: non sono più abile a possedere voi umani come una volta, non lo facevo da tempo».

Ancora una volta la voce si propaga nella mia mente, strascicando l'ultima parola a tal punto da farmi venire i brividi.

Non posso pensare davvero che sia solo un trauma dovuto alla caduta, considerando anche la mia presenza all'interno della casa quando solo poco fa - quanto tempo è passato? - ero fuori.

«Chi sei? Un fantasma?» chiedo, forte e chiaro.

«Ah!» esclama. «Un fantasma» ripete. «Così mi definite? Sono un'anima senza tempo, un'entità nel nulla» risponde, e questa volta avverto la sensazione che la sua voce si sia spostata, pur rimanendo dentro i miei pensieri.

«Dove sei? Perché ti sento nella mia testa?» domando, quindi, spaventata.

Non riesco a comprendere se io stia sognando o meno; magari sono ancora a terra, distesa su quel prato incolto circondata dagli insetti che si chiedono cosa io sia e cosa ci faccia nel bel mezzo del loro territorio. Però, magari, non è affatto un sogno e quello che sto vivendo è reale.

Perciò come dovrei considerare ciò che mi sta accadendo? Una strabiliante scoperta umana? Una bella dose di pura sfortuna?

«Oh» mormora, sogghignando. La sua risata è quanto di più angosciante io abbia mai sentito; a dirla tutta, non so nemmeno se si possa definire tale. «Io sono come il vento, non ho una forma: sono ovunque e non sono da nessuna parte» confessa, causandomi una crescita di terrore. «E per questo motivo riesco a comunicare nella mente di voi umani, così deboli e facilmente penetrabili».

Non so come ribattere, ma conosco per certo i miei desideri: voglio uscire da qui.

Mi alzo a fatica, ignorando le gambe che sembrano non voler eseguire i miei ordini e che tremano sotto il peso del resto del corpo, stordito e poco collaborativo.

«È faticoso, non è vero?» mi deride.

Se davvero è onnipresente, come farò a sfuggirgli? Improvvisamente un dubbio mi sfiora: può leggermi nel pensiero? Sentire quello che sto pensando? Se potesse farlo, avrebbe già cercato di fermarmi in qualche modo? D'altronde se comunica telepaticamente, non significa necessariamente che sappia fare altro legato alla mente.

Comincio ad avanzare, un passo a fatica davanti a un altro trascinando i piedi e le gambe, che sembrano pesanti come dopo una particolarmente sfiancante sessione di allenamento; persino le braccia che sto usando come appoggio sulle pareti scrostate non sono propense a darmi l'aiuto di cui avrei bisogno, con la conseguenza che sembro un'ubriacona che ha alzato fin troppo il gomito e non riesce a reggersi in piedi.

Nonostante la situazione nella quale mi trovo, nonostante la paura - nonché la vera ragione per cui riesco a muovere qualche strascicato passo -, mi ritrovo a pensare a quanto io debba davvero sembrare assurdamente divertente vista da fuori e a come mi debba cacciare fuori dai guai da sola, perché in solitudine mi sono abituata a stare.

Forse è anche per questo che noi esseri umani abbiamo bisogno di familiari e amici.

Ripenso al cellulare che ho lasciato sul sedile della macchina per assicurarmi di stare in mezzo alla più pura natura e per la prima volta mi sento un'idiota per essermi lasciata andare in questo modo dopo il lockdown, dopo la perdita del lavoro.

Vale davvero la pena mollare tutto e tutti? Forse sì, per qualche giorno, ma probabilmente avrei avuto bisogno di spalle su cui piangere e persone con cui sfogarmi, piuttosto che l'apparente confortante solitudine.

Raggiungo, infine, una delle tante finestre senza vetri e allungo una mano per aggrapparmi al cornicione di legno rovinato dal quale le schegge spuntano numerose, ma non appena lo sfioro una forza soprannaturale mi respinge costringendomi a indietreggiare fino a cadere rovinosamente a terra, sollevando un alone di pulviscolo stantio.

La sua inquietante risata risuona ancora una volta nella mia mente e questa volta le lacrime iniziano ad appannarmi gli occhi.

Ho paura.

«È da tanto tempo che non mi divertivo in questo modo, da quando lui ha avuto la tua stessa brillante idea di curiosare dove non avrebbe dovuto» dice, elevando a sua volta un ammasso di pulviscolo e creando una scia che seguo con gli occhi intimoriti.

La lascia fluttuare su un'asse rialzata del pavimento, su un frammento di vetro, fino ad arrivare a un angolo della stanza che prima non ero stata interessata ad esplorare con lo sguardo e che avrei voluto non notare mai: ossa umane sono adagiate tra la polvere e diverse foglie secche, alcuni brandelli di pelle pendono ancora in alcuni punti e i vestiti che doveva aver indossato sono strappati e sporchi di terra ed erba.

«Rapii anche lui non appena lo vidi varcare la soglia di quell'albero e, come vedi, non uscì mai più da qui. Restò con me, che gentile» commenta, con una nota di folle malinconia nella voce.

Nonostante sia lontana dai resti del pover'uomo, indietreggio trascinandomi con le braccia e calciando a terra con le gambe, decisa a mettere quanta più distanza possibile tra me e lui.

Le lacrime, finora intrappolate tra le ciglia umide, cominciano a scendere copiosamente bagnandomi le guance tremanti.

«L'ho posseduto fino a che la sua carne ha iniziato a decomporsi troppo. Sai, diventava disgustoso anche per un'anima come me» continua, sempre più divertito.

Provo ad alzarmi di nuovo, ma i miei arti ancor meno rispondono alle mie disperate richieste di collaborazione e riesco a stento a raggiungere la porta chiusa prima che la stessa forza sovrannaturale di poco fa mi scaraventi all'indietro, con ancor più violenza di prima.

Mio malgrado atterro accanto alle ossa putrefatte e solo ora noto il sangue secco che impregna le assi di legno del pavimento sotto di esse.

Urlo.

«Purtroppo, però, da quel momento cominciai ad annoiarmi molto: infestare la casa e possedere dei meri oggetti non è altrettanto soddisfacente: con loro non posso correre» conclude, ancora una volta malinconico.

«P-permettimi di andar...mene» mormoro tra i singhiozzi, ormai troppo terrorizzata per muovermi ancora e desiderosa che tutto questo finisca.

«Non preoccuparti» sussurra, questa volta dandomi l'impressione di essere attorno a me.

Sono intrappolata in una gabbia di pulviscolo e disperazione.

Sussulto quando sento qualcosa sfiorarmi le guance umide. Serro gli occhi il più stretti possibile, decisa a dimenticare quello che sto vedendo, quello che sto vivendo.

«Presto sarà tutto finito, non mi piacete da vivi: vi lamentate troppo» continua, con un tono quasi premuroso.

Penso a mamma e a papà, che ho ignorato e ferito allontanandomi da loro, penso ai miei amici, pochi ma buoni, che hanno tentato più volte di tirarmi fuori dalla spirale di solitudine nella quale mi ero cacciata, invano.

Penso a quello che avrei dovuto fare, a quello che avrei dovuto dire, ai ricordi che non ho collezionato perché decisa a tenermi tutto dentro.

Penso al dolore che causerò per la mia sciocca presunzione di poter risolvere i miei problemi senza almeno un aiuto morale.

Penso alle vane ricerche che probabilmente verranno fatte per trovarmi, penso alla mia tomba senza corpo, alla mia urna senza ceneri.

«Mi dispiace» mormoro versando le ultime lacrime.

«Sto venendo a prenderti» dice; mi sembra di percepire un sorriso aleggiare nell'aria pesante.

Poi, ancora, un dolore mi colpisce alla nuca, secco. Lo sento, così come sento l'entità entrare nel mio corpo e prenderne possesso.

Riesco a resistere, questa volta, riesco a sentirlo perché prima che lo facesse sapevo che sarebbe entrato dentro di me, non mi ha trovata impreparata.

Infine, però, la pressione da sopportare diventa troppa; così mi lascio andare, stanca, addormentandomi per non svegliarmi mai più.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top