Macabra danza
Titolo: Macabra danza
Autore: mattpaskal
Elementi segreti: Passaggio segreto, Castello, Cittadina
Mancava un'ora al tramonto. Una soltanto.
Le fronde degli alberi ancora piene di foglie risplendevano dei colori dell'autunno, sotto la luce del tardo pomeriggio. Arancione, giallo e verde chiaro. I raggi solari filtravano fra i rami, mentre il disco infuocato si abbassava sull'orizzonte, sopra alle sagome scure dei monti. Era ottobre inoltrato, ma il freddo non era ancora arrivato sugli Appennini.
Era una giornata perfetta per un giretto nel bosco. Una giornata perfetta per due tiri con il frisbee in mezzo alle radure della macchia. Ovviamente, sempre che uno non si dimentichi di portare il suo amato giocattolino... pensò Filippo, amareggiato. Dato che si era scordato il frisbee, aveva dovuto ripiegare su ciò che aveva trovato in casa di Flavia; e dopo aver faticato a convincerla a prendere l'aggeggio, quel maledetto coso era volato proprio al di là del...
«Ti vuoi dare una mossa?» disse la ragazza.
Filippo sospirò. Non sapeva bene se arrabbiarsi o lasciar perdere. Dopotutto, stavano insieme da un anno, e dopo che si punzecchiavano in quella maniera, seguivano sempre delle serate interessanti, da un altro punto di vista...
Flavia, neanche a farlo apposta, sembrò leggergli il pensiero.
«Non guardarmi così. Levatelo dalla testa. Il fascino del mascalzone combinaguai dopo i diciotto anni non fa più effetto, sappilo» esclamò, puntando le mani sui fianchi.
Filippo non riuscì a trattenere una risata. «Flavi, li hai compiuti da una settimana!»
«Non cambiare discorso» continuò lei. «Hai perso il pari o dispari, sta a te toccare quel coso infernale» insisté, indicando il nastro giallo.
Un'ora, pensò Filippo. Un'ora soltanto. Che diamine, era più che sufficiente. Bastava solo recuperare l'aggeggio e tornare a casa prima che facesse buio. Una bazzecola, no?
Prima però, dovevano superare il nastro giallo che avevano davanti. Fece qualche passo, cercando di mostrarsi deciso.
Il sottobosco, formato da erba umida e sassolini, scricchiolava sotto le suole delle sue Vans. Il sentiero si allargava più avanti, sino quasi a diventare una strada, ma in quel punto era poco più di una pista di ghiaia costellata di chiazze di erba ingiallita.
La chiesina sconsacrata si ergeva al di là degli alberi, in mezzo ad una ampia radura erbosa, circondata da una recinzione con due mandate di nastro giallo.
Elettrico. Per i cinghiali. O almeno, così credeva. In fondo non aveva importanza. Probabilmente non era più in funzione da un pezzo, come non lo era la vecchia chiesina decrepita, no?
Bastava verificare che non ci fosse corrente, e poi avrebbero potuto scavalcare.
«Sbrighiamoci, fra poco farà buio» disse Flavia.
«Non sei per nulla d'aiuto» replicò Filippo.
Sospirò, si avvicinò al nastro, e tese la mano. All'ultimo momento esitò, con le dita a pochi centimetri dal filo. Si voltò, guardando Flavia. Lei, stavolta, gli sorrise dolcemente, incoraggiandolo.
Filippo si voltò di nuovo verso la recinzione, si fece coraggio, e toccò il filo.
«Aaargh!!»
«Aaaahh!»
Due urla consecutive fendettero il bosco, risonando per tutto il pendio del monte. Sospirando, il ragazzo ritrasse la mano spaventato, in iperventilazione.
Ci mise due secondi a realizzare cosa era successo.
Flavia stava ridendo di gusto. Gli aveva spinto il braccio da dietro proprio mentre lui toccava il filo, urlandogli allo stesso tempo nell'orecchio. E lui si era preso un'accidente.
«Ma sei impazzita? E se ci fosse stata la corrente?»
«Comunque non c'era, visto?»
«Ma se ci fosse stata?»
«E se la smettessi di farla tanto lunga?»
«E se la smettessi di darmi contro?»
Flavia lo guardò, intenerita, e gli schioccò un bacio sulle labbra. «Sei stato coraggioso, va bene? Ora però andiamo, che altrimenti si fa tardi».
Filippo, mentre l'adrenalina defluiva, pensò che dopotutto il peggio era passato. Ormai l'aveva già perdonato.
«Sai, il fatto che non ci sia più la corrente significa che anche i cinghiali possono entrare» scherzò, mostrandosi più spavaldo di quanto fosse in realtà.
«Mi sembra piuttosto improbabile» sentenziò Flavia.
«Guarda che è pieno, in queste macchie» disse Filippo.
«Ci penseremo se e quando succederà. Ora mi pare che abbiamo un altro problemino più urgente da risolvere.... non trovi, testadura?»
Filippo alzò gli occhi. Aveva già perso punti di nuovo. Quella là era un osso duro... Ogni volta toccava riconquistarla daccapo! Comunque, aveva ragione. Ora c'erano questioni più urgenti da risolvere.
Scavalcarono la recinzione senza indugio, e si addentrarono nella radura di erba alta dove sorgeva l'edificio abbandonato.
Forse il peggio non era affatto passato.
L'erba era altissima ovunque, e per di più molto umida. Le Vans di Filippo si bagnarono subito, mentre i due ragazzi si avvicinavano incuriositi, e un po' timorosi. Bisognava essere veramente idioti, per non aver almeno un po' paura.
La chiesa abbandonata aveva delle mura in pietra piuttosto alte, almeno cinque o sei metri, ed era circondata da fitta vegetazione. La porta principale era murata. Inoltre, un intrepido arbusto di rovi cresceva proprio davanti, rendendo di fatto impossibile anche solo pensare di entrare da lì. Sulla facciata frontale in alto, al centro del triangolo che formava il tetto, c'era una finestra dalle assi di legno spezzate, senza vetri.
Si avvicinarono di lato, aggirando il punto in cui l'erba era più alta. La fiancata laterale della chiesa era infestata dall'edera, e sulla sinistra partiva un altro edificio annesso, quello che probabilmente era la residenza del parroco. Il tetto era parzialmente crollato, e le piante avevano ricoperto tutto il pian terreno, lasciando libere solo le finestre del primo piano, le quali erano rigorosamente sbarrate dall'interno.
«Da quanto tempo non ci viene nessuno?», domandò Filippo. Flavia alzò le spalle, pensierosa. «Non ne ho idea... Ma direi almeno una trentina d'anni».
«Attenta, quella è l'erba dei sordi» replicò Filippo, trattenendo la ragazza per le spalle. Le indicò l'ortica che cresceva rigogliosa ai loro piedi.
Flavia sbuffò, e guardò la fiancata laterale della chiesa. L'unico accesso possibile era una finestra al pian terreno, proprio vicino all'angolo in cui la chiesa si univa all'altro edificio diroccato.
«Sei sicuro che sia finito oltre il tetto?»
«Sicurissimo.»
«Allora dobbiamo entrare e poi trovare il modo per uscire dall'altra parte.»
Filippo aggrottò la fronte. «È una autentica follia», dichiarò.
Flavia piantò le mani sui fianchi. «Mi stai dicendo che hai paura?»
«Giammai.»
«Allora andiamo.»
«Solo un attimo.»
Filippo si guardò intorno, prese un paio di grosse pietre da terra, e le lanciò sull'erba; una più vicino, l'altra più lontano. «Ecco il sentiero», disse, orgoglioso.
I ragazzi saltarono da una pietra all'altra, fino ad arrivare sotto la finestra.
Dentro era buio, e umido. L'aria che usciva era viziata. Filippo si issò a fatica sulla finestra, e saltò dentro. Flavia lo seguì a ruota.
Dopo qualche secondo, i loro occhi si abituarono alla penombra. La chiesa era molto più grande di quanto non sembrasse da fuori. Il soffitto era altissimo, con le travi di legno marcio trasversali che sorreggevano miracolosamente il tetto. Alla loro sinistra, laggiù in fondo, c'era la porta murata, e alla loro destra ciò che restava dell'altare: un cumulo di pietre squadrate. C'era pure un varco sulla parete, al livello del suolo, sull'altra fiancata laterale, dalla quale filtrava sia la luce del tramonto che la vegetazione incolta che abbondava fuori dalla chiesa.
Il pavimento era parzialmente crollato, ma i punti più bassi erano a mezzo metro di dislivello dagli altri. Fatta eccezione per un paio di buchi al centro, decisamente troppo circolari per essere causati da crolli naturali.
«Wooow...» sussurrò Flavia, con un tono che tradiva tutto tranne che entusiasmo. Filippo era ammutolito.
I due ragazzi mossero qualche cauto passo, incuriositi, verso i buchi circolari, prestando molta attenzione a dove mettevano i piedi. Arrivati proprio a ridosso del più vicino, guardarono dentro. Era buio pesto.
«Hai la luce?», chiese Filippo, sussurrando. Quel luogo metteva i brividi.
«Sì» rispose Flavia, tirando fuori la torcia tascabile.
Filippo l'accese, e la puntò dentro al buco tenebroso.
Entrambi ebbero un sussulto.
Era una cripta, piena zeppa di ossa.
«In... Incredibile» balbettò Filippo, a bocca aperta.
C'erano soprattutto femori, incrociati uno sopra all'altro, in un ammasso polveroso e inquietante. Flavia deglutì. «Niente di che... È un ossario. Erano comuni nelle chiese antiche... O almeno credo».
«Sì, ma perché ci sono soltanto femori? Io non vedo nessun teschio, o vertebre, o cose simili...»
Flavia si sporse un po', guardando meglio. «Non mi sorprende... Se non sbaglio, i femori sono fra le ultime ossa del corpo umano a decomporsi.»
«Sì, ma...» cominciò a dire Filippo, indietreggiando, e si bloccò di colpo.
«Non perdiamo altro tempo, sta facendo buio fuori e già qui non si vede niente» disse Flavia.
«Stavo per pestare questa» esclamò Filippo, a mezza voce.
Flavia seguì lo sguardo del ragazzo. Un escremento bello grosso giaceva sul bordo del buco. «È secca» sentenziò, liquidando la questione con un gesto della mano.
«Secca o no, qualcuno è stato qui» disse Filippo, preoccupato. La vista delle ossa lo aveva turbato.
«Non è umana» replicò Flavia.
«Magari è dei cinghiali. Magari sono entrati da quel buco là» ipotizzò Filippo, indicando il varco a livello del suolo.
«Non dire idiozie» sussurrò Flavia. «Piuttosto, cerchiamo il modo di andare dall'altra parte».
Allontanandosi dall'ossario, Filippo si guardò intorno. Le mura erano spoglie, l'intonaco sparito da un pezzo. In fondo, dietro le pietre che formavano l'altare, la parete era biancastra, ma c'era una parte più scura in ombra. Il pavimento era crollato, in quel punto, e c'era un asse di legno posto proprio a mo' di "ponte".
«Flavi, illumina laggiù» mormorò Filippo, indicando. Lei obbedì. Pareva ciò che restava di una porta. L'accesso verso la sagrestia, probabilmente, nella parte posteriore della chiesa.
«Diamo un'occhiata.»
Mentre si avvicinavano, Filippo recuperò un po' di buon'umore. Forse bastava uscire di là, per ritrovarsi dall'altra parte. Avrebbero trovato l'aggeggio, e sarebbero potuti tornare a casa.
«È un passaggio segreto», scherzò.
«Sì, certo... Siamo in un castello e dietro quella porta ci attende Azzurrina» disse la ragazza, sbuffando.
Quando vide il baratro oscuro, si pentì subito di ciò che aveva detto. Un brivido freddo percorse la sua spina dorsale.
Filippo fischiò piano.
«Dobbiamo proprio farlo?»
«Ma no, certo che no...»
«Ah, bene...»
«... A meno che tu non voglia uscire, fare tutto il giro e aprirti un varco fra i rovi», concluse Flavia.
Filippo sospirò, guardando il buio abisso che si apriva dinnanzi a loro. L'asse di legno era posta fra il pavimento e l'ingresso della sagrestia... Perché proprio in quel punto c'era una voragine della quale non si vedeva la fine, nemmeno illuminando con la torcia. O meglio, un paio di metri sotto si intravedeva qualcosa, un cumulo di macerie forse... O altre ossa? Chi poteva dirlo... Di sicuro, cadere laggiù non sarebbe stato affatto divertente. Proprio per niente.
«Flavi, c'è caso che il legno sia marcio...»
Lei alzò le spalle. Era spaventata, ma non voleva farlo vedere. «Non sono stata io a tirare così forte da far finire quel coso oltre il tetto... Mio fratello ci ucciderebbe, se fosse qui in questo momento.»
«Si supponeva che tornasse indietro, quel maledetto aggeggio» si difese Filippo.
«Si supponeva che rimanesse appeso sopra al camino, a casa, esattamente dove lui lo aveva lasciato.»
«Ti ho già chiesto scusa, mi pare... E poi anche tu eri d'accordo di prenderlo in prestito.»
Flavia gli batté la mano sulla schiena. «Solo perché hai insistito così tanto che non ne potevo più!» sbuffò, prima di continuare. «Dai, che vuoi che sia... due passi, e siamo di là.»
«Non ho intenzione di morire così giovane» mormorò deciso il ragazzo.
In quel momento un verso agghiacciante di un animale risuonò all'esterno dell'umida costruzione.
Filippo e Flavia si scambiarono uno sguardo terrorizzato.
«Va bene, forse andare di là non è poi così male...»
Il verso si ripeté pochi istanti dopo, una seconda ed una terza volta.
«Un cinghiale?» azzardò il ragazzo, sottovoce.
«Non credo... Dai, andiamo» rispose Flavia.
Filippo deglutì e saggiò con il piede l'asse. Sembrava stabile. Fece qualche passo, cercando di ignorare il cuore che batteva a mille e l'oscurità sotto di lui. Arrivato dall'altra parte, saltò sopra la pietra alla base della porta, reggendosi ai vecchi stipiti di pietra talmente forte da far diventare bianche le dita.
Flavia lo seguì. Era quasi arrivata, le mancava solo un passo... Quando il legno si spezzò proprio nel mezzo, incrinandosi.
«Aaaah!», urlò la ragazza.
Filippo fu svelto, e le prese le mani al volo. Mentre il legno cedeva, riuscì a tirarla su, issandola sulla pietra. C'era mancato un pelo. Il legno cadde completamente nella voragine, con un tonfo sordo seguito da un eco inquietante.
Filippo la cinse con un abbraccio. «Tutto bene?»
Lo sguardo di Flavia era vitreo.
«Ho visto qualcosa» affermò, ansimando.
«Cosa?» chiese Filippo, con il cuore in gola.
Lei non rispose. Lui guardò oltre le sue spalle.
E fu allora che lo vide anche lui.
Per un attimo, fugace come un sogno, effimero come la nebbia del fiume al crepuscolo... Ballerino e parzialmente trasparente, come la fiammella di una candela avvolta dall'oscurità... Ma non giallo, non caldo come il fuoco... Bensì bianco, freddo come il gelo, pallido come la falce della morte.
C'era uno scheletro, al centro della chiesa.
Eretto, in piedi sui femori traballanti, ondeggiava e fluttuava a mezz'aria.
E guardava proprio verso di loro.
Filippo tirò Flavia dentro la sagrestia, e si appoggiò alla parete alla destra della porta, immersa nel buio.
Ansimò piano, cercando di non farsi sentire. Guardò la ragazza, e mise l'indice davanti alla bocca, per intimarla a fare silenzio. Lei annuì, spaventata, fissandolo con gli occhi spalancati.
Filippo si sporse verso l'apertura della porta, cautamente.
Sbirciò verso il centro della chiesa.
Non c'era nulla.
«C... Cosa era?» bisbigliò Flavia.
«Niente... Mi era sembrato... Ma non c'è più» rispose Filippo, ritirandosi.
La sagrestia era ancora più buia della chiesa. Non si vedeva alcuna finestra, solo un'altra porta che conduceva all'edificio laterale. Una tenue luce veniva da là, dove evidentemente non tutte le finestre erano state oscurate.
Filippo cercò di respirare piano, e di rallentare i battiti forsennati del proprio cuore, che continuava a galoppare impazzito.
«Flavi...?» chiamò sottovoce. «Flavi dobbiamo... Flavia?»
La ragazza non era più al suo fianco. Inorridito, si guardò intorno senza vedere nulla. L'ansia crebbe a dismisura.
«Flavia?» continuò a chiamare, mormorando, rivolto alle tenebre. Nessuna risposta. Si accovacciò, e tastò a caso il freddo pavimento intorno a sé. Le sue mani si imbatterono in un oggetto.
Era la torcia. La afferrò, e l'accese, illuminando la sagrestia.
O meglio, ciò che aveva pensato che fosse la sagrestia.
In realtà, era l'anticamera di una sala enorme, dal soffitto altissimo, con le travi che continuavano a perdita d'occhio.
Ed il pavimento scendeva, sprofondando sempre più, fino a finire in una specie di caverna.
Di Flavia non c'era nessuna traccia.
Mosse qualche passo, incredulo, verso il centro dell'enorme sala, seguendo la discesa del terreno.
Pochi istanti dopo, dall'apertura che si era lasciato alle spalle, spuntò qualcosa.
Filippo si voltò, e impietrì improvvisamente.
Era lo scheletro. Agghiacciante, luminoso e vagamente trasparente, veniva verso di lui, circondato da un alone tenue e pallido, con le orbite vuote che puntavano proprio sulla sua direzione.
E ce n'erano ancora, dietro. Uno dopo l'altro, si muovevano lentamente, e sgorgavano dall'apertura come sangue da una ferita.
Filippo si sbloccò, non ci pensò sopra due volte.
Se la diede a gambe, come se avesse il diavolo alle calcagna.
Flavia si guardava intorno, al buio, senza riuscire a capire cosa caspita avesse intorno.
All'improvviso, si era voltata e non aveva visto più niente. Aveva camminato nella direzione in cui pensava che ci fosse Filippo, ma sembrava che tutto fosse svanito nel nulla.
Forse è tramontato il sole, pensò. Forse ci morirò, in questo posto. E tutto per un dannato giocattolo! Quando ritrovo Fili lo strozzo con le mie mani, giuro.
Il terreno era in discesa, e l'odore di muffa e umidità si faceva più forte ad ogni passo. Ma dove cavolo era finita, la torcia?
Tese le mani avanti a sé, sospirando. Aspettò che gli occhi si adeguassero alla penombra. Alla fine, le parve di vedere qualcosa, alla sua sinistra. Un tenue bagliore pallido, e dei rumori soffocati. Altri passi?
«Fili...?» provò a chiamare, ma ciò che uscì dalle sue labbra fu più simile ad un grugnito che ad altro. Si schiarì la voce.
«Filippo?» disse ancora. Niente, nessuna risposta.
All'improvviso sentì una goccia sulla spalla. Si asciugò distrattamente. Subito dopo, un'altra goccia le cadde sui capelli.
Guardò verso l'alto. C'era un varco, sul soffitto, dal quale filtrava debolmente la luce tenue del crepuscolo. Le assi erano spezzate a metà... E una figura si stagliava contro il cielo, leggermente meno scuro del resto, appollaiata sulle travi.
Flavia provò ad urlare, ma non uscì nulla. Fu completamente invasa dal panico.
Lo scheletro lucente inizio a scendere, come se si calasse da una corda... Solo che non c'erano corde. Fluttuava, minaccioso, scendendo a spirale verso il basso; con le vertebre scomposte, le mandibole spezzate, il sangue rosso scuro che colava dallo sterno... sempre più veloce, sempre più vicino.
Flavia si scosse, e cominciò a correre, senza curarsi di dove metteva i piedi.
Lo scheletro emise un verso sibilante, atterrò senza toccare il suolo, e cominciò a seguirla, mentre la pozza di sangue andava ingrandendosi dalle falangi sporche dei suoi piedi.
Flavia inciampò, e cominciò a rotolare sul terreno in discesa, graffiandosi le braccia e strappandosi i pantaloni.
Ruzzolò per alcuni metri, poi si fermò all'improvviso, finendo contro ad un muro. L'oscurità della parete di pietra era interrotta da una sagoma chiara...
Lo scheletro si avvicinava a grandi passi. Il sangue aveva già iniziato a bagnare le Converse di Flavia.
Alzò la testa a fatica. La sagoma chiara era una finestra... Una minuscola finestrella.
Flavia iniziò a tempestarla di pugni, ed il legno marcio dell'infisso cedette.
La ragazza si issò, in preda alla frenesia, e si gettò all'esterno, saltando giù senza neanche guardare l'altezza...
E finendo proprio in mezzo ad un mare di ortica.
Mentre correva con il cuore in gola, la luce della torcia di Filippo disegnava onde impazzite sulle pareti di pietra dell'enorme sala. Non c'era nient'altro che fango, polvere e sassi sgretolati, e...
Un guizzo di luce più chiaro. Un varco, un'apertura.
Gli scheletri fantasma si moltiplicavano alle sue spalle, fluttuando a pochi passi da lui. Brandelli di pelle morta penzolavano dagli arti scomposti, ed i teschi inespressivi erano spezzati in più punti, piegati nell'ingrato ghigno della morte.
Filippo si diresse verso ciò che pensava fosse un'apertura sulla parete. Era solo una misera finestra, ed era tutta sporca di una sostanza vischiosa.
Ci mise pochissimo a capire cosa fosse.
Sangue. Scuro, fresco...
Il cuore gli saltò un battito, poi riprese più forte di prima.
Lo scheletro più vicino lo raggiunse, ed improvvisamente la forma ectoplasmatica delle sua ossa divenne fin troppo consistente. Mani scheletriche lo afferrarono, e lo tirarono giù dalla finestra.
Fredde, umide e viscide. Mani dall'oltretomba, tornate per una notte sulla Terra dei viventi, per punirlo di essere stato così stolto da turbare il sonno dei morti, per giunta mal seppelliti, dentro l'ossario...
Filippo pensò tutto questo, in un istante, e pensò pure che era davvero troppo giovane per morire...
Almeno, non senza sentire di nuovo la fresca brezza della sera d'ottobre sul viso, un'ultima volta, prima di lasciare questa Terra.
Con la forza della disperazone diede un calcio allo scheletro, si liberò e si issò sulla finestra.
Non sapeva quanto era alto il salto all'esterno, e non gli interessava.
Gli scheletri lo fissavano, con le orbite vuote fluorescenti ora più che mai, le mani rattrappite, coperte di sangue, lo stesso sangue di cui era coperto il davanzale decrepito della finestra...
In preda al panico, Filippo piegò le ginocchia, e si gettò fuori, nel vuoto, nel buio.
Finendo su un mare di ortiche.
Qualcuno lo aiutò a tirarsi fuori. Gli bruciava il viso, gli bruciavano le braccia, gli bruciava tutto.
Si alzò, si guardò intorno. Flavia era davanti a lui.
«Flavia, eccoti... Non ti ho più vista!» esclamò, abbracciandola.
Ma lei lo tirò via, dandogli uno strattone.
«Leviamo le tende, dà retta!» urlò, trascinandolo via di peso.
Erano nella radura, dietro alla chiesa, ed il sole era già sparito oltre i monti. Il cielo era nero, gonfio di nuvole che promettevano pioggia da un momento all'altro.
Il vento fischiava fra gli alberi, non lontano, ma per arrivarci c'era da attraversare il groviglio di rovi più grande che si fosse mai visto.
L'unica altra via percorribile costeggiava il muro esterno della chiesa, invaso dalle ortiche.
Flavia guardò Filippo. Esitarono giusto qualche secondo.
Il tempo di vedere gli scheletri apparire poco a poco dal muro, materializzandosi alle loro spalle in un tripudio di luce e melma sanguinolenta.
Filippo si gettò nell'ortica, prendendo Flavia per mano. Scapparono lungo il muro, inciampando e rialzandosi, aggirando i rovi e giungendo al limite del bosco.
Gli scheletri li seguivano volando sopra le piante, illuminando l'aria attorno a loro.
Filippo cadde e rotolò sull'erba, seguito da Flavia, in un groviglio di corpi e imprecazioni.
Su cosa diamine era inciampato?
Poi sentì di nuovo quel verso.
Un verso di un animale impavido, selvaggio, agguerrito e indomabile.
Il sangue gli si ghiacciò nelle vene.
Davanti a lui c'era un cinghiale enorme.
Le zanne lunghissime, affilate, il pelo setoloso, le zampe possenti, pronte a saltare.
Il flagello dei fossi, il terrore della macchia.
Flavia era in ginocchio, pietrificata. Filippo, in uno slancio di coraggio, si portò davanti a lei, riparandola con il suo corpo.
Il cinghiale esitò. Poi scoprì le zanne, e partì alla carica.
Filippo trattenne il respiro. Ci siamo... Pensò, in preda al panico.
Ma il cinghiale non puntò verso di lui... Bensì contro gli scheletri.
Caricò i fantasmi luminescenti a tutta velocità, incurante dei rovi, dell'ortica e di ogni ostacolo sul suo cammino.
Gli scheletri si bloccarono, dissolvendosi proprio un istante prima di venir travolti.
L'animale continuò la sua corsa aprendosi un varco dentro i rovi, e sparì dall'altra parte del bosco, fino a che il suo grugnito non si perse in lontananza.
Il cuore di Filippo era come un tamburo, non la smetteva più di battere forsennato.
Flavia si alzò, e gli sorrise.
«Stai bene?»
«Sì...»
«Guarda cosa ho trovato» disse la ragazza, aiutandolo ad alzarsi. Gli porse il palmo della mano. Filippo abbassò lo sguardo.
Il boomerang era proprio lì. Era la cosa su cui erano inciampati. Filippo lanciò un'imprecazione.
«Maledetto aggeggio! Tutta colpa sua!» esclamò, sfogandosi.
L'aveva tirato con molta forza, pensando che tornasse indietro. Dopotutto era un maledetto boomerang, no? Invece quello se ne era andato dritto come una freccia, senza sognarsi minimamente di deviare la traiettoria, né tanto meno di tornarsene da dove era venuto.
Flavia lo abbracciò.
«Andiamo a casa, va bene?»
«Sì, andiamo...»
Mano nella mano, si incamminarono nel bosco, ritrovando il sentiero che li avrebbe condotti fino alla strada che portava alla vicina cittadina.
Tommaso era furioso. Sua madre insisteva a giustificare quella scellerata di sua sorella ed il suo ragazzo idiota.
«Era un ricordo dell'Australia!»
«Calmati, Tommi.»
«Australia, capito? Non è mica dietro all'angolo!»
La donna sbuffò e alzò le spalle. «Ora stai esagerando. È solo un cavolo di boomerang, si trova in tutti i negozi di giocattoli.»
Tommaso batté il pugno destro sul palmo della mano sinistra. «È proprio questo il punto. Non è un gioco! I boomerang che tornano indietro sono giocattoli. Quello era un boomerang da caccia, è completamente diverso!»
Sua madre allargò le braccia. Ma Tommi era ormai lanciato, e continuò imperterrito. «I boomerang da caccia vanno dritti, servono per uccidere la selvaggina! Me l'ha regalato uno stregone aborigeno, è unico, ha un valore inestimabile...»
«Non dire fesserie» tagliò corto la madre. «Ce ne sono a bizzeffe, di aggeggi del genere.»
«No, quello era speciale. L'aborigeno ha detto che...»
«Senti, quando tornano vedetela fra voi. Filippo si era scordato il frisbee, e l'ha preso in prestito per giocare nel bosco. Questo è quanto, fattene una ragione.»
Tommaso sospirò. In fondo, pensò, poco male. Cosa mai poteva succedere? Di sicuro, nulla di mortale...
Almeno, quei due avrebbero potuto difendersi dai cinghiali.
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