A valle

-Mai visto un temporale così. Quindici anni di servizio e mai capitato nulla di simile- Robert scuoteva la testa vigorosamente guardando fuori dal finestrino. Lanciò un'occhiata al ragazzino nella sua uniforme nuova: stava stritolando il volante. La radio trillò. Robert prese la cornetta e segnalò la ricezione del messaggio. La radio gracchio tra gli strepiti. – Tutte le volanti devono rientrare alla base per ordine del comando generale- aggiunse. Robert aggrottò la fronte. –Possiamo essere più utili qui fuori- rispose.

-È un ordine non un invito, volante 15- aggiunse brevemente la voce via radio. Il comando generale? Cosa sapevano che non gli dicevano? -Javier fai inversione- sospirò Robert.

-Certo signore- scattò il ragazzo. Robert indicò il parcheggio di un supermercato il ragazzo vi si infilò e puntò direttamente verso l'uscita. Poi inchiodò davanti ad una fila di macchine. Robert imprecò.

–Metti la sirena- ordinò.

–Ma signore?- protestò il ragazzo. Stringeva le mani pallide contro il volante. Robert la attivò al posto suo.

–Passa tra quelle due macchine- disse indicando due veicoli che si erano spostati.

– Vai verso Nord- indicò prima che svoltassero in una strada lungo il senso opposto di marcia.

-Ma la centrale è a sud, signore- rispose Javier.

-So dov'è la centrale, sono quindici anni che ci vado ogni giorno- rispose piccato Robert. Poi prese la radio.

-Segnalo incolonnamenti lungo tutta la viabilità ordinaria verso il centro- aggiunse ma nessuno rispose.

–Centrale qui volante 15... Centrale?- insistette Robert.

–Ferma la macchina- gridò Robert. Javier inchiodò. Scesero dalla volante. La fila di auto ferme si perdeva a vista d'occhio.

-Non mi piace che questa gente stia in auto- aggiunse Robert. -Digli di scendere li portiamo nel supermercato. Quanti più ne possiamo- suggerì iniziando a ripercorrere la fila di auto verso il supermercato.

-Signora deve scendere, non possiamo stare qui- bussò al finestrino di una signora con due figli piccoli che piangevano.

–Ma i bambini- protestò lei.

–Le diamo una mano, venga, tutti dentro al supermercato, passatevi la voce, tutti fuori dalle auto ora! - urlò Robert bagnato fradicio. Javier bussava ai finestrini e le persone scendevano allarmate, qualcuno protestava, ma la maggior parte era abbastanza terrorizzata dall'idea di rimanere lì. Javier prese in braccio uno dei bambini della signora e corsero verso il supermercato. Molte persone li seguivano. Robert si attardò dietro di loro per avvertire i più distratti. Poi un fulmine si avventò contro un palo della luce poco dietro di lui, si riparò con la mano e scappò. Il palo sventrò una macchina a poca distanza, controllò che fosse vuota, poi aiutò una signora anziana a salire sul marciapiede di fianco alla strada. Il fiume di persone sciamava lentamente verso il supermercato. Javier aveva fatto aprire le porte.

–Forza, un ultimo sforzo, signora- la invitò a procedere più velocemente. Vide Javier fermo sulla porta, gli occhi neri sbarrati dal terrore, i capelli scuri fradici di pioggia. Allora si voltò e vide anche lui quella barriera. Una parete di fulmini di colori che non aveva mai visto in vita sua , procedevano facendo esplodere condotti e falciando pali della luce.

–Correte- affrettò il passo verso il supermercato. Fecero entrare le ultime persone, poi urlò: -chiudete tutto! - La barriera attraversava il parcheggio. Si accorse solo allora di trovarsi nello stesso supermercato che era stato rapinato il giorno prima. Gli sembrava quasi impossibile da credere.

–State giù, tutti a terra!- urlò nel caos delle scariche elettriche. Trascinò Javier dietro una cassa. La ragazza di turno era seduta a terra tremante e pallida, li guardava come se potesse avere da loro una rassicurazione qualsiasi.

–Andrà tutto bene- mentì Robert. Eppure lui non aveva la più pallida di cosa fosse quell'onda. Rachel l'avrebbe saputo. Rachel... era alla stazione radio! Trattenne il respiro e poi il vetro esplose; molti gridarono. Fece per urlare- state giù!-. Poi il cuore gli esplose nel petto e franò a terra. Vide indistintamente i lampadari esplodere e una pioggia di scintille cadere sopra di loro. Non aveva potuto fare nulla per quelle persone. Poi la nebbia si inspessì davanti ai suoi occhi e non fu più capace di vedere oltre.

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Jerome era solo. Seduto sul divano, con le pantofole ai piedi e un panno sulle ginocchia. Come un vecchio. Quando aveva visto quella tempesta quel mattino si era sentito quasi sollevato. Non era costretto ad uscire e a fingere che andasse tutto bene. Guardò torvo quella cartellina, abbandonata sul tavolo. Le bottiglie di birra giacevano a terra sparse dalla sera prima. Quale scopo ha un uomo , che ha perso tutto? Nessuno. E lui aveva perso tutto. Nessuno l'avrebbe cercato al lavoro, era già da un mese ormai che aveva lasciato la sua cattedra. Se firmava quelle carte la sua vita finiva. Aveva terminato la sua corsa per sempre.

–Tu morirai solo- le parole di Federica viaggiavano nella sua testa. Aveva ragione, aveva tutte le ragioni del mondo, solo che lui le aveva capite troppo tardi. Sospirò guardando i nuvoloni che scendevano dalla montagna verso la valle. Doveva affrettarsi a chiudere le finestre. La televisione il cui audio era stato spento la sera prima dava ormai solo avvisi meteo: nessuno parlava d'altro che di quella tempesta in Europa quel giorno. Si stava allargando a macchia d'olio. Dicevano che ormai lambiva il mediterraneo. Non gli interessava granché.

Aveva scorte necessarie per un esercito e nessuno con cui condividerle. Aveva smesso di avere paura. Non gli importava più di nulla. Per un attimo la sua mente gli pose un quesito senza risposta: perché non aveva detto la verità a Federica? Ci aveva davvero provato? Perché aveva aspettato quei lunghi noiosi ed interminabili due mesi? Sperava davvero che lei stessa si facesse viva? Sperava davvero che cambiasse qualcosa? Il telefono squillò all'improvviso. Si ridestò e maldestramente arrancò fino a prenderlo. Sentiva l'alcool ancora in circolo e un forte dolore al cranio che si propagava ad ondate.

-Hallo?- chiese alla cornetta.

–Papà, papà dove sei? – al telefono c'era la voce tremante di sua figlia.

-Cristiana , per fortuna, state bene? Io sto bene sono in casa nostra, ho chiuso tutto sta tranquilla- rispose Jerome.

-Papà, no, papà, non basta chiudere le finestre, noi siamo tutti nella cantine, al riparo, devi andare in un posto sottoterra, hanno avvistato dei tornado!- urlò sua figlia al telefono.

-Bambina mia , dei tornando in Europa non è possibile!- sbottò Jerome, chiedendosi se l'alcool non gli faceva sentire qualcosa di diverso.

-Io e i bambini siamo al sicuro, ho sentito anche Marco prima, loro sono in una palestra, ha le mura di cemento armato, la stanno sigillando. Poi il cellulare è caduto...- aggiunse sotto pressione sua figlia.

Jerome alzò il volume della tv e rimase a bocca aperta a vedere un tornado a poco meno di un isolato dal parlamento europeo di Bruxelles. –State al sicuro, non ti preoccupare per me, io sto bene, troverò un riparo, alla tv dicono che il grosso qui deve ancora passare. Faccio in tempo- le confermò Jerome.

-Papà, posso farti una domanda?- aggiunse incerta Cristiana.

-Certo, piccola- aggiunse Jerome.

- Hai sentito la mamma in questi giorni?- disse allora lei preoccupata.

-L'ho incrociata ieri. E' qui a Ginevra per un progetto, non ne so molto, perché?- chiese cercando di mantenere un tono piatto.

-L'ho chiamata quattro volte al telefono oggi e non rispondeva, era al CERN? Al CERN isolano i telefoni?- chiese lei.

–Solo in alcuni zone, ma so da chi è andata, cerco il numero dell'interno e poi te lo passo, resta in linea- iniziò a scartabellare tra i registri dell'università vicino al telefono. Non riordinava quelle carte da un bel po' di tempo. Dove l'aveva messo?

–Ci sono quasi. Cristiana? Cristiana? Cristiana!- urlò ancora nel telefono ma a parte le scariche non sentiva nulla. Forse il telefono di sua figlia non aveva più campo. Prese quelle carte e le sparpagliò sul tavolo iniziò a dividerle per tipo, come un archivista agli esordi. Come se fosse il suo primo giorno di lavoro. Rimase stupito quando mezz'ora più tardi con l'acqua che grondava sempre più assordante alle finestre si ritrovò con quel bigliettino in mano: Rachel Schneider. Sospirò incerto sul da farsi. Guardò la cartellina con i documenti del divorzio, guardò il bigliettino. Sapeva bene di doverlo fare, ma cosa gli avrebbe detto se gli avessero passato Federica. La verità? No, solo che i suoi figli stavano bene, che erano al sicuro e anche i loro splendidi tre nipotini. Lanciò un'occhiata alla foto ribaltata sul comodino. La rimise dritta. Aveva il diritto di saperlo.

Quello che non era funzionato tra loro, non doveva condizionare la vita dei loro figli. Per questo non se ne era andato di casa prima che lo facessero loro. Anche se non riconosceva più sua moglie al mattino, anche se non ritrovava più nulla di quella intelligente e bella ragazza che l'aveva contraddetto ad un convegno troppi anni prima. Respirò a fondo e riprese in mano il cordless. Compose il numero, squillò a vuoto, una volta, due volte, tre volte. Al decimo squillo riagganciò. Guardò fuori dalla finestra e un pensiero passò nella sua mente come una coltellata: dove erano andati con quel tempo? Forse erano solo andati in un riparo, il CERN aveva diversi bunker. Trovò l'elenco dei numeri dei custodi dei vari bunker.

– Salve sono Jerome Montreux, mi chiedevo se fosse da voi la signorina Rachel Snider- chiese articolando a fatica le parole.

–No, mi spiace signor Montreux, ma se la vedo le dico che l'ha cercata- aggiunse una signorina cordiale ma spaventata. - Ora dovrebbe lasciare libera la linea per le emergenze, mi scusi- chiuse.

-Aspetti, avete altri bunker?- la implorò lui.

-Potrebbe provare a questo numero- aggiunse dettandoglielo velocemente. A Jerome scappò di mano carta e penna e si impose di ricordarsi gli ultimi tre numeri a memoria, poi riagganciò. Raccolse la penna , raccolse il foglio e terminò di scrivere il numero. Il telefono squillò numerose volte poi quando stava per mettere giù un uomo rispose al telefono.

– Mi scusi, stiamo per chiudere il centralino, devo chiederle di riagganciare gentilmente-disse soltanto l'uomo.

-Capisco, capisco, solo un momento, potrebbe solo dirmi se la Signorina Rachel Snider aveva prenotazioni per oggi... tipo... una sala? La prego, la sto cercando, è molto urgente, dopo la lascio andare- lo pregò Jerome.

-Nessuna sala prenotata, mi dispiace- disse velocemente l'uomo. Doveva avere lo schema davanti agli occhi.

-Può guardare se aveva lasciato qualche appunto?- insistette Jerome.

-Niente di che. Ah ecco c'è solo la prenotazione di un veicolo elettrico -disse cercando in tutto il sistema.

-E' indicata la destinazione?- aggiunse con le mani che gli tremavano. Il solo pensiero che Federica fosse all'aperto da qualche parte con quella tempesta lo terrorizzava.

-Si, certo, come d'obbligo. E' la stazione radio. Forse sono già tornati...- aggiunse l'uomo anche se non vi credeva profondamente.

Jerome aveva paura di fare quell'ultima domanda. -Il mezzo è stato restituito?-

-Non ancora, signore, ma forse con la tempesta si sono rifugiati da qualche parte, ora devo scappare, mi spiace – aggiunse chiudendo la cornetta senza troppe cerimonie. Jerome rimasi lì con la comunicazione aperta. Ripose lentamente il telefono. Salì al piano di sopra un gradino alla volta. Parlava da solo. Fingeva di parlare con Federica, forse.

-Con tutti i posti che c'erano? Con tutti i laboratori , i macchinari, le tecnologie da milioni di dollari che ci sono al CERN tu sei venuta apposta per andartene in una stazione radio, su di un monte, il giorno del temporale più forte degli ultimi cento anni?- urlò arrestandosi e prendendo fiato. Entrò in quella che era stata la camera di Marco. Forse fingere che lei fosse lì, fingere di non essere solo, era per lui più sopportabile. I tuoni si accavallavano ai lampi. Vedeva i riflessi tra le persiane chiuse, le riaprì. Voleva vedere, voleva vedere quella montagna e quella maledetta stazione radio. La aprì un centimetro alla volta, quasi al rallentatore. Poi si sedette sul letto, lentamente.

–Con tutto quello che io ti ho fatto, io ti giuro che questa è davvero la cosa più, più ignobile che tu potessi farmi!- urlò sovrastando i tuoni. –Non ti bastava avermi mandato le carte del divorzio per posta ordinaria? Nemmeno un francobollo in più volevi spendere? Non ti interessava nemmeno se io le ricevevo o meno? – franò sul letto con le lacrime che gli colavano lungo le guance. Si sdraiò e rimase a guardare il soffitto. –Nemmeno una telefonata, nemmeno- sussurrò.

-Hai ragione, come sempre, io morirò solo ed è colpa tua. Perché alla fine sei stata tu a buttare quello che avevamo! Tu e il tuo lavoro. Oh si, pensi che non lo sappia! Pensi di essere l'unica ad essere stata tradita? No! - urlò poi la sua voce si spense.

- Prima di Carole, prima di Jennifer, prima di Sandra, sei stata tu, con lui, con il tuo lavoro, gli hai venduto l'anima! E per me non c'eri mai, mai! Al massimo ritagliavi due ore per loro, per i nostri figli, ed io? – aggiunse.

-Io che come uno scemo ho cercato di dimenticarti per vent'anni senza riuscirci. Io che sono stato lasciato, ancora e sempre per lo stesso motivo, ma tu già lo sai, vero?- aggiunse prendendo una foto dal comodino del figlio. Stimò che Marco aveva circa 3 anni. Ricordava bene il giorno in cui lui l'aveva scattata: erano sulle rive del lago di Garda, dopo una domenica passata dai genitori di Federica. Federica era seduta sull'erba di fianco a Marco, senza scarpe, la veste tirata sull'addome. Sentì la grandine che impattava i vetri della finestra, ma la ignorò. Continuava a guardare quella foto. Federica era già incinta di Cristiana. Bei tempi! Erano stati davvero così felici.

–Tu lo hai sempre saputo- sussurrò. Un rumore elettrico forte e acre allo stesso tempo lo fece riavvicinare alla finestra, aveva ancora la foto in mano. Rimase a bocca aperta. Stava guardando una barriera, un muro di elettricità statica che scaricava verso il suolo. Non era il suo campo eppure ne era affascinato. Non poté che avvicinarsi di più alla finestra. L'immagine ancora tra le mani. Vide quell'onda avvicinarsi, le antenne delle case saltare, i condotti che esplodevano, i pali della luce che sfrigolavano. Quanto doveva essere potente? Si attaccò all'intelaiatura spoglia della finestra. La grandine grossa come palle da tennis aveva distrutto il vetro. Si portò la foto al cuore. E guardò quell'onda attraversare la strada. Chiuse gli occhi e finse di essere là, sull'erba , in quella giornata assolata a scattare una foto che non avrebbe mai potuto scattare. Federica aveva torto: lui non sarebbe morto solo. Non era solo su quel prato. Così sorrise e si accasciò a terra.

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