VOGLIA-DI-FRAGOLA
MOMENTO ZERO
"So cosa hai fatto" dice la voce nella sua testa. "E un giorno lo sapranno tutti."
Ogni volta che un'auto della polizia passa sotto la sua finestra, si accende una sigaretta. Ha iniziato a fumare da poco, ma è un gesto che ha già assunto i caratteri del rito. Dice Servio Mario Onorato nel suo commento al terzo libro dell'Eneide: "... né è lecito che si svolgano sacrifici pubblici o privati senza il fuoco", e dicono gli alchimisti che l'etimologia della parola purificazione derivi dal greco pyr, che significa per l'appunto fuoco: fin dai tempi antichi, nell'uomo sopravvive l'idea che per rinascere e trasmutare sia prima necessario bruciare.
Forse se lo ripetesse con sufficiente intensità, se accendesse abbastanza sigarette in onore degli dèi, un giorno il cambiamento avverrà sul serio.
Qualcuno direbbe che fumando ci si rovini i polmoni, o che dia quell'aria da poeti punk che si arrovellano su quesiti socio-esistenziali, ma sono tutte questioni che si infrangono contro la sua persona come gocce di pioggia sulla tela cerata di un ombrello.
Ogni volta che un'auto della polizia passa sotto la sua finestra spera che si fermi, che gli agenti suonino alla porta e che l'angoscioso lungometraggio che è la sua vita si concluda. È tanto tempo che fugge, ma nessuno ha il coraggio di porre la parola "fine" a quella strana storia. Se l'è cavata troppo bene, lo sa: la fortuna aiuta gli audaci.
Ci sono giorni più duri di altri in cui si convince di avere un cuore fatto di latta, ammaccato come se avesse sbattuto contro lo spigolo di qualcosa. Si tranquillizza, però, all'idea che rimarrà freddo per sempre.
Non deve scaldarsi di nuovo. Certo, potrebbe, ma se dovesse accadere si conosce abbastanza bene da essere consapevole che non sarebbe in grado di controllarlo. Diventerebbe incandescente, farebbe male e, cosa ancora più importante, farebbe male ad altri.
Una volante accende la sirena e passa sotto i suoi occhi, diversi piani più giù. Poi tira dritto. Lo fa sempre.
La verità è che il mondo non saprà mai cos'ha fatto: lui e lei non erano abbastanza utili o importanti per la prima pagina. Quella la daranno al campo profughi che ha preso fuoco nella notte, sotto una pioggia di molotov e stelle cadenti, alla guerra tra poveri che si consuma nelle periferie o ai tweet dei ministri.
Ma forse è meglio partire dal principio, quando tutto sembrava un gioco oscuro tra demoni e ninfe.
*
Fosca provò a sorridere, ma il risultato fu deludente.
Il riflesso le restituì una mescolanza di linee d'avanguardia: incisivi lievemente accavallati, una scompaginata zazzera di riccioli scuri e le sopracciglia spettinate. Infine, impossibile da ignorare, l'elefante nella stanza: la chiazza color lampone sotto l'occhio destro, simile a un'Australia rovesciata.
La sua vista le provocò una fitta di angoscia, che scaricò nella presa serrata contro i bordi del lavabo.
Fosca sorrise di nuovo, e quella volta andò meglio.
Rinsaldò la tracolla contro la spalla e accomodò il collo morbido del maglione.
Una pioggia di invettive la raggiunse dal salotto e, attraverso lo specchio, intercettò quello stuzzicadenti tutto tatuaggi e piercing della sua coinquilina. Barcollando negli anfibi, incespicò nella bottiglia di Fernet Branca e la scagliò via con un calcio. Poi le abbaiò contro: «Ancora qui, fiorellino di campo? Possibile che tu debba aprire tutti i chakra ogni volta che devi andare in università? Sei in ritardo e non hai neanche iniziato a sistemarti».
«Non ho intenzione di farlo.» Fosca piantò le mani sui fianchi e la guardò, sollevando il mento. «Non oggi, Cora. Posso farcela.»
«È tutto molto bello. Dobbiamo parlarne proprio ora?»
«Sei antipatica.»
«E tu sei una stordita. Muoviti!» Cora la acchiappò per il polso, afferrò il chiodo rovinato con l'altra mano e la trascinò fuori dall'appartamento. «Dovrei arrivare in tempo solo nel caso in cui riuscissimo a prendere l'autobus, altrimenti ci toccherà correre. Se il Mei fa l'appello e non mi segna la presenza in laboratorio posso dire addio ai dodici crediti più sudati di tutta la mia vita.»
«Esagerata.»
«È tutta colpa tua!» sbraitò, capitombolando giù per le scale.
Con un discreto colpo di fortuna, riuscirono a infilarsi nel mezzo poco prima che le porte si chiudessero. L'autobus ripartì con un sobbalzo che le fece incespicare entrambe addosso a una signora appollaiata sul sedile riservato agli anziani, e che si vendicò scostando Fosca con un colpo di stampella.
Una volta che furono scese di fronte ai cancelli della città universitaria si mescolarono alla fiumana di studenti che gremiva attraverso le vie. Gli alberi stavano cominciando a spogliarsi all'ombra degli atenei disseminati per il campus, una disordinata mescolanza di architettura fascista, uffici e musei.
«Allora a dopo.»
«Cora!»
«Che c'è?»
«Buona giornata.»
La sua amica svanì tra la folla senza salutare e Fosca rimase lì, a osservare la toppa dei Rancid incollata alla schiena che si allontanava.
Attese un lungo momento prima di accomodare la tracolla che le era scivolata nell'incavo del gomito e avviarsi verso la facoltà di Lettere. In cima alle scale, uno striscione di stoffa recitava a caratteri cubitali in vernice rossa: "Aula uno occupata". Il gruppetto di ragazze assiepate sulle scale di marmo scambiava qualche chiacchiera, commentando le dispense di Storia Romana.
«Scusa?»
Fosca si fermò con un piede sul gradino.
«Hai da accendere?»
Quando si voltò, incrociò lo sguardo con una ragazza un po' in carne, i capelli freschi di tinta bionda e il rossetto color borgogna, che la fissava con una sigaretta tra le dita.
Fosca arrossì. «Mi spiace, non fumo.»
«Ah, nessun problema.»
Ma Fosca si era già lanciata verso l'ingresso, una porta a vetri dall'ossatura in legno. Alle sue spalle, solo l'eco di un "poverina, l'avete vista?" che le si stampò a fuoco sulla pelle. Tirò il cappuccio dell'antivento sui capelli e chinò la testa, avanzando tra le risate degli studenti che volavano per i corridoi dalle pareti in crema. I loro discorsi le piombarono addosso, mentre il pensiero che tutti la stessero guardando le rodeva il cervello come un tarlo.
«Ehi, fa' attenzione!»
Fosca andò a sbattere contro qualcosa di duro che la fece barcollare all'indietro. «Mi disp-piace» soffiò, la balbuzie che le fece saltare le parole sulla lingua.
«Idiota, guarda dove... Donati?»
Lei sollevò il capo, scontrandosi con un paio di iridi verde giada. Una coppia di clavicole sbucava dallo scollo a V di una maglietta candida, il North Face aperto sul petto. «Damiano?» Le guance di Fosca presero fuoco nel momento in cui si accorse di averlo chiamato per nome. Damiano Quintili, facoltà di Ingegneria gestionale, la guardava nel modo in cui avrebbe potuto guardare una gomma da masticare che gli si fosse incollata sotto la suola della scarpa. «Che... che ci fai qui?»
Damiano si passò le dita tra i capelli, arcuando le labbra in una smorfia arrogante che le fece contorcere lo stomaco. «Aspetto Stella.»
Lo sguardo di Fosca perlustrò per un lungo momento l'androne. Qualche anno fa dicevano che lui l'avrebbe sposata, altri che probabilmente lei lo avrebbe ucciso dopo l'ennesima conversazione privata con qualche influencer con più seguito. Non poté fare a meno di chiedersi se le cose fossero cambiate.
Damiano sfilò il cellulare dalla tasca. «E così, Lettere. Leggevi sempre in classe.»
Fosca incastonò un ricciolo dietro l'orecchio. «E t-tu Ingegneria.»
Il sopracciglio di Damiano si alzò. «Sei informata.»
Le orecchie di lei si scaldarono. «Io... devo averlo letto da qualche p-parte.»
Il pollice di Damiano si mosse rapido sullo schermo dello smartphone. Una parte di Fosca fu sollevata del fatto che la stesse deliberatamente ignorando. «Senti, adesso devo proprio...»
«Con chi parli, amore?»
Due braccia sottili scivolarono attorno al collo del ragazzo in un tintinnio di ciondoli scintillanti, sprigionando un effluvio di profumo. Oltre le spalle di Damiano fece capolino un viso diafano incorniciato da una massa di capelli chiari. Le labbra di Stella, simili a un bocciolo primaverile, sfiorarono la pelle del fidanzato. Quando posò lo sguardo su di lei, a Fosca mancò il fiato.
«Oh, sei tu.» Stella sorrise, ma il resto della sua faccia rimase immobile. Occhi blu come le profondità marine si spostarono su un punto del suo volto, appena sotto l'occhio destro, e vi rimasero per un momento sufficientemente lungo da farla sentire a disagio. Poi prese sottobraccio il ragazzo e lo tirò via. «Ci vediamo.»
Ancora intontita, Fosca lì seguì con lo sguardo mentre si allontanavano in direzione dell'uscita, lei aggrappata a lui, lui che aveva a malapena scostato gli occhi dal cellulare.
«Dio, quella mostruosità sulla faccia è peggiorata, vero?»
Si sfiorò lo zigomo con la sensazione che la pelle si fosse fatta gelida. Non riuscì a muoversi, né a staccarsi dalle porte e dalla luce che li aveva ingoiati. Come se lo scoppio di un petardo l'avesse risvegliata dal torpore, sfilò il telefono dalla tasca e sbloccò lo schermo. Quasi le dieci. Il professore avrebbe iniziato la spiegazione a breve e sarebbe stato meglio affrettarsi se voleva trovare posto in aula. Le lezioni di Filologia Latina erano stranamente frequentate data la popolarità del nuovo docente. Si diceva che fosse uno dei maggiori ricercatori di Oxford e che avrebbe tenuto la cattedra solo per quell'anno, con l'occasione di diffondere le sue ricerche tra gli studenti della prima facoltà al mondo in Lettere Classiche.
Nemmeno quella prospettiva riuscì a entusiasmarla. Fosca corse su per le scale e andò verso i bagni, aspettò che una coppia di matricole finisse di spettegolare a proposito dell'ultima festa al Pigneto e, una volta sola, si infilò oltre la soglia e aprì il rubinetto.
Si lavò la faccia, così forte da arrossarsi le guance.
Doveva calmarsi.
Sollevò il capo, incrociando lo sguardo attraverso il riflesso e le strie d'acqua che le scivolavano tra le ciglia. La voglia rossa sembrava pulsare sotto la pelle, quasi fosse sul punto di scoppiare.
Fosca si rinchiuse nell'unico bagno provvisto ancora di tavoletta. La abbassò, le diede una ripulita con la carta igienica e vi si lasciò cadere sopra.
Ponderò l'idea di scrivere a Cora, magari implorandola di lasciar perdere il laboratorio di Chimica Analitica e uscire a bere qualcosa, ma arginò l'impulso. Non poteva farlo di nuovo. Era stata colpa sua se al ricevimento con il professor Mei le era stato detto che un'ulteriore assenza le sarebbe costata il corso da frequentante per quel semestre, tutto perché Fosca non aveva mai imparato a camminare con le proprie gambe. E, anche se Cora era troppo gentile per ricordarglielo, sapeva che non ci sarebbe stata per sempre.
C'erano giorni in cui i pensieri intrusivi le si infilavano nelle orecchie come formiche carnivore che le sussurrassero: "Essere normale è così facile. Perché tu non sei capace?".
Si rigirò il telefono tra le dita e sbloccò di nuovo lo schermo. Scorse i pochi numeri in rubrica, poi passò alla bacheca di Instagram. Cibo, feste, cagnolini, foto in costume, cibo, libri, foto, cibo, foto con la famiglia, foto al bagno, baci, frasi motivazionali, ancora cibo. Una melma di nulla che diceva anche troppo su di lei, una selva oscura digitale in cui perdersi senza pensare.
Il telefono vibrò e la lucetta in cima prese a lampeggiare. Fosca aprì la schermata dei messaggi.
"Stai facendo tardi."
Aggrottò la fronte. Il mittente non aveva immagine del profilo, stato o numero. Doveva trattarsi di quella ragazza con cui si era accordata sul gruppo Facebook della facoltà per venderle i libri di Letteratura Latina, anche se non ricordava di averle dato il suo contatto. Ricontrollò la conversazione: anzi, almeno secondo la cronologia dei messaggi non avrebbero dovuto incontrarsi prima di venerdì.
Il telefono vibrò ancora.
"Hai deciso di saltare la lezione?"
Qualche compagno, forse, ma trovò insolito che avesse recuperato il suo numero. Dopotutto, era abbastanza sicura di non aver ancora raggiunto confidenza con nessuno del corso.
"Chi sei?", digitò.
La risposta non tardò ad arrivare.
"Prossima domanda."
Rilesse quelle due parole un'infinità di volte. Per qualche motivo, man mano che i secondi scorrevano, le suonarono sempre più strane. C'era qualcosa che non andava in quella breve conversazione, come se fosse aperta su una finestra fuori dal mondo. O, forse, si trattava soltanto uno scherzo. Secondo la teoria del rasoio di Occam, tra più soluzioni a un possibile enigma valeva sempre quella più semplice. E di scherzi, più o meno cattivi, Fosca ne aveva subiti anche troppi in vita sua.
Andò nelle opzioni della chat, aprì il menù a tendina e schiacciò il tasto "blocca". Il dispositivo video vibrò appena, quasi fosse stato colto da un'interferenza.
"Vuoi andartene così? Senza salutare?"
"Chi sei?"
Stavolta, le dita di Fosca tremarono.
"Non immaginavo che una lettrice accanita e studentessa di Lettere potesse soffrire di analfabetismo funzionale. Ho già risposto a questa domanda. Leggi sopra."
«C'è qualcuno?» chiese ad alta voce. Nessuno replicò. "Non parlo con gli sconosciuti", scrisse, furiosa.
"Ma noi non siamo sconosciuti. Io conosco te, Fosca Donati."
Il cervello di Fosca si inceppò. Con il cuore che le rombava nelle orecchie e il respiro fermo in gola, come se qualcuno la stesse forzando a tenere la testa sott'acqua, saltò in piedi. Aveva bisogno d'aria. Si catapultò fuori dal bagno e corse in direzione dell'uscita. Al diavolo la lezione, non sarebbe riuscita a ricordare una singola parola e con ogni probabilità avrebbe finito per fare qualcosa di strano in maniera coerente a se stessa.
Una bella denuncia alla Polizia Postale e quella seccatura si sarebbe esaurita nel giro di qualche giorno. Forse non l'avrebbero nemmeno presa sul serio. In fondo, le era capitata l'ultima cosa che avrebbe potuto capitare a una come lei. Lei, che temeva persino di pubblicare le sue foto e si limitava a usare i social per condividere paesaggi, quadri e stralci di libri, che sguazzava nel cyberanonimato da quando era stato creato e che lottava ogni giorno per avere una vita comune nonostante quella cosa sul viso.
I piedi le si intrecciarono sulle scale e volò verso l'asfalto. Fu raggiunta da un'esplosione di urla femminili e, un momento dopo, le ragazze con cui aveva interagito solo mezz'ora prima l'avevano circondata.
«Oddio, ti sei fatta male?»
«Ti sanguina la faccia...»
Quattro braccia la afferrarono e la rimisero in piedi. Il sapore di ferro caldo le invase la bocca, le labbra che pulsavano. Gli occhi vagarono da un volto all'altro senza vedere davvero il mondo che la circondava.
«Ecco, tieni.» La ragazza che le aveva chiesto l'accendino le porse un fazzoletto, e Fosca lo accettò. «Ti senti bene? Vuoi che ti accompagniamo in ospedale?»
«No, g-grazie.»
«Sicura? È qui vicino.»
«Davvero, è tutto a p-posto. Grazie.» Fosca si dileguò, congedandole con un cenno sbrigativo, e si avviò verso la caffetteria.
Quando il cellulare le vibrò in tasca, il cuore mancò un battito.
"Sei sempre così maldestra."
"Dove sei?"
"Scusa?"
"Puoi vedermi. Mi stai seguendo. Dove cazzo sei? Sei passabile di denuncia, lo sai?"
"Quanta aggressività. Volevo solo fare quattro chiacchiere."
"Io no. Ed è meglio per te se la pianti. Sto andando alla polizia."
"Non ti conviene farlo."
"Passi alle minacce, ora? Bene. Ho già salvato la conversazione."
"Che ragazza previdente ;)"
"Fai anche lo spiritoso, adesso?"
"Ti ho impedito di bloccarmi. Credi che non sarei in grado di infiltrarmi nel tuo cellulare ed eliminare le prove? O inserire qualcosa di compromettente? O spedire foto e video che ti ritraggono in atteggiamenti non esattamente consoni alla tua lista contatti?"
"Sei pazzo."
"Mai stato così lucido."
"Lasciami stare."
La conversazione si interruppe per qualche istante. Fosca fissò lo schermo con ansia febbrile, il fazzoletto zuppo di sangue premuto contro le labbra. Forse le si era persino scheggiato un dente, ma in quel momento non le parve un dettaglio utile all'economia delle cose.
Nella conversazione comparve un quadrante scuro che segnalava l'invio in corso di una fotografia. L'attesa le logorò i sensi. Quando il caricamento fu completato, una vertigine la fece sbilanciare su un lato. Per fortuna si trovava nei pressi della segreteria studenti, e il corpo incontrò la resistenza del muro.
Non era possibile. Quella nella foto non poteva essere lei, un'ombra raggomitolata nel letto, tra le coperte sfatte, la pelle lucida per l'arsura estiva. Aveva una mano infilata nelle mutandine e gli occhi socchiusi. L'estasi di Santa Fosca.
"A chi stavi pensando?"
"Cosa vuoi da me?"
"Non hai risposto."
"Non lo so. Non me lo ricordo. Cosa vuoi?"
"A Damiano Quintili?"
Le lettere che componevano quel nome si mescolarono nel suo sguardo, e solo a quel punto si accorse che aveva cominciato a piangere. Vedendo che tardava a rispondere, la persona dall'altra parte dello schermo riprese:
"Non temere. Lui e quella stupida si tradiscono da più di un anno. Credono di essere entrambi più intelligenti dell'altro, ma giocano a imbrogliarsi in una partita ad armi pari."
Fosca non rispose. Non ne ebbe la forza. Lesse, impotente, quel mucchio di parole senza senso.
"Ci sei?"
"Sì."
"Non capisco perché una come te dovrebbe perdere tempo con un mediocre imbecille come quello."
Parole cariche di rabbia le pizzicavano le punte dei polpastrelli, ma tutto ciò che riuscì a scrivere fu: "Non lo so".
"Come sarebbe 'non lo sai'?"
"Non lo so. Cosa te ne importa?"
"A me importa di te, Fosca."
Deglutì. Se quella frase fosse stata scritta da qualcun altro, da una persona che poteva scegliere di cancellare dalla sua rubrica, da un compagno, da un amico, il loro sapore sarebbe stato diverso. Il cuore le si sarebbe riempito di gioia, perché a pochi, ben pochi, importava di Fosca Donati. Ma quella persona non faceva parte della sua rubrica, non era un compagno e tantomeno un amico. Una scarica di terrore le si inerpicò tra le vertebre.
"Adesso sei tu che non hai risposto a me. Cosa vuoi? Sei una di quelle persone piene di fantasie strane? Devo inviarti la mia biancheria sporca?"
"Che dovrei farci?"
"Vuoi dei soldi?"
"Da una studentessa fuori sede? Non direi. Scommetto che sei una strana creatura che si nutre solo di riso scondito e scatolette di tonno. Quando ti aggiri per gli scaffali del supermercato cerchi sempre l'offerta migliore, un'accortezza che ti permette di concederti, di tanto in tanto, un pranzo fuori con la tua unica amica."
A Fosca venne voglia di vomitare.
"Non ho ragione?"
"VUOI RISPONDERE?"
"Calmati. Voglio solo conoscerti. Parlare con te."
"Non ha senso."
"Lo avrà."
"Non so neanche come ti chiami. Tu sai tutto di me. È spaventoso."
"So meno di quel che credi, Voglia-di-fragola."
La mano di Fosca scattò a sfiorare la chiazza rossa, percependone il leggero dislivello che la gonfiava appena oltre il resto della sua pelle. C'era stata solo un'altra persona, in passato, che l'aveva chiamata così. Aveva riposto quel ricordo in un cassetto della sua mente, uno di quelli in cui sbirciava di tanto in tanto solo quando avvertiva il bisogno viscerale di alleggerire le sue giornate. Lo sconosciuto aveva aperto quel cassetto e ne aveva rubato il contenuto. Eppure non riuscì a odiarlo, perché la verità era che quel soprannome le mancava come l'aria nei polmoni di un uomo trascinato sul fondo del lago da un mostro leggendario.
"Adesso devo andare."
La vibrazione la trascinò nuovamente nel suo corpo. Tenne gli occhi incollati allo schermo. Avrebbe dovuto salutarlo? Certo che no. Dopo qualche secondo, nella barra in alto comparve la dicitura "sta scrivendo...".
"Puoi chiamarmi Spettro."
I messaggi cessarono per il resto della giornata.
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