TOC TOC

Si svegliò avvolta in una coltre di calore e morbidezza. Il capo di Fosca scivolò fuori dalle coperte, il cerchio alla testa che le formicolava per gli eccessi del vino che il suo corpo stava ancora cercando di smaltire. Il sole che pioveva tra le intercapedini delle serrande illuminò il tappeto di vimini e lo scaffale che scoppiava di libri infilati anche in orizzontale pur di sfruttare lo spazio. La sua stanza era ancora lì, intatta, con le sue pareti spoglie e la sua consueta banalità.

Poi, Fosca ricordò: il bowling, la fuga... e la cripta. Solo quando si mise a sedere si accorse di avere addosso il pigiama. Doveva essere stata opera sua: lui l'aveva portata a casa. Lui l'aveva spogliata. Afferrò il cellulare, ma non trovò nessun nuovo messaggio a eccezione di quelli della mamma.

Aprì la chat di Spettro e per poco il telefono non le scivolò di mano: era vuota. Tutti i messaggi che si erano scambiati nelle ultime settimane erano svaniti così, da un giorno all'altro, come se non fossero mai esistiti. Era stato un sogno? Un'allucinazione della sua paranoia?

Il cellulare vibrò.

ema.sky: "Ci sei?"

Fosca spense il dispositivo e appoggiò i piedi contro il pavimento. Fuori dalla camera udì il tintinnio delle tazze unito al borbottio della moka, e si lasciò attrarre da quella vitalità con il bisogno di una mosca morente su una superficie sciropposa. Si trascinò in salotto, dove Cora aveva apparecchiato per la colazione.

«Buongiorno, fiorellino di campo. Hai fatto tardi.» Le rivolse uno dei suoi sorrisi da piratessa dello spazio e si ficcò tra i denti una fetta di pane tostato con la marmellata. «Devo dedurre che la tua virtù non sia più intatta.»

«Smettila.»

Fosca si lasciò crollare sulla sedia di plastica e si riempì la tazza di caffellatte.

L'amica si sporse verso di lei, puntando i gomiti contro il tavolo. «Voglio i dettagli.»

«No.»

«Sei la noia in persona.» Cora la osservò a lungo, e il suo sorriso si spense. «C'è qualcosa che non va.»

Non lo aveva chiesto. La forza di quella affermazione obbligò Fosca ad alzare la testa e a comprendere che l'altra non l'avrebbe lasciata andare fin quando non avrebbe confessato. «C'era Stella.»

Il rumore del cucchiaino che cadeva nella tazza della sua coinquilina la fece sobbalzare. «Stella? Al tuo appuntamento? E che c'entrava?»

«Non era un appuntamento.»

«Che ha combinato stavolta?»

Fosca infilò la mano nella busta di carta in mezzo a loro e ne estrasse un cornetto alla crema. Non aveva fame, ma lo addentò per prendere tempo. Una volta mandato giù il boccone, iniziò a raccontare.

«La solita stronza» commentò Cora al termine di quel resoconto. «E cosa hai fatto dopo che te ne sei andata?»

Fosca esitò. «Io... avevo bisogno di camminare.»

Forse raccontare alla sua coinquilina di essersi infiltrata in una cripta decorata con ossa umane solo perché glielo aveva ordinato uno sconosciuto via messaggio non sarebbe stata un'idea intelligente. Non capiva lei stessa il motivo per cui lo aveva assecondato, di certo non avrebbe potuto capirlo qualcun altro.

Cora vuotò la tazza con due sorsi, si alzò e cominciò a sparecchiare. «Lui non mi piace.»

«Cosa? E perché? È un bravo ragazzo.»

«Come fai a dirlo? Lo conosci?»

Fosca aprì la bocca, accorgendosi della vampata di collera che le era salita alle guance. «Perché, tu sì?»

Cora buttò i resti della colazione della spazzatura e infilò la tazza e il piattino nell'acquaio. «No, ma puoi capire un mucchio di cose dal genere di amicizie di qualcuno. E uno che è amico di quella lì, per me, non è una bella persona.»

ema.sky: "Mi dispiace da morire per quello che è successo, certe volte Stella esagera."

ema.sky: "Se pensi che io abbia cambiato idea su di te sbagli."

ema.sky: "Okay, davvero, non devi avercela con me."

ema.sky: "Voglio parlarti. Mi trovi alla Minerva alle tre. Pensaci, per favore."

I messaggi di Emanuele l'avevano sommersa nel momento in cui si era decisa a riaccendere il telefono.

"Che cazzo vuole ancora?" lo seguì a ruota Spettro.

"Smettila. Sto andando da lui."

Fosca fece scattare l'interruttore che apriva il portone del palazzo e uscì in piazza. Il sole del pieno pomeriggio si sparpagliava tra le fronde, inondando le sommità dei palazzi e riverberando sui tettucci delle auto e i vetri dei bus. Guardò l'ora: le due e mezza. Quel giorno non aveva avuto la testa di prepararsi per andare in università, seguire lezioni e fingere che le cose fossero normali. Cora non l'aveva giudicata. Si era limitata a dire che, di tanto in tanto, fosse legittimo avere bisogno di una pausa.

"Fidati, stai facendo un errore. Perché vuoi vederlo?"

"Voglio sentire che ha da dire."

"Perché?"

"Perché voglio dargli una possibilità di spiegarsi."

"Come se la meritasse."

Varcò i cancelli della città universitaria e alzò il volume della musica. "Sei l'ultima persona che può permettersi di dire di chi dovrei fidarmi, dopo quello che hai fatto."

"Mi sembra che tu ti sia svegliata sana e salva nel tuo letto, stamattina."

"Sono svenuta. Non so cosa sia successo dopo."

Ogni lettera di quell'ultimo messaggio le pesò sulla punta delle dita. Il pensiero l'aveva tormentata dal momento in cui si era svegliata, aggrovigliandosi nella sua mente in fantasie sempre più oscure. Non aveva avuto il coraggio di chiederglielo, perché la risposta la spaventava: Cosa mi hai fatto?

"Se credi che mi sia approfittato di te, sbagli. Ma puoi sempre andare in ospedale e farti visitare."

"Dovrei raccontare quello che è successo."

"Hai paura?"

Fosca spense la suoneria e nascose il telefono in tasca. Ce l'aveva. Le brulicava lungo tutto il corpo come migliaia di insetti che vagassero senza sosta, scivolando in ogni fessura. Se la sentiva in bocca, tra le cosce e dietro le palpebre.

Affrettò il passo verso il piazzale dove si innalzava la biblioteca, simile a un antico tempio del sapere. La Minerva le dava le spalle con le braccia al cielo, lo scudo e la lancia pronti alla battaglia. Individuò due ragazzi seduti sul bordo della fontana: Emanuele stringeva la spallina dell'Eastpak, intento a confabulare con una ragazza dai lunghi capelli biondo platino, anch'essa di spalle come la dea. Fosca riconobbe il giubbotto beige e i jeans di marca che le sorreggevano il fondoschiena a forma di mandolino.

Stella si voltò nella sua direzione con una smorfia e se la diede a gambe verso la facoltà.

«Eccoti.» Emanuele le andò incontro.

«Ec-comi» disse, sfilando le cuffie.

«Stavo parlando con Stella.»

«Ho v-visto.»

«Sono sicuro che si scuserà non appena avrà messo da parte l'orgoglio. Solo... dalle tempo.»

Fosca lo fissò senza emozione. Avrebbe voluto dirgli che di tempo ne aveva avuto a sufficienza, e che aveva smesso di aspettarsi delle scuse da molti anni. Il suo era un debito a fondo perduto, ormai. Agganciò i pollici ai passanti dei jeans. «Di cosa volevi parlarmi?»

Emanuele sfregò le nocche contro la nuca. «Senti, i miei sono fuori città. Ti andrebbe di venire da me? Così ne parliamo con calma.»

Lei socchiuse le labbra. «A casa tua?»

«Ti offro qualcosa e parliamo.»

Lo sguardo di Fosca slittò in direzione del bar. Non andava bene? Troppo affollato. Una panchina? Nel giro di poche ore avrebbe rinfrescato. Si trattava solo di avere una tazza di tè o un caffè tra le mani, una sedia e i brusii del mondo chiusi fuori, senza orecchie indiscrete. Forse.

Lui non mi piace, aveva detto Cora. E lo aveva fatto anche Spettro, lui che trovava sempre il modo di farle fare ciò che voleva. Quella volta non ci sarebbe riuscito. Quella volta, Fosca avrebbe fatto l'opposto. «D'accordo» disse.

«Bene. Andiamo, ho parcheggiato la macchina qui vicino.»

Casa di Emanuele Cieli si trovava al secondo piano di una palazzina sul ciglio del parco della Caffarella, dove gli edifici più alti e spessi si diradavano un poco prima di riprendere a innalzarsi verso le mura aureliane. L'edificio sorgeva di fianco a un gommista ed era basso, rosato e con il cortiletto di ingresso recintato. Niente ascensore, ma d'altronde non ce ne era bisogno.

Una palla di pelo bianca zampettò sul parquet non appena si richiusero la porta alle spalle. La bestiola miagolò, squadrò l'intrusa e saettò in cucina.

Fosca si mosse per l'anticamera facendo scorrere lo sguardo sull'ampia libreria sulla sinistra, invasa di tomi giuridici, enciclopedie e fotografie che ritraevano un quartetto sorridente padre-madre-figlio a varie latitudini e longitudini: sulle spiagge delle Maldive, in safari, a Parigi, a San Francisco o alle Cinque Terre.

«Metto su l'acqua, tu sistemati pure in camera mia.» Emanuele le indicò la porta scorrevole che dava l'accesso a un breve corridoio. «La stanza in fondo. A destra c'è il bagno.»

«Va bene.»

Fosca si lasciò guidare dalle indicazioni e, oltre la porta in legno scuro, entrò nel mondo di Emanuele.

Decine di manga e fumetti italiani stavano ordinati per altezza nella libreria di compensato bianco, animata dalla presenza di action figures dall'aria costosa. C'era uno scaffale interamente dedicato a una collezione di minerali, e una pila di libri e appunti sparsi sulla scrivania. Il letto a una piazza e mezza era ricoperto da uno di quegli ampi teli da mare che i ragazzi stranieri vendevano l'estate lungo le spiagge di Ostia. Quello, in particolare, era di colore viola e recava la stampa di un elefante tribale.

Mollò la giacca e la borsa sulla sedia da ufficio che raccoglieva i vestiti e rimase lì, al centro della camera. Emanuele tornò poco dopo con due tazze fumanti e una pila di biscotti al cioccolato sul vassoio.

«Tu hai un pessimo rapporto con le sedie.»

«C-cosa?»

«Non devi stare in piedi per forza.» Sedette sul bordo del letto e le fece cenno di imitarlo.

Fosca prese posto accanto a lui. Le sembrò lo spazio più sbagliato da occupare. Bevve qualche sorso e rifiutò i biscotti: le si era chiuso lo stomaco.

«Allora...»

«Mio padre è cresciuto a Berlino negli anni in cui circolava l'ero» attaccò lei, senza dargli neanche il tempo di introdurre il discorso. «Aveva genitori italiani, ma mio nonno lavorava lì. Lo hanno spedito in patria non appena hanno visto che la situazione era irrecuperabile, e che l'unica opzione era allontanarlo dalla città. E in un certo senso gli fece bene, il nostro paese era fuori dal mondo e poté disintossicarsi. Mamma studiava Infermieristica a Padova, intanto. Ha sempre avuto una specie di debolezza per i casi disperati. Si sono conosciuti in uno dei periodi in cui lei staccava dall'università per tornare a casa, e non si sono più lasciati. Mamma era davvero convinta che con la sua forza d'animo e la sua professione sarebbe riuscita a tirarlo fuori dalla dipendenza. Dall'ero, mio papà passò a tutto ciò che venne dopo. Mamma si arrabbiava, lo aiutava a ripulirsi, erano felici per un po' e poi si ricominciava da capo. Io sono stata concepita praticamente per caso, in uno di quei periodi di felicità. Ho passato l'infanzia e l'adolescenza a guardare mio padre che cadeva, si rialzava e mi portava fuori a giocare a bowling o a prendere un gelato per scusarsi e dirmi che non sarebbe successo più. Quindi non invitavo nessuno a casa perché non volevo che la gente vedesse, o cercavo di non legare troppo con qualcuno perché non mi toccasse parlargli della mia famiglia. Strinsi amicizia con una ragazza di Roma su un gioco di ruolo in chat e finii per sfogarmi con lei, che era troppo lontana, abbastanza da essere bloccata senza conseguenze e, soprattutto, separata da uno schermo che mi consentiva di non assistere alla sua reazione in diretta. Quando ho iniziato l'università mi sono potuta finalmente staccare dai miei. Volevano che studiassi a Padova, ma questo avrebbe significato continuare a vederli con una certa frequenza, e io non ne potevo più. Quasi tutti i miei compagni di classe sono lì, adesso. Stella aveva una casa qui, invece, e Damiano l'ha seguita. Cora aveva una buona offerta per un appartamento messo in affitto da sua zia e mi ha invitata a vivere con lei. Quando ho accettato le cose sono cambiate. Forse mio padre non ha più avuto un motivo sufficientemente vicino che gli ricordasse perché ripulirsi e continuare a lottare era importante. Così, quando ha ricominciato, è stata l'ultima volta.»

Fosca appoggiò la tazza ancora piena di tè sul pavimento. Si era espressa senza particolare trasporto, come se la storia appartenesse a qualcun altro. Si guardò le unghie mangiucchiate.

Aveva buttato fuori tutto. Chissà se Spettro l'aveva sentita.

«Non mi aspettavo che ne avresti parlato subito» disse Emanuele dopo un lungo momento. Cercò di prenderle la mano, e stavolta Fosca non lo rifiutò.

«Scusa se ti ho v-vomitato tutto addosso.»   

«Tranquilla. Mi dispiace molto. È davvero una brutta storia.»   
«Lo è.»

Spettro non aveva sempre ragione. Spettro non conosceva tutte le pedine che si muovevano sulla strana scacchiera che era la sua vita. Tutti avevano conosciuto il dolore, a modo loro.

Le braccia di Emanuele la avvolsero e lei appoggiò la fronte nell'incavo del suo collo. Aveva un buon odore, di bagnoschiuma alle erbe. Si sentiva più leggera, come se avesse espettorato una tossina dopo mesi di agonia. Fosca tirò indietro il capo e gli baciò la guancia, un modo per ringraziarlo di essersi finalmente fermato ad ascoltare. Emanuele la baciò a sua volta, sulle labbra, facendole scorrere le dita lungo la schiena.

La lingua si fece strada tra la carne e i denti, cercando quella di lei. Fosca tremò e lo lasciò fare. Poi ci provò, a rispondere, a non essere una bambola di pezza in balia degli eventi.

Le mani contro i fianchi sollevarono la stoffa del maglioncino, e i polpastrelli bollenti di Emanuele si fecero strada lungo lo strato di pelle d'oca che le affiorava dall'epidermide. Qualche minuto dopo era sopra di lei, che le accarezzava i seni, le baciava il collo e armeggiava con i bottoni dei jeans.

«Aspetta» ansimò Fosca.

Emanuele abbassò la cerniera.

«U-un momento, io non...»

Le dita scivolarono sotto la stoffa delle mutandine. Fosca premette le mani sulle sue spalle e lo spinse via. Scattò in piedi e si abbottonò in tutta fretta, le guance roventi di umiliazione.

«Ma che...»

«Cosa cazzo fai?» gli gridò addosso. «Ti parlo di mio padre e pensi che abbia bisogno di essere confortata?»

Emanuele la fissò dal letto senza rispondere.

«Ah, adesso capisco. Avevi casa libera e pensavi che volessi scopare.»

«Fosca...»

«Vaffanculo.» Fosca recuperò la giacca e uscì di corsa dalla stanza.

L'aveva toccata. Il suo corpo era un ammasso di plastilina, le carni cedevoli sotto la pressione di quelle dita che avevano scavato insenature nella pelle. Aveva perso per sempre la sua forma originaria. Poi, l'eco di quel pensiero: cosa voleva capirne Emanuele, con le sue belle foto di famiglia in giro per il mondo e i suoi amici?

Scappò da quella casa. Se a lui fosse importato qualcosa l'avrebbe cercata. Ma non andò così.

"Stanotte dormo da Lu, non divertirti troppo senza di me ;)"

Fosca lesse il messaggio di Cora e buttò il telefono sul letto.    
Le sarebbe bastato chiamarla. Una parola e la sua migliore amica sarebbe accorsa da lei per trovare il modo di presentare il conto al suo ennesimo errore. Era sempre la stessa storia.

Si sdraiò sul piumone e chiuse gli occhi. Il fatto di non essere sorpresa era forse la cosa che la deprimeva di più. Quasi lo immaginava Emanuele, uguale a tutti gli altri, che la settimana successiva avrebbe trovato il modo di chiedere a un'altra ragazza di uscire, l'avrebbe baciata, se la sarebbe scopata sui sedili posteriori della macchina e le avrebbe inviato un messaggio per mettere fine a tutto prima che facesse male a entrambi.

Le persone come Emanuele avevano paura di soffrire davvero. Vigliacche, apatiche, consumatrici di felicità in capsule, a piccole dosi, perché incapaci di gestire emozioni troppo forti. Meglio mantenersi su un encefalogramma stabile.

Ma Fosca viaggiava parallela all'encefalogramma, parecchi metri più giù, verso l'abisso. Erano due cose lontane.

Si addormentò con i vestiti ancora addosso.

La suoneria bucò il silenzio dell'appartamento, costringendola ad aprire gli occhi. Intorno a lei la stanza era buia e lo sbuffo del notturno che arrancava sull'asfalto della piazza fece vibrare le imposte. Fissò il soffitto per qualche secondo prima di girare il capo verso il comodino.
Lo schermo era acceso e segnalava le tre del mattino. Un numero sconosciuto la stava chiamando.

Si issò sui gomiti e rispose. «Pronto?» sussurrò con la voce ancora impastata. «Mamma? È successo qualcosa?»

Silenzio.

Fosca si mise a sedere sul materasso e si stropicciò gli occhi. «Se sei tu non è divertente, Cora.» Non ricevette risposta. Qualcuno, dall'altra parte, stava respirando. «Guarda che lo sento che sei lì.»

Il torpore del sonno le scivolò pian piano di dosso. Con il passare dei secondi, il dubbio cedette il passo all'angoscia.

Conosceva bene il nome della persona dall'altra parte.

«Spettro.»

Un respiro più rapido degli altri soffiò attraverso la cornetta.    
Fosca tremò nell'oscurità e chiese al suo corpo di recuperare la mazza di ferro sotto al letto, ma non ci riuscì: i suoi muscoli erano come fatti di ghiaccio.

«Bene, non p-parli.» Si sforzò di mantenere la voce salda, ma le parole incespicarono, vibrando. «Mi c-chiami a quest'ora solo per dirmi "te l'avevo detto"?» La risata che scaturì dalle sue labbra fu breve, nervosa. «Hai sentito la mia storia. Hai sentito anche c-che ho respinto Emanuele, non è vero?» Altro silenzio. «Cosa vuoi ancora? Che t-ti parli? Che ti dica che avevi ragione?»

Qualcuno bussò. Non usò il campanello, ma batté le nocche contro il legno della porta d'ingresso.

Tre volte.

Toc.
Toc.
Toc.

Fosca smise di respirare. «No. No, no, no, vai via... per favore, vattene, questo no...»

Era sola e lui era lì, dall'altra parte della porta. Ebbe la percezione del suo corpo inchiodato al materasso mentre la proiezione di se stessa si librava per la stanza, come quando si sentiva bloccare dalle paralisi notturne.

«A-ascoltami, che cosa... che cosa vuoi da me, si può sapere?» Si morse le nocche nel tentativo di trattenere le lacrime. «Chiamo la polizia. Mi hai sentito? Lo faccio davvero stavolta, se non te ne vai.» Nessuna reazione. «Chiamo la polizia? Un "toc" per il no, due per il sì.»

Attese, con la gola in fiamme e il panico che le schiacciava i polmoni. Spettro sapeva che non voleva farlo davvero. Esisteva una parte di lei che credeva ancora, in una maniera folle e disperata, che avrebbero potuto mettere a posto le cose.

Ma la risposta arrivò: toc toc.

Sì. Sprezzante e provocatorio.   

Fosca mise giù e compose il numero.

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