IN ANGUSTIIS AMICI APPARENT
Sua madre rincasò la sera tardi, con addosso ancora la divisa azzurra dell'ospedale. Fosca e nonna Laura le fecero trovare la tavola apparecchiata e la cena in caldo, infilata nel forno e coperta con un piatto di ceramica per mantenere la temperatura.
La piccola cucina situata al secondo e ultimo piano della casa di montagna si riempì presto dei pettegolezzi di paese, tra i tintinnii delle posate e il tramestio delle sedie. La panettiera aveva fatto lievitare i prezzi, il concerto di Natale sarebbe stato presentato da quella scostumata della vedova De Sanctis, il comitato della parrocchia si era superato con le decorazioni in piazza e il campione della squadra di canottaggio, nonché ex compagno di classe di Fosca, aveva subito un infortunio sulle piste da snowboard.
«È proprio un bel ragazzo, il nostro Filippo» continuava a ciarlare sua nonna. «Quando lo incontro chiede sempre di te. Non avevi una cotta per lui in prima elementare?»
Fosca sbuffò. «Tutte avevamo una cotta per lui in prima elementare.»
E poi, con gli anni era giunta alla conclusione che le fosse piaciuto solo perché tutte ne erano segretamente, ma neanche troppo, innamorate.
Sua madre finì di sbocconcellare il pollo, raccolse i piatti e andò ad appoggiarli nel lavello. Il fuoco scoppiettava nel caminetto, spargendo cenere sui mattoni, e Scottie, il San Bernardo di famiglia, russava nell'angolo. «Domani si va al cimitero» annunciò, strofinando la pirofila sotto il getto d'acqua. «Poi in paese. Il primo dell'anno pare che suonerà un qualche gruppo locale del tuo liceo, ma onestamente mi sfugge il nome».
«Bene.» Fosca, cullata dal sottofondo di una trasmissione culturale sugli scavi di Pompei, rimase seduta al tavolo e sbloccò il cellulare. Ancora nessuna risposta.
«Cora come sta?»
«Bene, come sempre.»
«Certo che ne è passato di tempo dall'ultima volta che è venuta qui. Sai che puoi invitarla per le vacanze, vero?»
«Ma'... le voglio un gran bene, ma è una delle poche occasioni in cui riusciamo a staccare l'una dall'altra.»
Cora, soprattutto, meritava di staccare da lei. Aveva bisogno della sua dose di leggerezza, non di un mostriciattolo attaccato alle gonne che spasimava per essere consolato alla minima perturbazione.
«È solo per quello?»
Fosca staccò lo sguardo dallo schermo e lo puntò sulle spalle di sua madre, che nel frattempo si era sfilata la divisa e aveva indossato un lungo maglione blu pavone. Un ricciolo scuro scappava dall'elastico che le fissava i capelli in uno chignon alto, attorcigliandosi lungo la nuca.
Sapeva perché glielo stava chiedendo. Le avrebbe detto che non c'era alcun bisogno di vergognarsi, a far entrare qualcuno in casa loro. Erano passati due anni, e se anche la ferita sarebbe rimasta sempre aperta doveva ricominciare ad aprire la porta, almeno alle persone con cui si sentiva al sicuro. Cora era una di queste.
«Certo» mormorò.
Sua madre le lanciò un'occhiata da sopra la spalla con un sorriso esausto. «D'accordo. Adesso vattene a dormire, mi sembri sfinita.»
Fosca si alzò. «Vacci tu. I piatti li finisco io.»
«Grazie.» Sua madre le diede un bacio sulla fronte e la guardò bene in viso. «Dovresti disinfettarla, quella ferita.»
«Sì, dopo lo faccio. 'notte.»
«Buonanotte, Fufu.»
Fosca finì di ordinare la cucina e fischiò al cane per fargli segno di raggiungerla. Scottie la seguì in quella camera che non era cambiata di una virgola: una mansarda incoronata dal tetto spiovente, la finestra ripulita dalla neve così che potesse immergersi nella notte. In quel ritaglio di cielo brillavano milioni di stelle, una delle tante cose che le mancavano di casa sua.
Le pareti rivestite da pannellature di legno ospitavano decine di foto scattate con la Polaroid, tutte ritratte in un periodo in cui credeva di aver sviluppato una delle sue tante passioni (l'ennesima cosa iniziata e morta nel giro di poco tempo). Lei e Cora che bevevano birra ghiacciata sedute sul ciglio di un molo di legno, lei e Cora che ammassavano un pupazzo deforme a bordo strada nell'unico anno in cui a Roma c'era stata la neve, lei e Cora che fingevano di baciarsi. Qualche istantanea con i suoi cugini, una con sua nonna assalita da uno Scottie cucciolo, sua madre e suo padre da giovani. Fosca e suo padre al parchetto dove sgorgava la fonte.
Accese la lampada a forma di spicchio di luna e si sdraiò a pancia in su. Scottie si accoccolò sul tappeto ai suoi piedi e riprese a russare nel giro di un minuto, mentre lei lasciava ciondolare il braccio fuori dal materasso per accarezzargli pigramente le orecchie cadenti.
Sbloccò ancora il cellulare e la luce le colpì il viso: nessuna traccia di Spettro.
"Va tutto bene?" scrisse. "Se ti ho offeso in qualche modo mi dispiace, anche se non so davvero come. Potresti illuminarmi?"
La risposta arrivò dopo quasi un'ora: "No".
Fosca non seppe cosa rispondere se non: "No?".
"No."
"Ne vuoi parlare?"
"No."
"Sai che puoi farlo."
"No."
"Ce la farai a scrivere altro?"
"No."
Fissò lo schermo, allibita. "Mi stai facendo preoccupare..."
"Non c'è bisogno. Dormi."
La collera le montò nel petto. Era ammattito? "Va bene. Ignorami. Ciao."
"Ciao."
"Vaffanculo."
Fosca spense il cellulare e lo infilò sotto al letto, in una scatola riempita con i suoi vecchi giochi e libri d'infanzia, come se lo stesse punendo relegandolo tra gli oggetti dimenticati. Se la metteva in quel modo, lo avrebbe lasciato lì fino al termine delle vacanze.
«Bugiardo» mormorò all'oscurità. «Mi vuoi solo finché cerco di scappare.»
Forse, senza volerlo, era davvero riuscita a trovare il modo di allontanarlo: era bastato dargli ciò che voleva, annientando il brivido della caccia. Non c'è alcun gusto nel divorare la preda quando questa si consegna senza opporre resistenza.
Con questi pensieri, Fosca si tirò le coperte fin sopra la testa e cercò di addormentarsi.
Posò il mazzolino di fiori di montagna sulla tomba, accucciandosi nella neve. Suo padre la guardava sorridendo dalla cornice ovale fissata alla lastra di granito, con un'allegria negli occhi che era una presa in giro. Nella foto avrà avuto sì e no trentacinque anni, con tutti i capelli ancora attaccati al cranio e la camicia aperta per il caldo.
Alle sue spalle la mamma, nonna Laura e Scottie passeggiavano per i sentieri ghiacciati chiacchierando sommessamente per non disturbare i morti.
Ripulì la lastra dagli accumuli di brina con un lembo della giacca. Lui aveva i suoi stessi occhi, un covo di rabbia e malinconia da cui era difficile districarsi. Odiava con tutta se stessa assomigliargli così tanto: certi giorni, temeva che quell'uomo avesse piantato in lei i germogli dell'autodistruzione. Dopo ciò che aveva passato negli ultimi mesi, quella paura si era tramutata in realtà.
Da qualche parte tra gli alberi un rumore di tonfi ritmati, come di una pala che colpisse il terreno, la distolse dal loro dialogo silenzioso. Spesso il comune inviava volontari che andassero a sorvegliare lo stato del cimitero, specie dopo le grandi nevicate come quella che c'era stata durante la notte.
Fosca si alzò, spazzolò via i residui di terriccio dai jeans e raggiunse il resto della famiglia.
Il cimitero sorgeva incastonato nel pendio della montagna, per cui dovettero intraprendere una discesa piuttosto ripida, tra le case dai tetti spioventi e i balconcini di legno che in estate si riempivano di fiori, per raggiungere l'avvallamento dove scorreva il fiume. Camminarono lungo la via asfaltata che costeggiava le acque. C'era un palchetto su cui si era radunato un gruppo di uomini e donne intenti a esercitarsi con i cori natalizi.
Seguendo il flusso di gente che affollava la via principale raggiunsero il piazzale addobbato a festa. Ai piedi della chiesa da cui rimbombavano i rintocchi del campanile era schierata una trincea di parrocchiani in là con l'età, tutti disseminati lungo il filare di panchine che correva a entrambi i lati dell'ingresso. I bambini si rincorrevano attorno all'aiuola che ospitava l'albero di Natale, alto quasi quasi quattro metri.
«Io e tua nonna andiamo a fare la spesa per il cenone» disse sua madre. «Vieni con noi o vuoi fare un giro? Magari salutare qualcuno?»
«Vengo con voi.»
Se c'era una cosa che detestava più delle persone, erano le persone che la tempestavano di domande sulla sua vita a Roma.
«Meglio, così fai la guardia a Scottie.»
Raggiunsero insieme il minimarket, aperto in via straordinaria quella domenica, e sua nonna le affidò il guinzaglio. Se ne rimase lì, spalle al muro, a giocherellare con il cane e a rassicurare i bambini di passaggio sul fatto che non sarebbe riuscito a fare del male a una mosca neanche volendo. Pochi metri più in basso, una giovane coppia stava scaricando le valigie dal bagagliaio della Volvo. L'uomo richiamò l'attenzione di un altro signore di passaggio, per farsi aiutare a trainare giù quella che era la forma di parmigiano più grossa che Fosca avesse mai visto.
Scottie drizzò la grossa testa.
«Non ci provare nemmeno» borbottò.
Ma non appena il profumo della stagionatura raggiunse le narici del San Bernardo, fece appena in tempo a vederlo sollevare le orecchie come antenne in grado di catturare radiofrequenze particolarmente lontane. Un attimo dopo, ottanta chili di cane la stavano trainando giù per la discesa.
Fosca gridò. «Oh, bello! Frena! Ho detto frena!»
A nulla servì puntare i talloni contro l'asfalto: quella specie di orso casalingo non volle saperne di ascoltarla, e si gettò addosso ai due uomini con la forza di un uragano. La donna lanciò un urlo.
«Mi scusi! Mi scusi, davvero, sono mortificata!» piagnucolò Fosca, mentre la forma di parmigiano ruzzolava giù per la discesa attirandosi svariate imprecazioni in veneto stretto dalle persone che si stavano affacciando dai balconi.
L'umiliazione le bruciava lo stomaco: chissà cosa avrebbe detto Spettro di quella situazione. Altro che maldestra, era un caso disperato.
Già, Spettro. Quel nome tramutò il bruciore in un'acqua gelida in grado di sciogliere le sue preoccupazioni come una zolletta di zucchero sospesa sull'assenzio.
I piedi di Fosca si intrecciarono e il guinzaglio le sfuggì dalle mani con un gemito strozzato. Sbatté la faccia contro l'asfalto, e il dolore le esplose dal naso fin dentro la testa mentre rotolava giù per la discesa. Con la vista appannata di lacrime, si fermò a pancia in su, il sapore ferrigno del sangue le si allargava nella bocca. La ferita si era riaperta.
Qualcuno accorse per controllare che fosse ancora tutta intera.
«Sto b-bene...» mugolò mentre la aiutavano a rimettersi in piedi.
«Tieni, cara.» Una signora le allungò un fazzoletto. «Stai sanguinando.»
«S-sì, grazie.» Fosca si tamponò la ferita e, ancora dolorante, zoppicò nella direzione che aveva preso Scottie.
Cercò di non pensare al modo in cui sarebbe riuscita a riprendere il controllo dell'animale, e ancora meno a quanto avrebbe dovuto pagare per risarcire i danni del formaggio finito chissà dove... ma il sospiro di sollievo del tizio che era stato travolto la rasserenò.
Fosca individuò una figura in fondo alla discesa con un piede piantato sul terreno a frenare la forma di parmigiano, là nel punto in cui iniziava il tornante. Era un ragazzo con il gesso al braccio, intento a sventolare davanti al muso di Scottie una strisciolina di qualcosa che aveva guadagnato tutte le attenzioni del cane il quale, ritto sulle zampe posteriori, tendeva il muso verso l'alto con la lingua penzoloni.
Il ragazzo scagliò l'esca nella direzione da cui Scottie si era precipitato e fece segno al proprietario e al suo aiutante di correre a recuperare il maltolto prima che il San Bernardo cambiasse idea. Poi, con la mano integra, raccolse il guinzaglio e Fosca si affrettò a raggiungerlo.
«Grazie, m-mi hai salvato la vita.»
«Fosca?»
Fosca sbatté le palpebre e mise a fuoco un volto familiare: il ragazzo aveva un sorriso cordiale, occhi di un azzurro fiordaliso che avrebbero reso docile una vedova nera e un velo di barba bionda che catturava la luce del sole in riverberi dorati.
«Filippo!» boccheggiò.
Le sue spalle si erano fatte più larghe di quanto ricordasse, ma d'altronde era nella nazionale di canottaggio da quasi tre anni.
«Ne è passato di tempo. Fortuna che stavo tornando dal deposito di caccia di mio nonno e che si diverte a riempirmi di carne essiccata. Sei a Roma adesso, giusto?»
«Già... niente c-cane. Non sono più abituata a portarlo.» Fosca non riuscì a impedirsi di suonare colpevole, ma lui non parve farci caso.
«È solo su di giri perché sente la tua mancanza. Non è vero, bello?» domandò a Scottie, che scodinzolò e si mise a cuccia, il petto in fuori, come se fosse in attesa di qualcosa.
«Non illuderti, f-fa il bravo solo perché tu hai il potere, adesso. Vale a dire il cibo.» Fosca sorrise, in tensione. «Cosa ti è successo?»
«Ah, è tutta colpa di Leo. Quell'idiota mi ha tagliato la strada mentre eravamo su in vetta e stavamo scendendo con gli snowboard. Hanno dovuto chiamare i soccorsi, un disastro. Ma il peggio è che non potrò allenarmi per un bel po'.»
«Immagino... ce l'avrai a morte con lui.»
«No, ma glielo faccio credere così posso trattarlo come il mio schiavetto.» Filippo ammiccò e Fosca arrossì leggermente. «Neanche tu sei messa tanto bene. Che hai combinato alla faccia?»
«Io, uh... ho sb-battuto contro la finestra...» Chissà perché, più ripeteva quella scusa, meno se ne convinceva. «Comunque non ti voglio trattenere. Grazie ancora, ti d-devo un favore.»
«Tranquilla, mi ha fatto piacere rivederti. Allora ci becchiamo in giro!» Le sorrise e fece per superarla, quando si fermò, arretrò di un passo e le dedicò una lunga occhiata. «Io e te è un po' che non ci facciamo una chiacchierata.»
Fosca sbatté le palpebre e scosse la testa.
«Stasera ci vediamo tutti al bar su in piazza, perché non vieni anche tu?»
«Dici sul serio?»
«Certo. Ti offro un grappino e guardiamo le luminarie. Magari questo ragazzone lo lasciamo a casa, però, eh?»
Scottie uggiolò, inclinando il capo.
«Ci...» si bloccò. «Ci saranno tutti?»
«Più o meno. Solo gente interessante. E questo esclude la Chiarini e quell'attrezzo che si porta dietro.»
Un sorriso spuntò sulle labbra di Fosca.
«Quello è un sì?» Filippo rise.
«Sì. Ci vediamo stasera.»
Il "ba", che aveva perso la "r" da almeno quindici anni, era l'unico del paese, cosa che gli aveva garantito il privilegio di non doversi trovare davvero un nome. Filippo era lì, nel bel mezzo di quella comitiva di gente che si conosceva da sempre.
Grappa alla mano, i ragazzi chiacchieravano e ridevano in una nube di tranquillità che le era del tutto estranea.
Filippo la intravide nei pressi del fontanone e le fece cenno di avvicinarsi. In quel momento il resto della comitiva seguì la traiettoria del saluto, perché tutti iniziarono a sbracciarsi e a chiamare il suo nome in preda all'euforia dovuta all'alcol.
Fosca si avvicinò, calcando il cappellino di lana sui capelli in un gesto che le infuse un po' di conforto. «'sera.»
«Oddio, è un milione di anni che ti vediamo» fece Giorgia Santin, brandendo il bicchierino vuoto. «Stai bene? Devi raccontarci tutto!»
«Sto b-bene.» Intimidita, Fosca sorrise. «Anche voi siete rientrati ieri?»
«Mhmh» annuì Giorgia. «Non ce la facevo più, almeno posso staccare da Neuroscienze per un po'.»
«Studi Medicina a Padova?»
«Già.»
«B-bello.»
«Oh, basta parlare di università!» Leo, la causa del gesso pieno di firme di Filippo, mise le mani sulle spalle di Giorgia, che se lo scansò di dosso con una gomitata giocosa. «Adesso si beve! Donati, non ti puoi rifiutare. Ah, e dobbiamo finire le squadre per il biliardo.»
«Io sono infortunato.» Filippo alzò la mano integra. «Vedo che continui a dimenticartene.»
«Insomma! Allora visto che siamo dispari e Fosca è l'ultima arrivata, ti aiuterà lei.»
Fosca e Filippo si scambiarono uno sguardo e lei scrollò le spalle: «Sono una vera schiappa».
«Beh, magari in due riusciamo a fare un giocatore decente» le sorrise.
La serata trascorse tranquilla al piano superiore del "ba", allestito con i tre tavoli da biliardo, il calcio balilla e le coccarde appuntate alle pareti con chiodini sbilenchi. Lo scoppiettio del fuoco fece eco alle loro risate e ai brindisi, al tuffarsi delle sfere in finto avorio nelle buche. Con la testa leggera, verso mezzanotte Fosca realizzò di aver fatto qualcosa che non si concedeva da molto tempo: si era divertita. Era così strano, pensò. La quiete della leggerezza la avvolgeva in una coltre di vapori tiepidi, e tutto sembrava giusto, come se fosse un ingranaggio incastrato senza sforzo in una macchina costruita apposta per lei.
Filippo sfilò filtri e tabacco dalla tasca della giacca. «Vado fuori a fumare. Fosca?»
«S-sì?»
«Sai girare una sigaretta?»
«Sì, credo di sì.»
«Bene. Visto che mi devi un favore, allora, accompagnami.»
Le mise tutto l'occorrente fra le mani e, prima che potesse provare a formulare una risposta, era già uscito. Fosca percepì gli sguardi degli altri pizzicarle sulla nuca e si affrettò a recuperare il piumino. Raggiunse Filippo fuori dal "ba", sotto le stelle che brulicavano in quel cielo limpido. «È un po' che non lo faccio, spero di non combinare d-disastri» si giustificò.
«Tranquilla.»
Fosca fece del suo meglio e, alla fine, il risultato non fu nemmeno così malvagio.
Filippo si portò la sigaretta artigianale alle labbra e fece scattare la fiammella dallo Zippo. «Camminiamo un po'?»
«Certo.» Passeggiarono per le vie vuote e accoglienti del paese. Si riuscivano ancora a percepire le chiacchiere dagli interni delle case, o il brusio delle televisioni accese. «Allora, con Viola come va?»
«Ci siamo lasciati qualche mese fa.»
Fosca fece girare di scatto la testa nella sua direzione. «St-tai scherzando?»
«Purtroppo no.»
«Ero convinta che vi sareste sposati!»
«Già, questo mi fa stare davvero meglio» sogghignò, sbuffando una nuvoletta di fumo.
Lei arrossì. «S-scusa.»
«Non c'è problema, tanto non sei l'unica ad averlo detto.» Le rifilò una pacca amichevole sulla spalla e imboccò le scalette ripide che portavano al fiume. «Tu, invece?»
«Io c-cosa?»
«Come ti va? Hai conosciuto qualcuno?»
Il suo cuore compì un balzello del petto e i pensieri le si annodarono in gola. «Come vuoi che vada» balbettò dopo un lungo momento.
Lui le lanciò un'occhiata. «Davvero?»
«Sembri sorpreso.»
«Pensavo te la stessi spassando a Roma.»
«Ma dai, m-mi hai vista?»
Filippo si fermò sul marciapiedi, la sigaretta fra le labbra e il gomito poggiato sul corrimano che li separava dal fiume. I flutti neri rumoreggiavano sotto di loro e riflettevano i bagliori delle luminarie che adornavano il corso. La studiò, a lungo. «Io ti ho sempre trovata fichissima» decretò.
Fosca divenne color vinaccia. «Che vai blaterando, Armigeri?»
«Secondo te perché volevamo essere tuoi amici? Poi è successo quello che è successo e ti sei allontanata ancora di più.»
C'era un vago senso di accusa nelle sue parole, per quanto Filippo stesse cercando di mostrarsi gentile.
«Quindi è p-per questo che volevi parlare con me» mormorò Fosca.
Lui si strinse nelle spalle. «Credevi che non sarei stato capace di starti vicino? Ci conosciamo da una vita, io e te. Ho capito che eri una bella persona quando mi hai preparato quella torta di riso... quella che faceva sempre la mamma. Lo sai che è morta quando ero piccolo.»
«Te lo ricordi?» La voce di Fosca ebbe un lieve tremito.
«Lo ricordo. Soprattutto perché aveva un sapore terrificante.» Filippo scoppiò a ridere, guadagnandosi un pugno contro la spalla. «Ehi, non picchiarmi, sono malato!»
«T-tu sei soltanto furbo» brontolò lei. Poi, con un sospiro, saltò a sedere sul muretto di mattoni che delimitava l'argine. Lui fece altrettanto e se ne rimase in silenzio, facendo dondolare i piedi nel vuoto. «Scusa» disse lei. «È solo che non volevo contaminarvi con la mia tristezza.»
«A cosa servono gli amici, se non per condividere la tristezza?»
Un sorriso si allargò sul volto di Fosca.
In angustiis amici apparent, diceva Petronio, ovvero "Nelle avversità si riconoscono gli amici". Scoprì che l'immagine di lei e Filippo, immersi in un bosco di rovi dalle spine affilate, che si battevano con spade di legno per farsi strada, non le dispiacesse poi così tanto.
«Forse tu non lo sai, ma sono convinto che Stella ti odiasse perché ti preferivamo a lei.» Filippo schiacciò il mozzicone contro il palo del lampione e lo gettò nel cestino in ghisa con una schicchera. «Magari pensa che non lo vedessimo, il fatto che provasse in tutti i modi a conquistarci.»
«E perché non ci siete m-mai cascati?»
«Per come ti trattava.» Lui la guardò. «Non posso fidarmi di una così.»
Fosca rimase in silenzio a lungo, ascoltando il rombo delle rapide. Poi disse: «Sai, non so se sono una bella persona come dici tu. Mi hanno detto che ho...» Esitò. «Che ho una cattiveria dentro che lotta per uscire.»
Filippo rise. «Chi lo pensa non ti conosce davvero.»
O forse la conosceva meglio di chiunque altro. Per la prima volta, avvertì il seme del dubbio che le si piantava nella pancia. Era davvero così? Spettro poteva insinuarsi tra i suoi segreti più di un ragazzo con cui era cresciuta o della sua famiglia?
«Tu ci credi» disse Filippo, come se avesse appena scoperto una grande verità.
Fosca non rispose.
«Non penso che dovresti frequentare persone che ti fanno sentire in questo modo.»
«Anche se ho l'impressione di essere più viva di quanto non sia stata mai?» Stavolta, lo guardò dritto negli occhi. La disperazione che le ribolliva nel ventre, il mostro che dormiva nascosto dentro di lei, doveva essere evidente.
Filippo scelse le parole con cura: «Tu sei fragile, adesso. Lo sei ancora. E magari mi sbaglio, ma... fai attenzione a chi si approfitta di questo».
In altre circostanze sapeva che avrebbe ignorato quel consiglio, ma lì, sotto le stelle della sua casa, lontana dall'incantesimo che Spettro aveva gettato su di lei, non poté fare altro che raccoglierlo. Fosca rimuginò.
Allora perché, lei che odiava essere toccata, voleva baciarlo ancora? Che la mordesse e che le facesse di nuovo male?
Filippo si voltò di scatto verso l'altro capo del fiume con gli occhi socchiusi. Una luce sfarfallò tra le fronde, scomparendo subito dopo. «Rientriamo» disse, «inizio a sentire freddo».
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