Un anno rigido
"Molte sono le cose mirabili,
ma nessuna è più mirabile dell'uomo."
(Sofocle, "Antigone" - trad. R. Cantarella)
Il sole stava per entrare in Ariete. La pagina di marzo del calendario si presentava come un fitto cimitero di croci nere fino alla casellina del 20, che era stata invece cerchiata più e più volte con un pennarello rosso. L'orologio digitale appeso alla parete segnava le 23:34. Mancava tanto così perché scattasse la mezzanotte e Inverno potesse dirsi finalmente in vacanza.
Per festeggiare, aveva invitato gli altri tre nel suo più bell'appartamento con vista. Di solito non sarebbe toccato a lui organizzare, ma quell'anno si sentiva talmente di buon umore che non gliene era importato molto, delle tradizioni. E poi, quell'appartamento era il suo preferito: moderno, sui toni del nero e del bianco, con cucina e soggiorno open space.
Aveva spinto la poltrona di pelle di fronte al camino, e ora sedeva con le lunghe gambe accavallate al centro del soggiorno. Entrambi i gomiti erano affondati nei braccioli. Una mano stringeva fra due dita un sigaro dalla punta rovente, l'altra faceva compiere piccoli movimenti circolari a un bicchiere di gin mezzo pieno. Le vetrate dell'appartamento si aprivano su un cielo limpido. Dabbasso, le luci della città sfarfallavano come i tanti riflessi di un mare in tempesta.
Avrebbe potuto essere una bella serata ma, a parte il piacere dell'attesa, l'atmosfera non faceva che languire. I suoi ospiti sedevano sparpagliati, ognuno, all'apparenza, perso nei propri pensieri. Il vuoto fra loro sembrava incolmabile, dilatava lo spazio e faceva apparire la casa più silenziosa e più grande di quanto in realtà non fosse. Senza accorgersene, Inverno cominciò a disegnare con la mano cerchi più ampi.
«Quello non è vino», lo sfotté Autunno dal tavolo della cucina. Teneva un braccio mollemente abbandonato sullo schienale della sedia e guardava il soggiorno senza voltarsi, sbirciando soltanto al di sopra della propria spalla. Con ogni probabilità, sotto la folta barba da montanaro, nascondeva un sorriso sghembo. «Non serve a nulla agitarlo così.» Senza uscire dalla sua posa statuaria, Inverno si allungò appena verso il tavolino accanto a sé e diede un colpetto al suo sigaro. Il posacenere di vetro ingoiò tutto senza fiatare.
«È il vizio del degustatore», rispose con lo stesso tono, «Se tu mi avessi portato una delle tue bottiglie, non saremmo qui a discuterne.»
«Touché.»
Non dissero nient'altro per diversi minuti, fino a che Estate non scattò in piedi dallo sgabello del pianoforte, sbuffando a pieni polmoni.
«Ecco quello che succede a dare una festa in questo periodo dell'anno», sbottò. Indossava un vestito corto fino alle ginocchia, ricoperto di paillettes color rosso sangue. Ogni volta che si agitava per sottolineare qualcosa, l'abito catturava i riflessi del camino acceso e sembrava accendersi anch'esso come la testa di un fiammifero.
Inverno buttò fuori una boccata di fumo prima di volgersi nella sua direzione. «Cara, ti pregherei di non urlare. Nel resto del palazzo ci sarà sicuramente chi a quest'ora starà cercando di dormire.»
«Sì, Estate», soggiunse Autunno, «Abbassa il volume o sveglierai la bella addormentata.» Inverno, che dava le spalle al resto del soggiorno, inizialmente non comprese a che cosa l'amico si stesse riferendo. Poi, voltandosi, si accorse che Primavera era stesa sul divano, intenta a sonnecchiare da ormai chissà quanto tempo. Neppure Estate sembrava essersene accorta prima, perché a quella vista montò su tutte le furie e ricominciò a sbraitare. «Se qualcuno si addormentasse a una delle mie feste per ragioni diverse da una sbronza, ci perderei la faccia!», soffiò, rivolgendosi a Inverno.
L'altro fece spallucce. «Gli animali vanno in letargo durante la mia stagione», fu la sua risposta. Al che Estate fu percorsa dall'ennesimo fremito di rabbia. «Io non dovrei nemmeno trovarmi qui adesso! Dovrei essere in un altro emisfero, a godermi il sole, il mare e il latte di cocco!»
L'unica sedia occupata della cucina sibilò contro il pavimento. Un secondo più tardi Autunno era in piedi, in mano il suo aperitivo e in volto la barba stropicciata da uno sbadiglio annoiato. Con un ampio movimento del braccio indicò la porta dell'appartamento e, fatto un cenno col bicchiere, disse semplicemente: «Allora va'.»
Estate, oltraggiata, non se lo fece ripetere due volte. Attraversò il soggiorno in una manciata di falcate - tutte scandite dal ticchettio dei suoi tacchi - fino a raggiungere l'ingresso. Strappò il suo cappotto dall'appendiabiti con un gesto nervoso e uscì sul pianerottolo senza salutare. La porta si richiuse alle sue spalle con uno schianto secco.
«Siano benedette le mezze stagioni», sospirò Inverno, alzandosi e facendo il giro della poltrona.
«Io credo che fosse lei a rendere l'atmosfera pesante», commentò Autunno, «Sai, come l'afa ad agosto.»
Intanto, sul divano, Primavera si stava svegliando. Tentava anche di dare un'occhiata attorno, ma i lunghi capelli biondi le ricadevano scompostamente sul viso, rendendole difficoltosa l'impresa.
«Buongiorno, principessa», cantò Inverno, adagiandosi accanto a lei su un bracciolo. Autunno prese posto all'altro capo del divano e salutò la ragazza con un occhiolino amichevole. «Fatto bei sogni?», le chiese.
«Perdonatemi», biascicò Primavera, lisciandosi addosso la camicia stropicciata, «È già arrivato il mio turno?»
Gli altri due scossero la testa. «Non abbiamo nemmeno cominciato», la rassicurò Autunno.
«E dov'è Estate?»
«Ah, non preoccuparti per lei», Autunno scosse il capo, «È la solita testa calda.»
«Una storia in meno non sarà la fine del mondo», aggiunse Inverno con noncuranza. Ma all'improvviso Primavera aveva assunto un'espressione contrita. La sua fronte era un groviglio di incisioni difficili da interpretare e il labbro inferiore era leggermente proteso in avanti.
«Qualcosa non va?», domandò Inverno, chinandosi su di lei.
«È colpa mia», sussurrò mestamente Primavera, «Ho rovinato la festa a tutti.»
«Non è affatto vero», replicò Autunno. Poggiò il bicchiere vuoto sul tavolo di fronte a loro e riprese: «Domani è il tuo equinozio, sarà una giornataccia. Animali da svegliare, fiori da far sbocciare, alberi da vestire, fiumi da scongelare... È normale che tu voglia arrivarci al massimo della forma.»
Tuttavia le sue parole non parvero sortire alcun effetto.
«Non è questo», insisté Primavera, affondando il volto nelle mani con aria stanca, «Non ci dormo la notte... quel ragazzo... tutte quelle domande... io non pensavo che potesse essere così complicato per loro... »
Autunno e Inverno si scambiarono un'occhiata confusa. Il primo continuava a torcersi la barba, preoccupato. «Credo che questa volta potremmo fare uno strappo alla regola, amico mio, tu non pensi?»
Inverno posò una delle sue grosse mani candide sulla spalla esile di Primavera. «Sono d'accordo. Stavolta comincerai tu, principessa, ti cedo il mio turno. Sono sicuro che la tua storia sia di gran lunga migliore della mia.»
Primavera alzò lo sguardo su di lui, la voce rotta dall'incertezza. «Ma... ma io non volevo parlarvi di questo. Avevo preparato un'altra storia, questo non è nulla, davvero.»
Inverno ricambiò con aria benevola. «Le storie migliori sono quelle che chiedono di essere raccontate.»
Autunno risollevò il bicchiere in direzione dell'amico, in una specie di brindisi silenzioso. Primavera, dal canto suo, parve rifletterci un attimo e, benché non sembrasse ancora del tutto convinta, tirò su col naso. Poi cominciò.
~
Le stagioni sono persone come tutte le altre, ma in particolare sono come i gelatai, i bagnini e Babbo Natale: lavorano solo per un certo periodo dell'anno e nessuno ha idea di che cosa facciano nel resto del tempo. Forse conducono una seconda vita e si impegnano in un secondo lavoro, forse rimangono in panciolle fino al momento di rimettersi all'opera, ma spesso, qualunque cosa li tenga occupati, questa è comunque indizio della loro vera natura. Probabilmente Babbo Natale fa il bidello in una scuola primaria, e i gelatai gestiscono il reparto surgelati del supermercato. Primavera possiede un negozio di utensili per il giardinaggio. Tuttavia, quando non esercita l'attività -come ogni domenica, per esempio- sta nel suo grazioso monolocale a prendersi cura delle pianticelle abbarbicate sul balcone.
Quel giorno stava dando l'acqua alle peonie e il pomeriggio brillava d'azzurro su tutte le sue fioriere, quando qualcosa, apparentemente caduto dal cielo, le passò sfrecciando a un palmo dal naso. Continuò a seguirne la traiettoria finché non vide la cosa cadere in mezzo alle gardenie, allora posò a terra l'annaffiatoio e si chinò per guardare meglio. Coperto da una spruzzata di granelli di terriccio umido, fra i boccioli ancora verdi, c'era un accendino. Era uno zippo. Primavera lo raccolse e vi sfregò il pollice, per restituire al metallo la sua lucentezza.
«Mi scusi!» Primavera non capì subito da dove provenisse quella voce. Si sporse dal balcone, fece un giro su se stessa. «Quassù!» Sollevò il capo, e a quel punto vide due gambe ciondolare dal tetto e una testa di ragazzo spuntarvi in mezzo. «Mi scusi», ripeté, «Stavo cercando di accendermi una sigaretta e mi è scivolato.»
«Che ci fai lassù in alto?», replicò Primavera, incuriosita.
«Ammazzo il tempo», rispose il ragazzo, «Prima che lui ammazzi me.»
Primavera, ancora interdetta, spostò lo sguardo dal ragazzo all'accendino, e poi di nuovo dall'accendino al ragazzo. «Aspetta», si risolse infine, «Vengo a restituirtelo.»
«Grazie!»
Un minuto dopo, Primavera aveva raggiunto il ragazzo sulla terrazza. Sedeva tranquillamente sul parapetto, continuando a dondolare i piedi. Aveva un viso dolce, le guance accese da una spruzzata di acne e un bel nido di capelli crespi. Gli occhi verdi esploravano i tetti degli altri condomini, e il cielo un po' più in là.
«La ringrazio», ribadì, mentre Primavera gli porgeva il suo accendino. Lo prese, afferrò con due dita la sigaretta - era già a metà - che aveva infilato dietro l'orecchio e, fatto scattare il coperchio dello zippo con un gesto sicuro del pollice, se la accese. «Sono belli i suoi fiori», disse. Le parole gli uscivano dalla bocca accompagnate da grigie volute di fumo. «Mi piacciono molto. E con questa luce risaltano ancora di più.»
Primavera rimase in silenzio.
«È quel tipo di luce che ti fa distinguere meglio i contorni delle cose», continuò il ragazzo, masticando la sigaretta a un angolo delle labbra, «E che tira fuori tutta l'anima dei colori. L'azzurro diventa improvvisamente più azzurro, il giallo più giallo. È quel tipo di luce che ti fa sentire come se stessi vedendo il mondo davvero per la prima volta.»
«Hai detto che stai aspettando qualcosa», disse Primavera.
«In realtà non l'ho detto», sorrise il ragazzo, «Ma suppongo si capisca.»
«Cos'è che stai aspettando?», insisté Primavera.
Il ragazzo riprese in mano la sigaretta ed espirò. «Vuoi?»
Primavera scosse la testa. «Come ti chiami?», gli domandò, mentre l'altro faceva cadere la cenere con una schicchera.
Il ragazzo le porse la mano libera. «Ettore.»
«Ettore», ripeté Primavera, ricambiando la stretta.
«È il mio nome», annuì il ragazzo, «E lei è... ?»
«Gli amici mi chiamano Vera.»
«Questo significa che io sono un amico?»
Primavera si strinse nelle spalle. «Non ho nulla in contrario.»
Ettore sorrise. «In tal caso», replicò, «È un peccato averti conosciuta soltanto oggi, Vera.» Primavera seguì la sua mano mentre schiacciava quello che era rimasto della sigaretta contro il parapetto. Un rivolo di fumo continuò ad alzarsi dal mozzicone anche dopo che si fu spento. «Perché dici questo?»
Ettore allungò le braccia sopra la testa e distese la schiena. Primavera lo osservò stirarsi e ripensò a tutti quei gatti randagi che ogni tanto vedeva sdraiarsi sui marciapiedi arroventati dal sole. Quando si sentì soddisfatto, ripose le mani sul parapetto e gettò la testa all'indietro. «Perché questo è il giorno in cui io morirò.»
Primavera ebbe un sussulto. Erano diversi gli aspetti della vita degli uomini che non conosceva per nulla, o che conosceva solo appena, ma quella era una vera sorpresa. Si trattava di un ambito a lei totalmente sconosciuto. Quello, al massimo, poteva essere un campo noto ad Autunno, o ancora di più a Inverno. In fondo, loro le foglie le staccavano, lei le faceva ricrescere; loro gettavano gli animali nel sonno, lei li risvegliava; loro succhiavano via l'azzurro dal cielo, lei gli restituiva tutto il colore.
«E in che modo?», chiese, una volta che si fu riscossa dallo stupore.
Ettore indicò di sotto con un cenno del capo. «Basta una spinta.»
Primavera prese a scuotere la testa con animo concitato. «Ed è stata una tua decisione?» Ettore annuì. «Sicuro.» Affondò la mano nella tasca della giacca e ne trasse un foglio di carta stropicciato, che le porse. «È stata una scelta ponderata, del tutto razionale. Ho anche fatto una lista dei pro e dei contro, se ti interessa.»
Primavera prese il foglio, tuttavia era troppo agitata per mettersi a leggere. «E quando succederà?»
Ettore scosse il braccio e la manica della giacca si sollevò un poco. Diede un'occhiata all'orologio di cuoio che portava al polso e rispose: «Dovrebbe arrivare a momenti.» Primavera corrugò la fronte. «Chi?»
«La Morte.»
«Hai parlato con la Morte?»
«Non di persona», precisò Ettore, «Per mail.»
«E come?»
Ettore fece spallucce. «Su Internet si trova di tutto.»
Primavera non aveva mai parlato con la Morte, neppure per mail. Sapeva che Autunno e Inverno intrattenevano con lei rapporti di lavoro, ma nient'altro. Ci aveva sempre avuto a che fare soltanto indirettamente, tutte le volte che aveva dovuto raccoglierne gli effetti. Perché erano più le occasioni in cui la Morte sfiorava le cose, lasciandovi impresse ferite profonde, di quelle in cui la sua impronta risultava indelebile. Primavera percepiva la sua presenza, come una sorta di arto fantasma, ogni qual volta doveva riportare il calore su una landa ghiacciata, o quando le toccava dissipare la nebbia per rendere nuovamente vita e colore a ciò che la circondava. Ed era in questi momenti che sentiva il fiato di lei sul collo, che la avvertiva ancora più vicina di quanto in realtà non fosse. Era al confine tra la Vita e la Morte che, come il nero in un negativo, la Morte spiccava luminosa al di sopra di tutto il resto.
«Sei così giovane», mormorò Primavera, sentendosi invadere tutt'a un tratto da un sentimento sconosciuto, quasi fastidioso.
«Diciannove anni possono essere molto lunghi, e renderti molto stanco», disse Ettore, mentre la sua fronte si corrucciava e le sopracciglia si avvicinavano. Aveva gli occhi ridotti a due strette fessure smeraldine, quasi si stesse sforzando di visualizzare qualcosa, davanti a sé, di cui era difficile riconoscere le forme. «È come se tu stessi correndo da tutta la vita e non potessi fermarti, mai, neppure per un istante. La milza lancia fitte atroci, i muscoli sono una poltiglia di fibre e sangue, le ossa solo schegge e polvere e tu sei lì che devi spremere i polmoni fino all'ultima, infinitesimale briciola di fiato, e se è finito devi trovarne altro e così, piano piano, cominci a consumarti, a fagocitarti, come se un grosso buco nero ti si stesse aprendo al centro dello stomaco.»
Primavera aveva seguito con cura ogni più piccolo spasimo del suo gesticolare, e adesso aveva il respiro affannato, proprio come lui. «Da quanto tempo ti senti così?»
Ettore sollevò appena una spalla, in un gesto a metà tra il dubbio e l'indifferenza. «Da qualche anno, credo. In seconda superiore ho cominciato a sentire questa cosa, questo peso sul petto, che però in realtà stava dentro il petto, e non era molto grande, avrà avuto le dimensioni di un uovo di merlo. Sono carine le uova di merlo, quasi tutte hanno un bell'azzurro turchino. Ma ogni tanto si ingrandiva, sai, e premeva forte, con la prestanza di un uovo di struzzo, e le uova di struzzo non sono mica da poco. Ci puoi fare dodici frittate con un unico uovo di struzzo, lo sapevi? Ne so parecchio sugli animali, mi piacciono molto sin da quando ero piccolo. Da bambino volevo fare il veterinario, ma poi qualcosa - o più cose, non ne sono certo - mi hanno tolto tutta la passione, tutta la voglia. Tu stai percorrendo una strada illuminata, di sera, e sai perfettamente dove vuoi andare, ma all'improvviso i lampioni si spengono, puff!, e tu rimani con un pugno di mosche nell'oscurità più totale. Ecco, la sensazione è più o meno la stessa.»
Nel tempo in cui lo ascoltava, Primavera aveva scorso alcuni punti della lista di Ettore. «Chi è Diana?» Aveva gli occhi puntati sul viso del ragazzo, mentre gli poneva la domanda, per questo poté vedere come ogni cosa, in lui, era mutata in una frazione di secondo.
«Un'amica», rispose sorridendo, «Un'amica molto speciale. Così speciale che è anche un po' merito suo se mi trovo qui.»
«Ma è nella colonna dei "contro"», obiettò Primavera.
«Perché so che ne soffrirà, e io non vorrei mai questo per lei. Ma sono sempre stato un egoista», Ettore sospirò, «Trova qualcuno che ti ami al posto tuo ed è fatta, dimentichi tutto, tutto quello che ti faceva stare bene prima di lei, dimentichi come avevi imparato ad accettarti, a sopportare la tua compagnia. La solitudine non è più un'opzione. Cominci ad avere il desiderio smodato di circondarti di persone, persone ovunque, persone così chiassose che quello che pensi tu non è più così importante, persone da amare. E allora l'amore stesso diventa l'unica cosa che ti sembra di saper fare bene, e non vivi per altro, senti di poter fare solo quello, e ti chiedi cosa combineresti, adesso, se tornassi di nuovo solo. Una volta che hai conosciuto l'amore, non c'è più niente da fare. D'accordo, mettiamo che divento adulto, un adulto di successo, che ha il lavoro più bello del mondo, quello che ha sempre desiderato fare. Torno a casa, mi pulisco le scarpe sullo zerbino, entro e nessuno mi accoglie. Non c'è nessun altro, solo io e forse il mio cane. Mi faccio la doccia, poi vado in cucina e mi preparo la cena, mi siedo al tavolo e mangio da solo, poi guardo un po' di televisione sul divano e, infine, me ne vado a letto. E il mattino dopo tutto daccapo. Nessuno con cui condividere le ore, nessuno a cui dare tutto quello che ho da dare. Ogni cosa che ho è per me e unicamente per me. Ce la farei?, mi chiedo, ce la farei a vivere così? A vivere per me stesso?» Ettore scosse la testa.
Primavera non aveva la benché minima idea di che cosa dire. Rimirava il profilo di quel ragazzo che aveva appena conosciuto e si rendeva conto di capire solo una minuscola, insignificante parte di tutto quello che aveva dentro. E il peggio, si diceva, stava nel fatto che ne era quasi felice. Quasi sollevata. Tremava dalla paura già solo mentre lo ascoltava. Ma poi il respiro ansante di Ettore le penetrava le orecchie, le forava i timpani e dai timpani trovava la strada per il cuore.
«Non riesco ad accettarlo», riprese Ettore con un sospiro, «Non riesco ad accettare che io sia semplicemente così, che questa sia la mia natura. Mi fa paura il fatto che io non basti a me stesso. Mi dà fastidio che ci sia della gente, là fuori, che invece ce la fa benissimo, gente che ha un po' d'amor proprio, che non litiga con se stessa, che a volte ha bisogno di rimanere sola e lo fa, lo fa e basta, senza alcun problema. Forse mi basterebbe essere solo un po' più intelligente, leggere un po' di più, rimuginare un po' di meno. Ma l'intelligenza è una cosa che hai dentro o che puoi imparare? Ci sono tante cose che mi piace imparare, cose che per un momento mi distolgono dal male, cose per cui sento che vivrei. Ma poi arriva il giorno in cui mi sembra che nemmeno queste cose facciano per me, che non ci sia nulla che mi faccia sentire vivo, nulla che possa rendere il mio futuro appetibile. E forse è la cosa più difficile. Non vedere niente nel proprio futuro. Solo un grande vetro opaco. E se anche passasse, sono troppe cose tutte insieme.»
Primavera stava per aprire bocca, eccola, forse ce l'aveva, forse era quella la parola giusta da dire, quando qualcuno, giù in strada, premette con vigore sul clacson della propria auto. «Oh, dev'essere lei!», esclamò Ettore, di nuovo raggiante, dando un'ultima occhiata al quadrante del suo orologio. Primavera lo osservò senza fiatare mentre raccoglieva le ginocchia al petto, puntava bene le suole delle scarpe e con una poderosa spinta delle braccia balzava in piedi sul parapetto. Prima di fare qualsiasi altra cosa, si voltò verso di lei e sorridendo la salutò così: «Sono felice che tu sia rimasta con me oggi, Vera. Mi sembri una buona ascoltatrice, e non è una cosa da sottovalutare. Spero di non averti annoiata. I tuoi fiori mi piacciono davvero moltissimo.»
E poi, un attimo dopo, il marciapiede era un'aiuola di papaveri rossi.
~
La mezzanotte era scoccata ormai da un pezzo. Qualcuno avrebbe dovuto aggiungere una "x" al calendario, stappare una bottiglia di champagne e recitare un discorso di incoraggiamento per la stagione a venire. Ma Inverno fissava il fondo vuoto dell'ennesimo bicchiere, Autunno si massaggiava le tempie con aria esausta e Primavera taceva. Per svariati minuti, nulla ruppe la quiete. Il silenzio era così limpido che potevano udire le corde del pianoforte allentarsi e il legno gonfiarsi per l'umidità. Poi il neonato al piano di sopra proruppe in pianto e passi concitati tamburellarono il soffitto come una marcia militare. Fu allora che Inverno si alzò, si diresse verso la vetrina accanto al camino, pescò un altro bicchiere e lo riempì di un denso liquido color malto.
«Riposati, principessa», disse a Primavera, porgendole il liquore, «Vai a casa e riprenditi. Non sono cose che fanno per noi, quelle che hai dovuto affrontare. Concediti qualche altra settimana di vacanza. Per ora posso ancora pensarci io.»
Primavera annuì senza aggiungere altro. Inverno gettò un'occhiata al di là delle vetrate e sospirò. «Sarà un anno un po' più rigido del solito.»
«Sopravvivranno», biascicò Autunno, staccandosi dallo schienale del divano, «Si lamenteranno un po' del tempo, diranno che non si registravano temperature così basse da almeno un secolo e poi daranno la colpa al riscaldamento globale.»
«Ma quello esiste per davvero», commentò Inverno.
«Sicuro, non ho mai detto il contrario.» Autunno impiegò qualche secondo per sgranchirsi la schiena, poi si strofinò gli occhi con forza fino a farseli lacrimare, allora sbatté velocemente le palpebre per lenire il dolore. «Bene bene», esclamò infine, «Chi è il prossimo?»
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