Lo spiraglio

"Dio mio! Un minuto intero di beatitudine! È forse poco, per colmare tutta la vita di un uomo?"

(F. Dostoevskij, "Le notti bianche")

Se il cielo fosse stato un'unica immensa bocca, la bocca sanguigna di una balena delle favole, sul punto di inghiottire il mondo, ecco che dalle sue profondità sarebbe sgorgato fuori il canto delle cicale, in un solo ossessivo lamento di miseria, e sarebbe stato l'ultimo squillo di tromba con cui l'umanità avrebbe presentito la propria fine, e la fine avrebbe avuto il colore rosso dei papaveri, delle volpi e delle ciliegie.

Nel piccolo vano d'ingresso del condominio, in cui il portone se ne stava incastrato con le spalle strette, lo schiamazzo degli insetti rimbalzava frenetico da parete a parete, amplificandosi. Più il capo era accostato all'uscio, più le voci si intensificavano e si amalgamavano in un unico rombo di onda che si srotola.

Mentre tentava di far girare la chiave nella vecchia toppa malconcia del portone, Alba aveva l'impressione che le cicale le stessero grattando le orecchie dall'interno del cranio. Non riusciva a sentire nient'altro, nemmeno i suoi stessi pensieri. Forse era questo il vero motivo per cui indugiava tanto sulla serratura.

Il tramonto riflesso nel vetro era violaceo e fumoso.

Alla fine, qualcuna tra la serratura e Alba cedette per prima, e le cicale rimasero chiuse fuori.

La porta dell'ascensore era aperta. Sembrava una mano distesa, fotografata nell'atto di un saluto. Alba non rispose alla gentilezza e cominciò a salire le scale. Gli ascensori erano per i pigri e per chi andava di fretta, e lei non era né pigra (non per quel tipo di cose, almeno), né aveva alcuna fretta di arrivare a casa. Non aveva mai fretta di arrivare da nessuna parte, in realtà.

Quando andava ancora al liceo, un piccolo liceo classico che in cent'anni di esistenza aveva acquisito la propria meritevolissima - e altrettanto piccola - fama, l'autobus la congedava ogni mattina sul limitare del centro. Il centro storico della città in cui Alba cresceva era un esagono disegnato con precisione geometrica, lascito di un antico presidio militare romano, e la fermata dell'autobus e la scuola sorgevano su due lati pressoché opposti. Perciò, per cinque anni, alle sette e trentacinque (minuto più, minuto meno, a seconda del meteo e del traffico), Alba si avviava dalla fermata verso il corso, a volte con le cuffie nelle orecchie, altre volte nelle orecchie solo l'adagio della città che si sgranchiva le membra. Camminava sempre lungo lo stesso lato, cambiava solo quando sentiva che l'abitudine l'avrebbe uccisa. E proprio per questo lo faceva così raramente: per non stancarsene mai. D'altra parte, le piaceva riuscire a riconoscere i posti che s'inseguivano in direzione del suo liceo; non tanto, però, ripetendoseli a memoria, ma memorizzandone gli odori: l'attimo stesso in cui scorgeva la passamaneria del forno, già stava calcolando l'esatto punto in cui, inspirando a pieni polmoni, avrebbe potuto saggiare l'aroma del pane appena sfornato al massimo della sua intensità, come se le riempisse la pancia. A volte inspirava quasi con ansia, col timore che quello sarebbe stato il giorno in cui non avrebbe sentito nulla, e il mattino sarebbe stato un po' più duro da mandare giù.

Oltre a respirare e ad ascoltare, Alba doveva anche guardare, possibilmente ogni cosa. Le persone, le chiese, i piccioni, il cielo. Talvolta, quand'era riuscita a salire sull'autobus delle sei e cinquanta, arrivava talmente presto da essere lì nel preciso istante in cui l'illuminazione pubblica si spegneva. Ed era come un sogno, o come un segreto fra due amanti. Il problema, che per Alba problema non era affatto, è che non avrebbe potuto sentire, né ascoltare, né tanto meno vedere alcunché, se avesse camminato con fretta. E ne vedeva tanti, diversi da lei, mentre camminava. Gente della sua stessa scuola. Che poi ritrovava dodici minuti dopo nel cortile d'ingresso, ciascuno fermo, in piedi, ad aspettare. Per che cosa avevano corso, allora? Alba non lo capiva. Correre, solo per fermarsi di nuovo. Udiva i loro passi concitati alle sue spalle, cominciava a vederli avvicinarsi con la coda dell'occhio, prima che le passassero accanto, per poi superarla. Quasi le piaceva il pensiero di poter essere d'intralcio. L'ultimo anno, era arrivata al punto di non accelerare il passo neppure quando si accorgeva di essere in ritardo (non per colpa sua, erano sempre i mezzi pubblici.) Succedeva talmente di rado: che male c'era? Nessuno l'avrebbe uccisa per questo, perché capita a tutti di arrivare in ritardo, persino ai professori. Perdersi tutte quelle piccole cose, tutta quella bellezza ancora intorpidita dalla notte, come la principessa addormentata di qualche fiaba: per quale ragione?

E, anche adesso, Alba saliva lentamente, il passo pesante, saggiando ogni gradino con pienezza, come se poi avesse dovuto spingerlo d'un colpo via dietro di sé. La irritava il suono dello zaino che picchiettava contro la sua schiena; era, al contempo, regolare e difforme, perché scandito dal ritmo dei suoi passi, e perché frammisto confusamente al fruscio della maglietta. Turbava il silenzio cavo che riempiva la tromba delle scale, ricordandole - come un fastidioso promemoria non richiesto - che neppure il silenzio più completo sarebbe davvero stato tale finché ci fosse stata anche lei. C'erano un sacco di piccole cose che non avrebbe mai potuto fare e sulle quali talvolta le capitava di riflettere, con una meraviglia che non accennava a invecchiare: non avrebbe mai potuto conoscere il vero silenzio, né sapere cosa fosse il nulla, né guardare il suo volto faccia a faccia fuori da uno specchio.

Il grande lucernario in cima al condominio era sempre più vicino, e le scale sempre più illuminate d'arancione.

Ripensò a tutte queste cose anche in quel momento, e quando arrivò sul suo pianerottolo scoprì di essere vagamente intristita.

Non accadeva sempre, ma spesso, mentre muoveva i primi passi dentro casa, Alba rifletteva istantaneamente sul fatto che tutti noi finiamo per ignorare quale sia l'odore della nostra. I suoi amici, appena l'avevano conosciuta, non facevano altro che dirle che la sua odorava di fumo. Ora ovviamente non lo dicevano più, perché non ce n'era bisogno, eppure Alba, anche a distanza di anni, non poteva toglierselo dalla testa. All'inizio aveva pensato che fosse per via del camino; magari la canna fumaria era leggermente tappata e per questo l'effluvio ristagnava. Col tempo, invece, aveva cominciato a ipotizzare fosse perché i suoi genitori non fumavano mai sul balcone o alla finestra, ma accanto al caminetto aperto, di modo che il fumo delle sigarette venisse naturalmente risucchiato su per la canna fumaria. Magari non funzionava. O magari era il fatto che dopo lasciavano entrambi la maggior parte dei mozziconi nel posacenere sulla mensola. Qualche volta si domandava se quell'odore nuocesse alla loro salute, se avesse mai intaccato in qualche modo quella di Argo o se per quest'ultimo, avendo sempre avuto un naso più fine, fosse stato difficile da sopportare. Scosse forte la testa, come se stesse ascoltando una conversazione spiacevole.

L'ingresso era più buio delle scale. Gli scuri erano stati accostati durante il giorno per non far passare il sole e le tende bianche erano tirate: entrambi maldestri tentativi di mantenere il soggiorno più fresco. Quella penombra aveva qualcosa di confortevole e di funereo; Alba sentiva che avrebbe potuto nascondercisi comodamente come un topo nella propria tana, ma che più l'avesse fatto e sempre meno voglia avrebbe avuto di uscire di nuovo alla luce. Era asfissiante, ma lo era come potevano esserlo, per un bambino pauroso, le lenzuola in una notte d'agosto.

Lasciò lo zaino a sinistra della porta, un gesto sempre uguale da quella che sembrava una vita intera. Lì c'era una poltrona, che teneva le braccia e la bocca spalancate sempre allo stesso modo, con lo stesso triste entusiasmo, ma che sarebbe stata inservibile se lei non le avesse dato ogni volta il suo zaino da inghiottire. Non aveva mai domandato ai suoi genitori con quale cognizione avessero deciso che il fianco della porta fosse il luogo adatto a una poltrona, ma in fondo di quella casa non le tornava quasi niente: era troppo piccola, troppo piena, troppo vecchia, troppo moderna.

Continuò a tenere il lampadario spento. Si sfilò i bracciali e gli anelli sul tavolino del soggiorno. Non li posava mai con delicatezza, ma lasciava che cadessero tintinnando sul ripiano di legno. Alcuni rimbalzavano, altri danzavano su se stessi. Durava giusto una manciata di secondi. Era anche quello un rito che si ripeteva a ogni suo ritorno a casa. Le piaceva la sensazione dell'aria a contatto con le porzioni di pelle finalmente libera, su cui restava solo quel verdastro alone circolare frutto dell'ossidazione del metallo. Sapeva che si trattava di una cosa quasi ridicola, ma quando arrivava a sera le sembrava di sentire le sue mani accaldate e pesanti, come quelle di due vecchi minatori affaticati. I minatori si levavano il caschetto dalla testa e lei si toglieva gli anelli, e all'improvviso era come se tutte le sue dita fossero più leggere. Come se stessero riprendendo fiato. E anche al suo corpo, al suo corpo tutto intero, con soltanto quel minuscolo gesto, pareva di essere rinato per il tempo di un respiro. Ad Alba piacevano quegli anelli: la aiutavano a dare di sé l'immagine che lei desiderava mostrare, un'immagine che, in un certo senso, avrebbe anche desiderato possedere, incarnare. E ci si riconosceva, ovviamente, o almeno: ci si trovava bene. Non era una costrizione. Però era pur sempre un'immagine. Quanta fatica fa il chiodo a reggere il peso del quadro, giorno dopo giorno? E cosa resta del chiodo, quando smette di fare il chiodo? Ecco, ecco come Alba si concepiva dentro casa, senza bracciali, senza anelli, a volte persino senza quegli orecchini che non si toglieva quasi mai: il chiodo quando non fa il chiodo, quando è un nudo pezzo di ferro, solo, in mezzo alla parete spoglia. Chi era Alba, quando il sole tramontava, la sera?

Senza rendersene conto, stava tenendo lo sguardo basso, inclinato verso l'angolo opposto della stanza. Una parte di lei - stupida stupida stupida - si aspettava che Argo corresse a salutarla. Sempre quella parte di lei prima si chiedeva perché non arrivasse, poi si rispondeva che era ovvio non lo facesse, perché Argo era completamente sordo già da qualche tempo e Alba doveva semplicemente attendere che il proprio odore impregnasse l'aria della casa al di là del fumo. Ma era una risposta provvisoria, una risposta vecchia. Quella parte di Alba ci credeva per qualche secondo, prima di ripiegarsi in se stessa.

La cucina era un rettangolo dal perimetro luminoso, che brillava come la bocca serrata di un drago dalle fauci incandescenti. Più Alba guardava in quella direzione, più il contorno ambrato della porta chiusa sembrava assottigliarsi, lasciando i suoi occhi annegare in una pozza di oscurità. Sentiva il chiacchiericcio ovattato della televisione e le voci dei suoi genitori levarsi ogni tanto. Non davano l'aria di essere particolarmente allegre - sapeva che raramente lo erano entrambe in maniera sincera -, ma suonavano tranquille, pacate. Il ritmo della conversazione era dilatato, come rallentato da un altro centro di gravità. Si sentì un'estranea. Era ancora malinconica per i pensieri avuti lungo le scale (se avesse preso l'ascensore, le venne in mente, forse ci sarebbe stato troppo poco tempo per avvilirsi) e questo le avrebbe impedito di fare il suo ingresso sorridendo. Non era in grado di fingere, lo sapeva bene. Le era impossibile mentire a se stessa entro le mura di casa, perché la concepiva come l'unico luogo in cui poteva essere libera, in cui poteva concedersi il permesso di portare addosso quello che sentiva, senza doversi preoccupare di proteggere gli altri da quanto avrebbero potuto vedere. Era più forte di lei. Sapeva, in cuor suo, che anche i suoi genitori meritavano quella stessa premura, che meritavano un po' più di sole da parte sua, ma Alba proprio non riusciva a imporselo. Doveva pur tirare il fiato da qualche parte. Perciò, se fosse entrata in cucina, anche solo per il piacere di dare una carezza ad Argo (che sicuramente era lì con loro, a elemosinare del cibo, e per questo non era ancora venuto a salutarla), avrebbe fatto solo danni. I suoi genitori non sarebbero riusciti a leggere l'espressione sul suo volto, le avrebbero rivolto la parola con tepore, guadagnandone solo uno sguardo spento, una bocca dritta e una parola amara. Alba allora sarebbe stata trafitta dalle loro occhiate di incomprensione, si sarebbe sentita in colpa per i loro vani tentativi di insistere - tentativi che lei avrebbe smorzato sul nascere, tutti quanti - e la sua malinconia, infine, si sarebbe trasformata nella loro rabbia, nella frustrazione logorante per qualcosa che non potevano capire, per qualcuno che, sì, avevano messo al mondo, ma che non era mai uguale a come l'avevano lasciato l'ultima volta. I genitori, pensava, sono gli unici a sperimentare l'amore al rovescio: più tempo passano con i loro figli e meno sanno chi sono. Come se soffrissero di una specie di miopia nel tempo, non riescono più, dopo anni, a riconoscere chi si sta allontanando da loro.

Alba guardava la porta, sapendo quale sarebbe stato il suo gesto d'amore incompreso, per quel giorno: preservare i suoi genitori dall'uragano che aveva portato dentro casa come un randagio attaccato alle caviglie. E sarebbe stato un gesto d'amore non solo nei loro riguardi, ma anche nei propri: avrebbe preservato se stessa dall'esasperante e sempre uguale epifania di scoprirsi diversa da come avrebbe voluto essere. Quasi ogni giorno le riecheggiavano nelle orecchie, con la stessa ineluttabilità di una lettera aperta dopo l'ultimo gesto, le parole pronunciate una volta da suo padre: "Perché non puoi essere felice?", le aveva chiesto con rabbia, "Io lavoro tutto il giorno, torno a casa stanco e tutto ciò che trovo è un'ingrata che risponde male e mi tiene il broncio. Perché non puoi essere felice?" Anche in quel momento, mentre distoglieva lo sguardo dalla porta e prendeva a salire le scale, anche in quel momento, la risposta nella testa di Alba era solo silenzio.

Quando iniziava a pensarci era il preludio della fine. Rimaneva invischiata in quel ricordo per un tempo che non avrebbe saputo misurare, un tempo che è proprio solo della memoria. Più il suo cervello le ripeteva quella domanda, più in Alba cresceva l'impressione di aver disatteso un compito importantissimo. Ma c'era anche una parte di lei che gemeva per il peso di un fardello che le era stato caricato sulla schiena ingiustamente. Essere felice per suo padre, costringersi a imitare uno stato che non provava perché la sua sola visione poteva incrinare la quiete di qualcun altro... come poteva venirle richiesta una cosa del genere? Lei non avrebbe mai preteso nulla di simile da nessuno, tanto meno in quello che avrebbe dovuto essere il porto sicuro della loro casa. Lei rispettava l'amarezza di suo padre, quando si manifestava, e se non aveva piacere di vederla allora si chiudeva nella sua stanza. In fondo si erano conclusi già da un pezzo i giorni in cui la piccola Alba si lamentava se la cena non era di suo gusto, ora quando qualcosa non le andava bene si cucinava da sola qualcos'altro, e basta. Nel momento in cui avrebbe trovato la felicità, si diceva, sicuramente sarebbe stata convinta di volerla condividere con qualcuno (o l'avrebbe trovata proprio condividendo con quel qualcuno il proprio tempo), ma non poteva donare a suo padre, adesso, una parte di ciò che ancora non aveva.

Le scale le sembravano infinite. Man mano che seguiva la loro rincorsa verso l'oscurità, aveva l'impressione di sprofondare anche lei, un gradino dopo l'altro, negli abissi viscosi del senso di colpa. Non avrebbe saputo stimare la frequenza con cui le succedeva. Si sentiva in colpa molto spesso per molte cose. Per alcune andava bene così, mentre per altre aveva il dubbio che non fosse del tutto giusto. Era sempre la stessa voce a suggerirglielo, quella che la osservava dall'esterno o che guardava indietro alla Alba sofferente di qualche anno prima e che la pensava (o si autopensava) con sincera compassione. Era la parte materna di se stessa, quella che tentava di confortarla - a volte riuscendo solo a sussurrare, altre volte arrivando persino a gridare, nel disperato tentativo di farsi udire - e che osteggiava quell'altra parte: quella che nella sua testa parlava con la voce di suo padre. Alba si chiedeva spesso se fosse normale che un frammento di sé dialogasse con lei esattamente come il genitore. E se lo chiedeva a buon diritto, voleva credere, dal momento che si trattava di una voce talmente vivida da non coincidere con quel che pensava, con quella che percepiva essere invece la corrente principale del suo flusso di pensieri, ma da parlarle, appunto, quasi come un'entità separata. A un certo punto era arrivata a convincersi di essere pazza. Ogni cosa per cui veniva rimproverata era sacrosanta verità, per lei, e lei era una persona orribile, sotto ogni punto di vista. Non distingueva più la propria opinione da quella di suo padre. Era, in parole semplici, come se nella sua testa ci fossero due voci. Ed era stata una delle prime sensazioni che aveva descritto al dottor Bassi, ma purtroppo non ricordava più che cosa lui le avesse risposto. Una cosa la ricordava, però. Una frase: "Non è questione di colpe, Alba. Il fatto è che tu e tuo padre state parlando, sì, ma senza comunicare." Ed era un bel punto su cui meditare. Lo dimostrava il particolare stesso di non essersene ancora dimenticata dopo tutte quelle settimane. Ma forse c'era anche un'altra cosa a dover essere affrontata, una cosa più urgente, immediata, forse anche più pragmatica: la sensazione che Alba aveva di non star mai facendo abbastanza.

C'erano tante realtà che attingevano alle sue energie per continuare a esistere; tante situazioni, fatte di persone, che si dissetavano alla sua fonte come beduini in mezzo a un'oasi. Lo studio, il lavoro, gli amici. E lei si dava a loro senza parsimonia, come per vocazione naturale. Anche quando era faticoso, non lo avvertiva mai come un fioretto. Ne valeva la pena. Ed erano cose che avrebbe voluto sbattere in faccia ai suoi genitori, ogni qual volta che, per qualche mancanza nei loro confronti - mancanze che erano sempre le stesse, reiterate ciclicamente -, le rinfacciavano di essere "un'egoista" e "un'irriconoscente". Ma forse era qui che stava la differenza, e forse era tutta la differenza del mondo: ad Alba molte cose venivano facili, da sempre, e se non facili almeno spontanee, ma il valore degli altri, e il valore che gli altri davano agli altri, specialmente nelle relazioni, in qualunque tipo di relazione, non lo misurava forse in base ai sacrifici che erano disposti a fare quando le cose iniziavano a complicarsi?

Si era inerpicata su per le scale con la luce spenta. Lo faceva spesso. Procedeva lentamente e con cautela, per non rischiare di farsi ingannare da un improvviso eccesso di spavalderia, ma saliva al buio, lasciando scivolare le dita lungo il corrimano. Non c'era alcun bisogno di vedere dove stava andando, pensava, erano quindici anni che abitava in quella casa, che eseguiva sempre le stesse azioni, sempre allo stesso modo, e che osservava ogni volta gli stessi percorsi fra una stanza e l'altra. Persino salire dal lato sinistro (destro, quando scendeva) le sembrava una cosa del tutto nuova; le dava, per un secondo, l'illusione di trovarsi nella casa di qualcun altro. Era una sensazione di vertigine, come di chi cammina coprendosi un occhio. E, per quell'unico battito di ciglia, non era più Alba, ma un'altra persona, in un altro appartamento, in un'altra vita.

Forse le luci non le accendeva anche per pigrizia. O, meglio, sapeva che non avrebbe sprecato energie o altro nel camminare fino all'interruttore e poi tornando indietro ai piedi delle scale, ma lo reputava comunque un gesto non necessario e, per questo, trascurabile. O forse agiva così e basta, senza alcuna spiegazione illuminante che avrebbe potuto addurre nel caso in cui qualcuno, come sua madre o suo padre, l'avesse colta, interdetto, a macinare i gradini nella penombra. Forse era uno di quei gesti privi di un senso esplicito e che rendono gli altri talvolta confusi talvolta irritati, come muovere la gamba quand'era seduta, mangiarsi le unghie, staccarsi le pellicine delle dita, rigirarsi l'orecchino, salire le scale con le punte dei piedi invece che con tutta la pianta, toccarsi la fronte mentre leggeva. O, ancora, come per molte cose, lo aveva ingenuamente fatto una prima volta tanto tempo prima e ben presto si era radicato in un cantuccio del suo cervello in veste di abitudine, e vi sarebbe rimasta fin quando un giorno non fosse inciampata. Allora avrebbe imparato la lezione.

Imparato la lezione.

Eppure era più frequente il contrario.

Alba si ritrovò a pensarlo un po' sorpresa e un po' angosciata.

Se un bambino avesse smesso di provare a camminare subito dopo il primo capitombolo, pensando che iniziare a stare su due piedi, contando quanto rischiava, potesse essere davvero una cattiva abitudine da prendere, allora avrebbe proseguito gattonando fino alla fine dei suoi giorni. E lei quante volte si era torturata le cuticole fino a farle sanguinare, fino a sobbalzare dal dolore, acuto come un colpo di spillo? Quante volte era stata vicina a perdere l'equilibrio, poggiando sul gradino solo la punta della scarpa? Era riuscita a imporsi di smettere solo quando Argo era ancora un cucciolo e le piaceva portarlo in braccio in giro per casa; non si sarebbe mai perdonata se, scivolando per le scale, avesse fatto male anche a lui. Era come se Alba non bastasse a se stessa, come se non constasse, lei sola, una ragione sufficiente a cambiare abitudine, a intraprendere una strada favorevole, a discapito del sentiero insidioso che stava già percorrendo. Lo vedeva spesso anche negli altri, nei suoi amici o nelle storie che le giungevano all'orecchio: storie di persone che non erano in grado di uscire da rapporti malsani, rapporti senza i quali avrebbero fatto sicuramente meglio, se solo fossero riuscite, tutte, a porsi su un piedistallo più alto dell'altare da cui veneravano la figura dell'amato o dell'amata, del padre o della madre. Ma non osava comunque allargare il proprio pensiero alla maggior parte della gente. Magari se lo impediva, giustamente, per mancanza di prove concrete; magari, invece, lo faceva solo per sentirsi speciale. Unica.

Alba aveva spesso paura che i suoi ragionamenti venissero subdolamente monopolizzati da questa specie di mania narcisistica (o egocentrica?) Non che fosse propria soltanto della sua natura: era convinta che tutti, in una qualche misura, soffrissero almeno dell'una o dell'altra cosa. E a quel punto, probabilmente, non sarebbe stato neppure più corretto parlare di disturbo. Si può considerare tale un connotato insito in tutti gli individui di una specie? Tuttavia, per lei il problema era sempre stato che, attribuendo a una sua caratteristica lo stato di peculiarità, questa sarebbe divenuta una sorta di chiave di volta, la risoluzione sconcertante di una questione al limite della rarità. Se, per esempio, parlando di se stessa, avesse ceduto alla definizione di pigra, piuttosto che a quella di malinconica o distratta, allora si sarebbe riconosciuta in un tratto alquanto comune e, come tale, già sdoganato e combattuto coraggiosamente da molti fino all'elaborazione di una risposta funzionale. Se, invece, come credeva (o come si sforzava di credere?), la sua non era solo pigrizia bensì qualcosa di più profondo, di ingarbugliato come un filo, allora avrebbe finalmente potuto sentirsi giustificata per il fatto di non riuscire a cambiare: perché era speciale. E dunque era triste o soltanto pigra? I suoi pensieri erano puri, oggettivi, o manipolati dalla sua codardia?

Cordardia.

Da qualche tempo, in realtà, Alba era arrivata a guardare alla propria pigrizia da un terzo punto di vista. Non ricordava più se fosse stato per qualcosa che aveva sentito, per qualcosa che aveva letto o chissà che altro, ma era giunta a ripensare la pigrizia (ancora non sapeva se soltanto la propria o anche quella degli altri, di tutti gli altri) come un meccanismo di difesa. Era stata una folgorazione. E, dal momento che altrimenti, e cioè col solo intuito, non avrebbe avuto alcun appiglio cui reggersi per giudicare se quel suo lampo improvviso potesse essere fondato o meno, aveva prontamente cominciato a frugare in se stessa alla ricerca di argomentazioni valide. Quel che vi trovò era che la pigrizia è connessa alla procrastinazione (e viceversa) e che uno, di norma, si immagina che l'altro rimandi qualcosa perché quel qualcosa non gli va a genio, mentre il problema di Alba era che finiva per differire nel tempo anche (e soprattutto) cose che in verità le piacevano da sempre. Aveva cominciato a sviscerare questo pensiero partendo dal piccolo.

Spesso le veniva voglia di guardare un film. Un film ben preciso, però. Un film che riuscisse a suscitarle una determinata emozione, della quale sentiva il bisogno. Ma, una volta che iniziava a pensare a quale pellicola, fra le tante che conosceva, potesse essere quella giusta, la paura di compiere la scelta sbagliata e di pentirsi, quindi, del tempo investito senza profitto nell'impresa, la faceva desistere. Una cosa simile le accadeva con i libri. Da un paio d'anni, e cioè da quando la mole di studio aveva preso ad aumentare considerevolmente, esaurendo durante il giorno quasi tutte le energie di cui disponeva, la lettura era diventata una carezza per il suo animo livido ma uno sforzo per il suo fisico sfibrato. Se il libro che aveva preso in mano non era quello destinato a tenerle gli occhi incollati alle pagine per ore, allora quei suoi stessi occhi avrebbero ceduto alla tentazione del sonno, sottraendole tempo, nonché stima di sé (e senza dimenticare, poi, la frustrazione di lasciare il libro inconcluso anche nei giorni successivi.) Così, esattamente come le accadeva per i film, la paura di pescare dallo scaffale il volume inadatto alla situazione, la paura di accorgersi solo dopo ore di aver perso tempo utile, l'ossessione dell'utilità, del tempo che scorre, facevano sì che Alba non si attentasse neppure a provarci. E tuttavia, c'era anche un'altra questione in gioco, una questione più grossa, e Alba, si era resa conto cominciando a rifletterci, in fondo lo sapeva già da un po'.

Quando si richiuse la porta della camera alle spalle, le tempie erano in procinto di esploderle già da qualche minuto.

Se avesse potuto fotografare l'ordine dei propri pensieri in quel momento, non sarebbe stato tanto diverso dalla disposizione degli oggetti nella stanza. Il letto era sfatto da giorni e le coperte si confondevano con i vestiti. Il pavimento era tappezzato di cartacce e calzini, tutti rigorosamente neri, che spesso era costretta ad appaiare con i calzini puliti, quando si rendeva conto che quelli raccolti dal bucato erano per l'ennesima volta, e come ogni volta misteriosamente, in numero dispari. Le ante dell'armadio non erano chiuse, ma accostate. Davano l'idea di qualcosa di incompleto. Anche i cassetti del comodino erano stati lasciati alla stessa maniera - semiaperti -, come se dei mostriciattoli notturni stessero pensando di spiare Alba durante il sonno attraverso le fessure. Aveva persino pensato di scriverci un racconto per bambini, ma era convinta che non sarebbe mai stata capace di renderlo abbastanza divertente.

Se, però, fosse stato possibile tracciare un bozzetto di quel caos, il punto di fuga avrebbe sicuramente coinciso con una cosa soltanto: la scrivania. Ritta sulle quattro zampe che si ergevano proprio accanto alla finestra, la scrivania di Alba era ricoperta (in quel momento, ma come sempre) da un manto di libri, penne, evidenziatori, matite, manuali, briciole, tazze di caffè, piatti, bottiglie d'acqua, quaderni, appunti, schemi, fotocopie e fogli sparsi, talmente fitto nella sua difformità, che soltanto un paio di spiragli solitari vi si aprivano in mezzo, due occhietti di legno verniciato che facevano capolino alla vista come due barchette nell'oceano.

I genitori di Alba la rimproveravano almeno una volta al giorno per tutto quel disordine, una volta al giorno dai tempi delle scuole medie, ma non era mai cambiato nulla. Ammonimenti, urla, ricatti, minacce. Era riuscita a portarli a delle misure veramente ridicole se ci si fermava a ricordare il motivo per cui erano state prese, ma sembrava che nella testa di Alba non ci fosse posto per l'ordine, neppure per il concetto stesso. Era come se in ogni istante ci fosse qualcosa di più importante di quello, un pensiero, una preoccupazione, un presentimento, qualcosa che riempiva in maniera totalizzante tutto il suo essere, che le paralizzava la ragione, e da lì i piedi, le gambe, le mani. Ogni volta, senza nemmeno pensarci, il suo corpo si muoveva naturalmente in mezzo a tutte quelle cose, trovandovi il proprio posto. E di solito quel posto era la sedia davanti alla scrivania. La stava guardando anche in quel momento, quasi che esercitasse su di lei una forza attrattiva. Ma in quel momento non voleva affatto sedersi, aveva una paura tremenda di sedersi, perché ogni volta che si sedeva su quella sedia il muro della stanza era già lì di fronte a lei pronto a risucchiarla, a risucchiare i suoi occhi, la sua volontà, i suoi pensieri, in quel candore rettangolare che si spandeva all'infinito, per chilometri e chilometri, per anni luce in ogni direzione del piano, e allora lei vedeva bianco, solo bianco, su cui i pensieri cominciavano a incidersi neri, confusi, fumosi, in un palinsesto di inchiostri che erano stati consunti da anni di correggimenti, espunzioni e limature, senza però mai giungere alla parola fine.

Alba rimase lì, in piedi al centro della stanza, improvvisamente senza fiato. Con quello se n'era andato anche il dolore alle tempie. Qualcos'altro aveva preso il suo posto, però, qualcosa che premeva dal suo interno per trovare una via d'uscita. Una crepa, una soglia, un estuario che disperdesse in rivoli minori quella corrente impetuosa che la stava attraversando dal petto fino al volto. Alba se ne stava lì, con le lacrime che inspiegabilmente le pizzicavano gli occhi come se qualcosa glieli stesse prendendo a morsi. Li strinse nel tentativo di non farle scappare, ma quando li riaprì lo sguardo, liquido, le ricadde nuovamente sulla scrivania. Stava fissando il vecchio taccuino che i suoi amici le avevano regalato anni prima per il suo compleanno. Era sommerso da tutto il resto, soffocato anzi, ma un angolo si affacciava sul pavimento dal ripiano della scrivania. La copertina di sughero era consunta, ormai, gli spigoli quasi si aprivano in due. Così schiacciato dalle altre cose, non sembrava nemmeno più gonfio di tutte le parole che vi aveva scritto, come se tutti quegli anni fossero stati cancellati di colpo. Ma non voleva aprirlo per controllare. Come non voleva sedersi sulla sedia della sua camera, così non voleva aprire il suo vecchio taccuino sulla scrivania. Non voleva aprirlo, perché aveva paura di trovare fra le sue pagine qualcuno che non era più, qualcuno di troppo diverso da lei perché, incontrandola, potesse amarla. Questo pensava. Pensava che se quelle pagine fossero state una persona in carne e ossa, allora quella persona l'avrebbe ripudiata. Pensava di essere diventata una persona peggiore, troppo peggiore, di quella che era stata prima. Così piena di sconforto, tristezza, ansia, rabbia, frustrazione, noia, disgusto, che parlarle o anche solo starle accanto sarebbe stato come mettere piede nel campo gravitazionale di un buco nero, come rischiare che la propria luce venisse risucchiata d'un soffio in un vortice che mescolava e confondeva tutto quanto, fin quando anche la mente fosse arrivata a non vedere più nitidi i contorni delle cose.

Era da un po' che ci pensava (anzi, da un giorno ben preciso), era da un po' che si convinceva che chiunque l'avesse conosciuta in quel momento della sua vita, conosciuta davvero, non avrebbe avuto ragione di trovare in lei qualche cosa di amabile. Chi lo faceva era solo perché aveva preso l'abitudine da anni, da anni migliori. Ma chissà se avrebbe mai distrutto tutto quanto. Ormai, ogni volta che commetteva un errore e che qualcuno glielo faceva notare, il terrore di essere abbandonata si impossessava di lei come un demone. Perché aveva dietro di sé già così tanto che gli altri dovevano ascoltare, che gli altri avrebbero dovuto provare ad amare, che se lei avesse anche raccontato la sua storia nel modo sbagliato, col tono sbagliato, allora non ne sarebbe più valsa la pena per nessuno. Sentiva che, a ogni suo sbaglio, chiunque intorno a lei sarebbe stato legittimato ad andarsene. Sentiva che ogni passo falso era irrimediabile, indiscutibile, che tanto non c'era niente di prezioso da salvare. Era stata infestata dall'unica certezza che la sola creatura al mondo che potesse amarla incondizionatamente, qualunque persona fosse diventata col tempo, era Argo. Perché con lui non poteva parlare, non poteva discutere, non poteva litigare, non poteva dire niente che avrebbe rovinato le cose, perché lui l'amava come una madre, come una sorella, un'amica e le avrebbe perdonato tutto, perché le parole erano troppe e il tempo per loro troppo poco e per fortuna, in un qualche misterioso, arcano modo che l'universo ha di mettere le cose al loro posto, sembrava che entrambi, persino lui, lo sapessero. Ma il tempo di Argo era finito e a lei invece ne rimaneva così tanto, da trascorrere senza di lui. Ed era talmente stupido, si diceva, e dopo si diceva che no, non lo era affatto, che se si diceva una cosa del genere era solo perché gli altri non avrebbero capito. Ogni volta che una parte di lei si spezzava e che da quella breccia sgattaiolava via qualcosa riguardo ad Argo, si ritrovava sempre, sempre, a pronunciare almeno una frase di scuse, una manciata di parole con cui spiegare, sintassi piene di perché, come se quel dolore non fosse abbastanza, come se non potesse esserlo, come se non avesse ragione d'esistere. Come se non fosse successo niente. E doveva farlo, e lo faceva, forse anche inconsciamente, altrimenti quella fanghiglia nera che l'aveva già ghermita quel giorno lungo le scale sarebbe tornata a prenderla per le gambe e l'avrebbe inghiottita di nuovo senza più lasciarla andare, le si sarebbe insinuata dentro in spessi e striscianti serpenti di catrame che le sarebbe toccato inghiottire, a uno a uno, giù per la gola e fino allo stomaco. Doveva avere un motivo, una delucidazione pronta, doveva sapere cosa dire agli altri se le avessero visto il volto lucido di lacrime per un cane, solo uno stupido stupidissimo cane come mille altri perché in fondo poteva prenderne un altro già sì perché non ne prendi un altro? ci hai già pensato? lo hai già scelto che razza ti piacerebbe quando lo prenderai ma lei glielo doveva, ad Argo, gli doveva tutto il rispetto che meritava, gli doveva che lei difendesse il suo amore, tutto l'amore che le aveva dato e per questo doveva spiegare, sì, ma spiegare cosa? A qualcuno che non l'aveva mai vissuto e che non l'avrebbe comunque mai vissuto come lo stava vivendo lei, come doveva spiegarlo? In che modo avrebbe mai potuto spiegare che quando tornava a casa sopraffatta lo faceva con l'unica garanzia che qualcuno l'avrebbe amata senza chiedere, senza pretendere niente, che l'avrebbe viziata con tutto l'amore che poteva darle, un amore gratuito, facile, senza parole, amore fatto di gesti, di occhi, di carezze, di presenze, un amore che non aveva bisogno di essere combattuto o meritato o salvato ma che si nutriva da sé, che era naturale, come la pioggia il mare il vento e che per tutto il tempo che voleva l'avrebbe distolta dalla paura. Paura. No, non ce n'era mai una sola, Alba era piena di paure, Alba era un grumo di paure, un orripilante mostro informe coperto di bitorzoli e tumori, una cosa pulsante, purulenta, instabile, che sarebbe potuta esplodere da un momento all'altro come il nocciolo di un reattore nucleare, sotto il peso degli studi, degli amici, del lavoro, della famiglia, delle relazioni, dei sogni mancati, dei progetti lasciati andare, dei rapporti corrosi dal tempo e dalla negligenza, propria e altrui, delle aspettative deluse, proprie e altrui, delle ambizioni rispetto alle quali non si sarebbe mai rivelata all'altezza. Dei fallimenti. Alba aveva una paura inenarrabile di fallire. Era per questo che non riusciva a scegliere neanche un film, che non riusciva a decidersi su quale libro leggere, che alla fine non cominciava niente, che nemmeno ci provava, perché se non iniziava non poteva rovinare niente, se non iniziava non falliva come sentiva di star fallendo o di stare per fallire, sempre, in ogni istante, in qualunque cosa si accingesse a fare, sempre sull'orlo del precipizio, sempre sul bordo del baratro, in piedi sulla cima di un parapetto altissimo, in equilibrio sul vuoto più assoluto e più nero. E come poteva spiegarlo, questo, a suo padre quando la vedeva triste, quando la sgridava perché non riusciva neppure a tenere in ordine una cazzo di camera da letto o una scrivania coperta di merda, come glielo spiegava quando lui e sua madre s'infuriavano perché lei sembrava avere sempre la testa da un'altra parte e come poteva spiegare agli altri che in realtà i suoi genitori erano delle brave e buone persone, piene d'amore, anche se avevano dei modi sbagliati, a volte, anche se alzavano la voce e la ricattavano, se la facevano stare male senza neppure rendersene conto, come lo spiegava al dottor Bassi che si sentiva una figlia terribile per tutti i difetti che vedeva in persone così buone, tutto sommato, che a volte le sembrava di avere torto su tutto quanto, tanto da dimenticarsi perché aveva pianto e perché ci era stata così male, ché tanto quelle che i suoi genitori le dicevano erano solo parole e chiunque può sbagliare, nei toni, nei modi, ché forse quando mancavano di empatia lei poteva passarci sopra, anche quando non capivano i suoi sfoghi e non capendo la facevano stare peggio, anche se lei sentiva di meritare quel minimo di comprensione in più, quella che riuscivano a darle i suoi amici e se gliela davano i suoi amici perché loro non riuscivano a farlo? E se loro gliela davano allora forse qualcosa da capire c'era e non andava tutto bene e lei non era pazza ma come poteva esserne sicura se a volte stava così anche quando non succedeva niente? E allora doveva ricominciare, ricominciare a dialogare, a comunicare (comunicare: era mai possibile?), smetterla di parlare solo nella sua testa e tirare fuori le parole per confrontarsi con l'esterno, con un altro volto, con un altro paio di orecchie e spiegare, di nuovo, spiegare spiegare spiegare, per trovare un motivo per non sentirsi in colpa per tutto quel dolore, quel dolore che spesso non dava sintomi, che non si vedeva e le cui ragioni non si vedevano, perché erano sotterranee, nascoste, invisibili, talmente invisibili che a stento lei riusciva a riconoscerle, ma se non le avesse trovate sarebbe parsa un'ingrata a se stessa e a tutti gli altri. Trovare un motivo, sempre un motivo, un motivo per tutto, per soffrire, per vivere, per non morire. Se solo qualcuno fosse arrivato, si fosse afferrato un lembo di pelle al centro del petto e avesse tirato da parte a parte, con entrambe le mani, aprendosi in due come una carcassa viva e dicendo: "Guardami, siamo uguali. Io sono come te e tu sei come me. So che cosa vivi ogni giorno e quali pensieri ti infestano, perché la tua vita è sempre stata la mia vita. Non avrai più bisogno di sfilarti la voce dal profondo delle viscere, come l'amo arrugginito incastrato nella pancia di un pesce appena tirato su dal fiume, non dovrai mai spiegarmi nulla. Mi basterà guardarti in volto per leggerti negli occhi le parole che non dici, e in un attimo avrò già compreso ogni cosa, in silenzio."

Silenzio. D'un tratto, mentre piangeva, Alba sentì solo questo: silenzio. Non solo all'esterno, ma dentro. Come se avesse pianto tutto, come se con le lacrime fosse uscito anche tutto il resto. Il petto era sgonfio di parole, la pancia vuota ritratta verso gli organi, il naso tappato e la gola riarsa, la bocca asciutta. La testa piena solo di un roboante suono magnetico, sordo, come il concerto disordinato di mille conchiglie accostate a un solo orecchio. Gli occhi erano gonfi e le ciglia pesanti di lacrime vecchie, ma di nuove sembravano non arrivarne più.

Cominciò a svestirsi. Mentre si sfilava la maglietta, sentì per un istante il proprio fiato contro il tessuto. Era caldo, e incredibilmente rumoroso. Le venne da pensare che, se le persone avessero sentito per tutto il giorno il rumore del proprio respiro, il proprio cuore battere, l'ininterrotto fluire del sangue dalle vene alle arterie e poi di nuovo, tutta l'infinita litania della vita che scorre... sarebbero impazzite, tutte quante, una dopo l'altra. Nessuno avrebbe potuto vivere senza l'illusione del silenzio. Ed era il motivo per cui tanta gente impazziva comunque, per il vociare dei propri pensieri nella testa, giorno e notte.

Si sfilò le scarpe, le calze, i pantaloni, e si ricordò di quando in terza liceo aveva studiato il concetto greco di "armonia delle sfere", una sorta di musica celeste, inudibile ai più, che il Sole, la Luna e tutti i pianeti produrrebbero insieme, muovendosi nell'universo. Si immaginò lo stupore sul volto delle persone, se tutto a un tratto avessero cominciato a udirla. Si immaginò tutti gli animali arrestarsi d'incanto, in allerta. All'inizio sarebbe stato meraviglioso non sentirsi più soli, percepire un legame siderale allacciare l'esistenza di ogni creatura vivente al grembo primordiale che le aveva partorite, come una grande madre che cullasse, cantando, i propri figli fra le braccia. Ma dopo, continuò Alba nei secondi in cui le spalline del reggiseno le scivolavano lungo le braccia, gli uomini avrebbero iniziato a sbattere la testa contro i muri in cerca di riposo; tutti i pesci si sarebbero inabissati lontano dalla superficie, là dove l'acqua avrebbe rallentato la propagazione del suono; gli stambecchi, troppo vicini al cielo, sarebbero balzati giù dalle vette innevate; le formiche avrebbero scavato città più profonde.

Alba stava guardando il proprio riflesso nudo, incastonato nei vetri del balcone. Il suo corpo, la sua stanza e la notte di fronte erano ritratti insieme, in un'unica fotografia. Era come guardare la scena di un vecchio film muto, in cui tre riprese diverse fossero state sovraimpresse sullo stesso ritaglio di pellicola. Così Alba spense la luce, e vide la propria nudità, fra gli oggetti della stanza, scomparire, inghiottita dalla notte fuori. Dopodiché avanzò verso le imposte e le aprì, rimanendo in piedi, ancora svestita, sul limitare del balcone.

Le cicale cantavano ancora. La notte era umida e calda, di un calore ossessivo, come quello di uno sguardo che ti rimane addosso. Era una seconda pelle, su quella già viva e palpitante di Alba, e nonostante tutto sembrasse suggerirle di scacciarla - il sudore, il respiro pesante, i capelli appiccicati al collo -, lei la accolse come un'anima reietta. La ringraziò, quando le inumidì il viso, perché riuscì a farle dimenticare la sensazione del sale rappreso sulle guance.

Sul condominio di fronte c'erano alcune finestre ancora illuminate, anche se non vedeva nessuna sagoma attraversarle. Alba non sapeva in che cosa sperava, così, sola e senza vestiti sul balcone della sua stanza. Le venne in mente un'unica ragione: essere vista. Allora le sarebbe stato chiesto perché mai stesse facendo un cosa del genere, dato che doveva per forza esserci un motivo, al di là della follia, se una qualunque persona usciva di notte, senza abiti, sul balcone di casa. E Alba avrebbe raccontato, certo che lo avrebbe fatto, ma stavolta avrebbe potuto raccontare finalmente tutto quanto, senza fretta, perché ci sarebbe stato tempo. Perché in quell'orario indefinito della notte non c'era altra motivazione per rimanere svegli, se non quella di non avere nient'altro di meglio da fare. E dunque avrebbe cominciato da molto lontano, da dove era giusto che tutto iniziasse, e così finalmente qualcuno avrebbe capito, capito davvero, ogni cosa, più di quanto lei stessa avesse mai capito in vita sua, e Alba avrebbe concluso dicendo che si sentiva come quelle falene che svolazzano in cerchio sotto ai lampioni fino a bruciarsi, che, convinte di rincorrere la luna, si sono semplicemente perse dietro a una lampadina, e moriranno continuando a chiedersi perché non arrivano mai in nessun posto, se mai c'è un posto a cui arrivare, e chissà se mai sarebbe esistito un posto così anche per lei e se lo avrebbe mancato, come loro, inseguendo un miraggio.

Si spense anche l'ultima finestra.

Alba sentì un sospiro gonfiarsi al centro del petto, come un uccellino con le penne arruffate. Continuava a sfiorarsi distrattamente i pizzichi di zanzara sulle braccia e sulle cosce, contandoli a uno a uno senza volerlo. Distolse gli occhi dal palazzo e rimase a guardare. E, nell'ultima, disattesa speranza di essere vista, solo allora, finalmente, vide. Il cielo velato dall'afa d'agosto. La luce soffusa dei lampioni che rischiaravano il parcheggio. La coda di un gatto scomparire con un guizzo sotto a una macchina. Il dondolio dei salici nell'oscurità del parco. Un fulmine all'orizzonte, teso fra due nubi, e dopo poco il tuono. Chissà se si sarebbe messo a piovere, chissà quanto distante. Avrebbe potuto calcolarlo. Ma più vicino udì una tapparella abbassarsi, una televisione spegnersi, qualcuno rientrare nella propria casa. Ogni suono era una nota diversa tracciata sulla partitura delle cicale, il cui canto era una vela spiegata sulla notte, ovvero la cosa più simile al silenzio. E in quel silenzio, lo stesso silenzio sospeso precedente il sipario, cadde una foglia. Era bruna e secca ed era atterrata sull'erba con quello che nella quiete era sembrato un fragore di tempesta. La sentì chiaramente. Udì prima il picciolo staccarsi dal ramo, con uno schiocco di dita. Poi udì la pagina appassita della foglia scivolare fra le altre più carnose, come l'accartocciarsi di un'onda sulla battigia. Non sussurrò nulla, mentre fendeva l'aria, taciturna come due occhi che si chiudono. E infine cadde, dura e fragile sull'erba soffice. Quella foglia aveva visto due estati, e Alba si domandò come avesse potuto resistere tanto a lungo. Forse riscaldata dal calore delle compagne, come una vecchia amica. Forse imboccata fino all'ultimo istante, dall'albero suo padre, come una figlia ammalata. Forse era stata la fortuna di venire dimenticata dal corso naturale delle cose. Una nota imprevista nell'armonia delle sfere. Un'attesa prolungata, una cadenza d'inganno.

Alba ricominciò a respirare, stretta alla ringhiera del balcone. All'improvviso aveva i brividi, e così, lentamente, raccolse le sue membra nude e le riportò nella sua stanza, dove però i brividi non passarono. Accese la lampada sulla scrivania, sfilò il lenzuolo dal letto e se lo gettò sulle spalle, dopodiché, rannicchiata a terra come un riccio, cominciò a pulire la stanza. Non sapeva quanto tempo fosse trascorso, ma sapeva che due giorni dopo avrebbe visto il dottor Bassi, che in quel momento aveva in mano una bottiglietta di plastica vuota e che aveva visto una foglia morire d'estate.

Quando il pavimento era sgombro ormai da un bel po' e Alba stava spostando i vestiti dal letto all'armadio, la sveglia di suo padre annunciò il nuovo giorno. Suonò dopo che il camion del netturbino aveva appena finito il giro del quartiere, ovvero nell'esatto momento in cui l'inquilino del piano di sopra si infilava nella doccia. Era mattino per tutti, adesso, ma per Alba lo era già da un pezzo. Aveva lasciato aperta la finestra del balcone, dopo essere rientrata, e così, d'un tratto, mentre riordinava i fogli sulla scrivania, se n'era accorta.

Le cicale avevano smesso di cantare.

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