La noia dei morti
Racconto scelto fra i vincitori del contest di Halloween di TheHopeTeam.
Tutti vogliono trovare un senso. C'è chi lo trova in Dio (e allora lo chiama il senso, perché ce n'è solo Uno, uguale per tutti), chi lo trova nell'amore, chi nella morte. C'è chi lo cerca per una vita intera, senza mai giungere a una conclusione. C'è chi si arrende e basta e gli va bene così, il senso sta nel non averlo affatto e ignora strenuamente questa contraddizione, come se non sussistesse (voi non fategliela notare, però: sarebbe scortese, nonché la potenziale scintilla per un'ulteriore crisi mistica.)
Fra coloro che, con maggior filosofia, scovano il loro fine nei piccoli gesti, che mangiano l'ultima scaglia di formaggio come fosse il corpo di Cristo e si disinteressano del domani, può essere annoverato anche Iago: non vedrete mai nessun altro al mondo stringere con mano più ferma, e una passione vicina all'eccitamento, l'impugnatura di un coltellino a serramanico; nessuno al mondo scoprire i denti a quel modo a ogni guaito di terrore viscerale esalato da un cane tenuto per la gola.
«Forse se gli caviamo via il fegato e ce lo facciamo ai ferri, Lucio... »
«Lo diamo da mangiare a lui, neh, Iago? Gli facciamo mangiare il fegato del suo bel cucciolino, neh?»
Il cane, un esemplare di Jack Russell che poteva avere non più di qualche mese, si agitava e piangeva, sospeso a mezz'aria.
«Smettetela! Ridatemelo, vi prego! Zero! Lasciatelo andare!»
Dante cercava in tutti i modi di allungare le braccia verso il suo cane, ma Lucio, più alto e più largo di lui, lo teneva ben saldo per la cintola, le grosse braccia chiuse come l'anello di una catena. Era il bambino di dodici anni più spaventoso che Dante avesse mai visto, con la voce profonda come quella di un adulto e un busto del diametro di un tronco. Aveva pochi capelli e ancor meno cervello, e due pupille incastrate a forza nel cranio. Era stupido e vuoto. Dante sospettava che, se Iago gli avesse ficcato in gola un bigliettino con su scritto di riempirsi le tasche di sassi e andare a gettarsi nel fiume, Lucio avrebbe eseguito all'istante, piegato e ubbidiente come il golem di quella storia che aveva ascoltato dal rabbino. Iago, d'altra parte, aveva due occhi da assassino e la furbizia di un cacciatore. Aveva un anno in più di Lucio, ma era molto più piccolo di lui, così magro e affusolato. Non sarebbe stato tanto più basso, in realtà, eppure lo sembrava, perché camminava sempre con la schiena ricurva. A Dante ricordava una faina a cui suo padre aveva sparato qualche mese prima. Aveva la rabbia, e scattava come una freccia da un capo all'altro del pollaio, ruzzolando senza misura sui corpi dilaniati delle galline. Quando la pallottola gli aveva bucato la testa, il suo corpo aveva continuato a contorcersi in angolazioni innaturali.
«Vi prego», piangeva Dante, «lasciatelo stare! Lasciatelo stare!»
«Sai cosa devi fare, Scheler», disse Iago, il volto deturpato da un ghigno perverso. La luna gli faceva brillare gli occhi di una luce folle. Dante seguì il suo sguardo oltre il cancello. Osservò la carcassa del collegio frammezzata dalle sbarre di ferro. Pensò a una vecchia bestia chiusa in gabbia, lasciata lì a morire perché secondo qualcuno poteva essere ancora pericolosa.
Fu un attimo, e Dante si ritrovò con i piedi a dieci centimetri da terra e la schiena schiacciata contro il cancello. Lo spavento improvviso gli aveva fatto tirare il fiato, ma ora la pressione sui lombi era talmente tanta che non riusciva più a lasciarlo uscire. Lucio lo teneva per il colletto della giacca, poggiando con tutto il peso sugli avambracci, che premevano sopra al busto di Dante. Sentiva i suoi grossi gomiti bitorzoluti scavargli fra le costole.
«Ora tu fai quello che ti dice Iago», latrò Lucio con la sua voce da caverna, «oppure noi sgozziamo il tuo bastardo, neh?»
Dante arricciò il naso in una smorfia. L'alito di Lucio puzzava di denti sporchi e uova marce. Non riusciva a ruotare la testa, ma alla sua sinistra sentì Zero lanciare un gemito così acuto da forargli i timpani, e il solo pensiero di quello che Iago gli stesse facendo in quel momento bastò a convincerlo.
«Va bene», riuscì a dire con voce strozzata, nell'istante in cui la vista cominciava già ad appannarsi. Come se avesse appena udito una parola d'ordine, Lucio mollò la presa e Dante finì a terra. Sentì il sangue affluirgli di nuovo alla testa, mentre si massaggiava il collo e assaporava la sensazione dell'aria che gli attraversava i polmoni in entrambe le direzioni. «Va bene», ripeté, forse per il semplice gusto di sapersi ancora vivo (I morti non parlano, si ricordò di aver letto su una locandina del cinema.) A quel punto Iago mollò la presa e il cane scappò via come un fulmine.
«Alza il culo e tira fuori le chiavi», disse Iago, e Dante obbedì. Si rimise in piedi e sfilò il mazzo di chiavi dalla giacca. Inserì la più piccola nella serratura del cancello. Il fuoco si era tenuto lontano dal limitare del cortile e così il meccanismo interno della serratura era rimasto intatto. Dante sapeva che i cardini avrebbero cigolato e che un qualunque altro rumore avrebbe fatto imbestialire ancora di più i suoi aguzzini, perciò spinse il cancello quel tanto che bastava affinché lui e gli altri potessero passare. Mentre percorreva il vialetto di ghiaia fino a quello che rimaneva del portico, gli sembrò di camminare su un ponte sospeso: il terreno ai due lati era completamente bruciato, di un nero così nero che pareva un abisso profondo. Gli alberi, morti anch'essi, erano come spaventosi guardiani dell'inferno, affiorati dalle viscere della terra.
Un gradino del portico cedette sotto il peso di Lucio, che imprecò, mentre cercava di liberare il piede dalle assi spezzate. Iago lo superò, senza riuscire a celare un'occhiata di disgusto per il compagno, e raggiunse Dante davanti alla porta.
«È sprangata.»
«Scimmione», chiamò Iago, «datti una mossa.»
Lucio infine riuscì a divincolare il piede, tirandolo fuori con una tale forza da trascinare via con sé metà degli scalini. Non sembrava accorgersi delle schegge che gli bucavano la pelle attraverso i calzoni. Avanzò verso le travi di legno che erano state inchiodate all'intelaiatura della porta, le afferrò una per una e le fece saltare via, come fossero solo stuzzicadenti.
Iago pescò una torcia dalla tasca posteriore dei pantaloni. «Avanti, femminuccia», ghignò. Dante fece strada.
L'ingresso era un cimitero di cose divorate. C'erano resti di mobili sparsi ovunque, come se le stanze, sciogliendosi sotto le fiamme, si fossero fuse insieme fra di loro in un unico, immenso spazio senza confini. Il pavimento era un campo minato di voragini larghe anche uno o due metri, attraverso le quali si poteva vedere il terreno sotto al portico. Le poche pareti rimaste in piedi sembravano essere state prese a morsi, i tappeti erano solo ombre di cenere e delle scale, davanti a loro, non restava che lo scheletro. L'odore di fumo e di carne bruciata era ancora lì, addormentato, e si risvegliava ogni volta che qualcuno di loro smuoveva l'aria col proprio corpo. Tutto era così vuoto e senza peso, che ogni rivolo d'aria che spirava dentro dalle finestre rotte risuonava in lungo e in largo come un sinistro lamento di morte.
«Perché non lo lasciamo solo qua dentro e noi ce la filiamo, neh?»
Lucio si guardava intorno con la testa incavata fra le spalle, tondo e senza collo come un grosso neonato.
«Perché sennò questo qua se ne va con la roba», rispose Iago. Aveva le nocche bianche, segno che stava stringendo il manico del coltellino con tutta la forza che aveva. Ma, a differenza di Lucio, lui non lasciava trapelare niente all'esterno, sempre curvo in avanti come un serpente pronto a scattare.
«Allora», aggiunse Iago, puntando sia la lama sia la torcia verso Dante, «Dov'è?»
«Non lo so.»
«Balle, un mare di balle», strepitò Iago, agitando il coltello, «Lo sappiamo che tuo padre portava qui anche te quando lo chiamavano per levare la merda dalle grondaie. Lui metteva le mani nella merda d'uccello e tu stavi qui a giocare con le bambole. Dimmi subito dov'è o stacco la testa anche a te proprio come a loro.»
Dante, afflitto, diede un lieve cenno del mento in direzione delle scale. La grossa manona di Lucio gli calò sulla testa come un martello.
«Non ho sentito», sorrise Iago.
«Di sopra», rispose in fretta Dante, vomitando le parole insieme ai gemiti.
«Brava bambina», disse Iago, e poi, indicando i gradini, «Prima le signore.»
Dante prese a salire le scale, lento e cauto, mentre dietro di lui il legno carbonizzato protestava ed esalava sbuffi di polvere nera sotto ai passi dei suoi carcerieri.
«Bastarda di una suora», sentì dire alle sue spalle. Iago stava mormorando a denti stretti, col viso rosso e nervoso e l'aria di chi stesse cercando qualcuno con cui prendersela. «Sarà meglio che quel suo rosario del cazzo non sia bruciato insieme a lei», aggiunse, sfregando la lama sui vestiti.
«Dove, neh?», incalzò Lucio sul pianerottolo, spintonando Dante fin quasi a mandarlo a terra. Ma sembrava più spaventato che spaventoso. Stava ispezionando il corridoio del primo piano da parte a parte, avanti e indietro e poi di nuovo, come una piccola preda in cerca della via di fuga migliore. Dante alzò un dito e indicò l'ultima stanza in fondo, alla loro sinistra. Lucio gli diede un altro spintone e l'altro si incamminò.
«È d'oro, neh, Iago?», bisbigliò Lucio. Il suo vocione era talmente rumoroso che Dante sentì comunque.
«È quello che dicono», rispose Iago, «D'oro e rubini e altre gemme del cazzo che non so come si chiamano.»
Lucio diede un grugnito soddisfatto.
La porta, miracolosamente rimasta intatta, era accostata.
«È questa», disse Dante.
«Lo sappiamo, Scheler», ringhiò Iago, «Ce l'hai detto un secondo fa.»
«Volete che... »
«Aprila!»
Dante poggiò una mano sulla porta di legno e spinse.
La stanza era un quadrato perfetto, col tetto spiovente, due finestre dai vetri scheggiati - esplosi per il calore dell'incendio - e un'enorme carcassa di letti accatastati uno addosso all'altro. I vigili del fuoco avevano ribaltato ogni materasso e ogni testiera di ferro incandescente, quando erano entrati, nel disperato tentativo di trovare qualche bambina ancora viva, magari nascosta sotto al letto per la paura. Avevano rinvenuto solo cinque corpi: erano tutte morte nel sonno, soffocate dal fumo.
«Cos'è quello, neh?»
«È un pianoforte, razza di ritardato.»
Sulla parete destra, era addossato un pianoforte verticale. Sembrava tutto intero ed era di un nero lucidissimo, come se ci avessero appena passato una mano di cera.
«È lì dentro», disse Dante, «Nella cassa armonica.»
Iago si voltò di nuovo a guardare il pianoforte.
«Giuro che se è uno scherzo, femminuccia... »
«È lì», ribadì Dante, «L'ho vista mentre lo metteva via una volta.»
Iago lo fissò, vibrante d'odio.
«Lucio», tuonò, e indicò il pianoforte con un cenno del capo. «Se non hai detto la verità, Scheler... », aggiunse rivolto a Dante, passandosi il coltellino davanti alla gola.
Udirono un tonfo. Lucio non aveva soltanto sollevato la tavola che copriva la meccanica del pianoforte, ma l'aveva staccata e gettata a terra, e ora era chino all'interno dello strumento, che era dieci centimetri più in basso della sua testa.
«La femminuccia non raccontava balle, neh?», esclamò, con la testa ficcata dentro la cassa, «È davvero qui, Iago! Lo vedo!»
Ma non vide loro.
Stavano uscendo dai muri e dal pavimento, prima vaghi e sfumati, simili a esalazioni di vapori tossici, e poi solidi, strisciando e forzando le assi, come grossi vermi emersi dalla terra dopo un temporale. Gli abiti erano fusi insieme alla pelle, brandelli di carne pendevano dalle ossa annerite e rade ciocche di capelli strinati nascondevano solo in parte i crani scoperti. Dalle orbite vuote e le cavità del naso emanava ancora il fumo che li aveva strappati alla vita prima delle fiamme. Avanzavano trascinando i calcagni, che sfregavano sul pavimento con rumore di gesso. La stanza era troppo piccola per loro, che erano minuti ma numerosi e che così ammassati, gli uni attaccati agli altri, cozzavano e sbatacchiavano, riempiendo l'aria di ciocchi sordi come migliaia di nocche che bussano a un'infinità di porte.
Fu solo quando Iago urlò che Lucio tirò fuori la testa dallo strumento.
«Cosa sono?», strillava Iago, «Cosa sono?», ripeteva, con voce stridula di bambino. Cercava di acquattarsi dietro a Dante, di scomparire alla loro vista, ma quelli li circondavano da ogni lato e continuavano ad avanzare, chiudendoli addosso al pianoforte. Lucio sembrava aver perso la facoltà di parola, stava raccolto in se stesso, le ginocchia semiflesse e le grosse braccia piegate e strette al petto, in una posizione che ricordava un feto troppo cresciuto. Indietreggiarono fino a colpire la tastiera del pianoforte. La stanza si riempì di un accordo stonato, che riecheggiò nei corpi vuoti in una lugubre canzone a canone.
Una figura si staccò dal mucchio e si avvicinò a loro con un libro in mano. Era alta come Dante e recava ancora addosso i resti stracciati di un vestito rosa. Sull'osso bianco del cranio portava un fiocco rosso, scolorito dalla cenere. Stava allungando il libro in direzione di Lucio, fissandolo attraverso i due buchi neri che una volta contenevano gli occhi.
«C-che vuole?», balbettò Iago, facendo scorrere freneticamente lo sguardo da lei a Lucio.
«È un libro di spartiti», disse Dante, osservando la copertina, «Credo voglia che lo suoni.»
«Ma lui non sa suonare», protestò Iago. Aveva le palpebre talmente serrate da dare l'impressione che gli occhi gli sarebbero scappati dalla faccia da un momento all'altro. Aveva ancora stretti il coltellino e la torcia, con le dita così livide che Dante dubitava persino che avesse ancora sensibilità alle mani.
«Deve... deve provare.»
La bambina posò il libro sul leggìo e lo aprì su quella che Dante riconobbe come la marcia funebre dal Götterdämmerung di Wagner. Poi avvolse la mano scheletrica attorno al grosso braccio di Lucio, che si sedette sullo sgabello senza opporre resistenza. Era pallido come il teschio della bambina, lo sguardo fisso e vacuo. C'era solo paura, silenziosa e maleodorante paura, che emanava da lui come il fetore di carogna. Rimase con le mani sollevate sulla tastiera per alcuni secondi, che a Dante e Iago parvero minuti e poi ore, mentre il sudore gli scendeva dai radi capelli biondi imperlandogli le guance, il naso e le labbra. Dante vide che una chiazza scura si stava allargando attorno al cavallo dei pantaloni di Lucio. Alla fine il grosso ragazzino si voltò, con una smorfia che rassomigliava in maniera inquietante a un sorriso.
«Neanche tu sai suonare, neh, Iago?», disse, e un attimo dopo i morti gli furono addosso. Dante e Iago si tapparono le orecchie per non sentire le urla atroci di Lucio. Iago strizzò persino gli occhi, nonostante non riuscissero a vedere nulla attraverso la folla di scheletri. Poco dopo quelli tornarono al loro posto, e Dante e Iago poterono vedere, sullo sgabello, una strana cosa simile a ciò che resta delle bambole quando togli l'imbottitura, una specie di sacco vuoto e flaccido. Poi quel che rimaneva di Lucio si accasciò su se stesso e scivolò sul pavimento.
Iago aveva ricominciato a strillare.
«Non so suonare! Vi prego, io non so come si suona quel cazzo di pianoforte! Vi prego, non voglio morire!» Aveva gettato a terra il coltellino e la torcia e ora si tirava i capelli con entrambe le mani, il volto ricoperto di sudore e lacrime. «Tu sai suonare, Scheler, ti prego, suona, per favore, fai qualcosa! Non voglio morire!»
Quella che Dante riconobbe come la madre superiora uscì dal gruppo. Era alta e vestita ancora con i suoi abiti monacali, ingrigiti dalla polvere. Il soggolo e il velo le fasciavano il teschio con un rigore inappuntabile anche nella morte. La osservò mentre posava le falangi sulle spalle di Iago, spingendolo verso lo sgabello.
«Non so suonare, non so suonare», ripeteva a bassa voce, come una litania, dondolando avanti e indietro di fronte alla tastiera. «Non so suonare.»
La madre superiora sembrò attendere qualche istante, come se seguisse una regola non scritta. Infine, come a un cenno invisibile, la bambine avanzarono di nuovo tutte insieme, fagocitando l'immagine di Iago nella loro cortina di vestitini rosa. Iago non urlò, ma Dante avrebbe giurato di sentirlo ripetere le stesse parole fino all'ultimo. «Non so suonare.»
Quando la nebbia di morti si diradò per la seconda volta, i corpi vuoti di Iago e di Lucio erano ormai già quasi svaniti alla vista: stavano scivolando lentamente nelle fessure fra le assi, come niente più che acqua piovana, e con loro anche gli altri defunti.
Dante avrebbe voluto dire che ci aveva fatto l'abitudine, ma in realtà non era proprio così.
Recuperò il rosario dalla cassa del pianoforte, arrampicandosi sullo sgabello. Poi raccolse il coltellino e la torcia di Iago, se li rigirò un po' fra le mani, fece spallucce e se li ficcò in tasca. Fuori dal cancello, che richiuse a chiave, Zero lo stava aspettando. Era tutto arrotolato su se stesso nel tentativo di leccarsi le ferite che Iago gli aveva inferto sulla pancia, ma quando lo vide comparire sul marciapiede scattò in piedi scodinzolando.
«Bravo, Zero», gli disse, dandogli una carezza sulla testa, prima di incamminarsi con lui verso casa.
C'è chi trova un senso in Dio, chi lo trova nell'amore, chi nella morte. E c'è, infine, chi deve trovarlo alla morte. Morire può essere un tempo lunghissimo, questo aveva capito Dante da tutta quella storia. E uno non sa nemmeno quanto ci deve rimanere, a morire. Perciò bisogna pur trovare qualcosa da fare, per ammazzare la noia - e qualcos'altro. Ed era un pegno che lui doveva pagare, per aver appiccato l'incendio e rubato il rosario d'oro della madre superiora: badare al tedio dei defunti, finché non avessero finito di morire, o qualcosa del genere.
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