XIV. Sotto un cielo nemico - seconda parte
Quella notte i russi aprirono il fuoco. E lo fecero anche quella successiva. Vicino al cortile d'ingresso esplose una granata, dopo un'altra e dopo un'altra ancora, mentre in cielo fiorirono i traccianti. Il fuoco era blando, due o tre mitra; i proiettili fischiavano allegramente come petardi. I piantoni risposero dal tetto, ci fu una breve sparatoria, poi arrivò l'alba e il silenzio.
«Ci siamo quasi» fece Dragan la mattina del settimo giorno.
Qualcosa di più pericoloso di una pioggia di proiettili si era abbattuto sulla scuola, facendosi strada tra le fila inquiete delle reclute: la speranza. La speranza di avercela quasi fatta. Ilyas ne avvertì il profumo tentatore e cercò di ignorarlo. Doveva restare lucido fino all'ultimo, coi piedi ben piantati a terra, senza credere di aver superato il cerchio di fuoco quando si trovava ancora lì davanti a lui, il calore che gli aveva appena accarezzato il viso. Sapeva che era arrivata la fase più difficile della Simulazione, l'ultimo tratto del percorso che, per sua esperienza, era quello che ti toglieva l'ultima stilla di fiato che avevi conservato in gola.
Il rumore degli elicotteri era una presenza costante durante il giorno; li sentiva ronzare in lontananza dalle prime luci dell'alba e avvicinarsi per sorvolare la zona in perlustrazione o bombardare un quartiere vicino. I russi li stavano accerchiando, facendogli terra bruciata attorno. Fra poco anche la scuola sarebbe stata nel mirino dei caccia-bombardieri, lo sapevano e si erano già attrezzati per reagire.
Ilyas dormiva vestito, le poche ore che riusciva a dormire: le uniche cose che si toglieva erano la giubba e gli anfibi. Teneva il pugnale alla cintura, la pistola infilata dietro la schiena. Quando era arrivato a Batum, gli avevano dato tre caricatori d'emergenza, che aveva messo nelle tasche laterali del gilet, e una scatola impermeabile zeppa di munizioni. A parte il kalashnikov non aveva nient'altro. In quei tre giorni in cui avevano dovuto proteggersi dal fuoco nemico avevano quasi esaurito i razzi e le bombe, potevano contare giusto su alcune lanciagranate AGS, due posizionate sul tetto e le restanti nei due cortili. Di granate i russi ne avevano a iosa e l'ultimo giorno le lanciarono a più riprese. Secondo Arkaša erano molto peggio delle bombe: di una bomba si può calcolare il punto di caduta e poi il fragore di una granata è infernale.
Sembra in effetti di trovarsi all'inferno, pensò Ilyas quando salì sul tetto, gli occhi al sole nascosto dietro una coltre densa di fumo.
C'era Dragan insieme a lui. Gli sfiorò il braccio mentre si posizionavano dietro il parapetto, tra i sacchi e le lastre della postazione di guardia.
«Qualunque cosa succeda stanotte, stammi vicino, ok?»
Lui sbuffò. «Che fai, vuoi proteggermi? So pararmi il culo da solo, grazie tante.»
«Lo so.» L'altro guardava oltre il parapetto. «Dico solo: stiamo vicini, pariamocelo a vicenda.»
«Ok.» Ilyas sorrise allora. Si rilassò contro il muro, sollevò gli occhi al cielo che si stava oscurando gradualmente, illividito dal viola del crepuscolo. «Per i dieci giorni di riposo che ci spettano dopo la Simulazione andrai in Serbia?»
Quella decina di giorni, previsti dai protocolli, non li avevano persi insieme alla licenza; anche quella era stata una fortuna.
«Sì. Tu rimani a Darial con la tua famiglia?»
«Non è la mia famiglia. È la famiglia affidataria di mia sorella.»
«Ma rimani con lei, no?»
«Sì.» Ilyas sorrise di nuovo. «Finalmente avremo un po' di tempo da passare insieme.»
Dragan lo occhieggiò. «Tieni tanto a lei.»
Lui non capì se fosse una domanda o meno, ma rispose lo stesso: «È l'unica che mi è rimasta. Della mia famiglia, dico, quella vera. L'ultimo legame con mia madre.»
Si rese conto di aver detto troppo e si azzittì, mordicchiandosi il labbro inferiore, un gesto che non faceva spesso. Anche Dragan fece un gesto raro: sorrise.
«Puoi parlare ogni tanto di te, non ti morde nessuno se lo fai.»
«Parlo di me.»
«Non lo fai mai in realtà.» Poteva suonare come un rimprovero, ma non lo era. «In queste ultime settimane sono stato più io a parlare ed è dire tanto! Ti ho detto di mia madre, di mio padre, della Cecenia, tu invece è già tanto se mi hai detto che hai una sorella, cosa che peraltro già sapevo.»
«Non mi hai detto il tuo nome.»
«Come?»
Ilyas si girò a guardarlo. «Il tuo nome vero. Quello non me l'hai ancora detto.»
Dragan, che aveva la bocca aperta per ribattere, la richiuse. Lo fissò. E poi disse: «Asian.»
Ilyas sbatté le palpebre, sorpreso. «È...»
«Il mio nome vero, già. Quello con cui sono nato, che mi ha dato mio padre. Era il nome di mio nonno.» Dragan girò il viso verso il sole calante. «Dragan è il mio secondo nome e l'ho adottato quando io e mia madre ci siamo trasferiti.»
«Asian» ripeté Ilyas. Se lo girellò in bocca, lo assaporò. «È un bel nome.»
«Penso di sì. A volte mi manca. Un po' come mio padre.»
Decisamente Dragan – Asian – aveva abbassato di molto il ponte levatoio delle confidenze. Ilyas si sentì allora un po' in colpa per la propria reticenza. Quel nome che l'altro gli aveva rivelato era un regalo che non si era aspettato, che sentiva avrebbe dovuto meritarsi.
«Mia madre diceva che possiamo nascere coi nomi sbagliati, ma poi quel che conta è quello che ti porti dentro.»
«Da come ne parli, le poche volte in cui ne parli, tua madre sembra essere stata una persona saggia. Tutto il contrario di te, insomma» osservò Dragan, cauto.
A lui venne da ridere. «Forse perché la ricordo solo così. Quasi una figura mitologica più che una persona in carne e ossa. Ho conservato soltanto bei ricordi di lei, non le volte che mi bacchettava le dita quando cercavo di rubare un ćevapčići da tavola.» Si sentì gli angoli del sorriso attenuarsi mentre una voce diversa, più bassa e profonda, si impossessò della propria. «L'ho vista morire. È morta davanti ai miei occhi e non ho potuto fare nulla per impedirlo.»
Aveva stretto i pugni senza accorgersene. Erano passati circa sette anni da quella notte, eppure la scena era ancora vivida nella sua memoria: sua madre che lo abbracciava, che gli diceva di andarsene, di non voltarsi indietro; sua madre che moriva nel buio e nel fuoco mentre lui cominciava a correre.
«Non avresti potuto fare nulla» disse Dragan dopo un po'.
Ero un lupo. Avevo dodici anni, ma ero un lupo. Avrei potuto fare qualcosa.
Se l'era detto tante volte.
«Lo so.» Si lasciò sfuggire un sospiro e fu tentato di circondarsi le ginocchia con le braccia, anche quello un gesto che non faceva spesso, che risaliva a quando era solo un bambino forse. «Comunque sono contento che lei sia rimasta con me. In qualche modo.»
La rivedeva in Aisha, certe volte, soprattutto quando sua sorella sorrideva lieve e dolce, spensierata. E la rivedeva quando le cose andavano male, come un monito che gli dava forza. "Vivi" la sentiva dirgli e così, anche quando tutto attorno a lui era morto come in quel momento – le case, il cielo, il silenzio prima delle bombe –, sua madre era lì, non nel buio di una notte che lui non voleva ricordare, o nella terra che non l'aveva sepolta, e nemmeno nell'addio che aveva stentato a darle; era lì con lui, sopravvissuta nel tepore dei suoi ricordi, annidata nel calore del suo petto, laddove non aveva mai smesso di fare quello che gli aveva chiesto prima di lasciarlo: vivere, nonostante tutto.
Dragan stava per rispondere, ma il fischio di uno sparo di mortaio risuonò in lontananza. Si abbassarono e scrutarono i dintorni col binocolo.
Accesero la ricetrasmittente.
«Base, ci siete?»
«Base in ascolto» rispose una voce, quella di Milos forse.
«Colpi di mortaio a sud.»
«Registrato. Mandiamo una pattuglia. Tutto libero lì sul tetto?»
«Per ora sì. Passo.» Dragan chiuse la comunicazione e guardò Ilyas. «Dobbiamo tenere la posizione in queste ultime ore, poi sarà tutto finito.»
Rimasero sul tetto finché non vennero a sostituirli. Ilyas riuscì a dormire un paio d'ore e persino a darsi una lavata nella doccia della palestra. Arkaša era nel box accanto e canticchiava una vecchia canzone di guerra del suo paese, che tradusse quando altri glielo chiesero:
Era giovane e innamorata, era felice e amata,
ma il ciclone della guerra ha portato via tutto
e l'ha spinta sotto un cielo nemico ¹
I colpi di mortaio si intensificarono verso il tramonto. Ci fu la prima scarica di granate quando il sole scomparve dietro la linea degli edifici, tutti simili a scheletri rinsecchiti con squarci neri tra le fondamenta spezzate. Ilyas tese i muscoli. Andò alla ricerca del confortante peso del pugnale. Se l'era legato in vita per non perderlo; sentire il manico d'osso gli diede un senso di sollievo.
Qualunque cosa accada, se ho un coltello con me, sono a posto.
Avrebbe sempre saputo reagire con un coltello in mano. Gli bastava quello: una lama affilata e carne molle in cui affondarla.
La prima esplosione fu così potente che l'intera scuola tremò. Tutto si spense per un attimo angosciante, poi il generatore di emergenza si azionò spargendo una luce pallida e smorta tra i corridoi. Le reclute, raggelate dalla tensione, si animarono per accendere anche le torce.
«Sono qui» disse qualcuno.
Il secondo colpo fu ancor più potente del primo. Si sentirono delle urla dal tetto. Ilyas capì che era stato sfondato, anche se non era crollato. Passi affrettati per le scale. Grida. Bestemmie. Ancora colpi. Lui si raddrizzò insieme agli altri e imbracciò il kalashnikov.
«Spariamogli nel culo a quei russi di merda» sentì qualcun altro dire – Arkaša, con molta probabilità.
Ilyas li vide: i nemici stavano entrando nel cortile, protetti dall'artiglieria che sparava come impazzita contro le mura. Un brulichio di uomini in kaki che sapevano benissimo di trovarsi davanti a una resistenza armata, ma non avrebbero esitato per quell'ultimo atto, forti dei privilegi dati dal simulatore. Il bombardamento aereo di quei giorni aveva distrutto quasi tutto di Batum: le reclute non avevano altro posto dove andare e d'altronde la Simulazione non prevedeva la fuga come soluzione se non quando tattica, nel mezzo di una battaglia. Avrebbero dovuto combattere, conquistarsi la promozione con le unghie e con i denti.
Le mitragliatrici alle finestre cominciarono a sparare. Falciarono la prima linea dei russi, ma quelli dietro procedettero, raggiunsero l'entrata e la fecero saltare con un mortaio.
«Avanti, dietro a me!» gridò uno degli ufficiali che Ilyas non ci mise molto a riconoscere come Andrej Saganev, che aveva preso il comando e spronava gli altri ad avanzare.
Le reclute si buttarono tutte dietro le postazioni di difesa che avevano costruito negli anfratti della scuola. Cominciarono a sparare. Chi aveva ancora delle granate era in prima linea e le lanciò appena i federali approdarono nel corridoio del primo piano. Ci fu un'altra esplosione e si alzò il fumo. Ilyas intravide il contorno di un corpo proprio davanti a lui. Elmetto piatto, divisa kaki di combattimento della Legione. Con un colpo del calcio del fucile mandò a terra la sagoma e gli sparò prima che potesse rialzarsi. Tutto attorno a lui grida, corpi che avanzavano e corpi che cadevano. I fucili d'assalto erano roventi. Una delle mitragliatrici nemiche crepitò e un volo di proiettili si abbatté contro la loro linea di difesa. Arkaša venne colpito alla spalla.
«Cazzo! Cazzo! Venite avanti, stronzi, venite se avete il coraggio!»
Il loro piano era trascinare il nemico nel cortile antistante dove avevano sistemato gli ultimi ordigni esplosivi, ma i russi erano serrati nell'attacco, si muovevano in sincrono come una mostruosa macchina di efficiente morte; li innaffiavano di proiettili, tirando con i loro fucili d'assalto Moloch potenziati appoggiati al fianco; il loro fuoco di saturazione si dilatava a ventaglio distruggendo tutto quello che aveva davanti. Ilyas vide molti dei suoi compagni cadere e lui stesso sentì fischiare la morte a solo due centimetri dall'orecchio. Se fosse morto ora, avrebbe perso perché la regola delle tre vite non valeva più l'ultimo giorno di Simulazione, come aveva detto Karkarov. Ognuno di loro poteva contare su una sola vita, come nella realtà.
L'inferno sembrava essersi scatenato all'interno della scuola. Dappertutto risuonavano gli spari. La luce veniva e oscillava. Ilyas non vedeva quasi niente e sapeva che i suoi compagni erano nella stessa condizione, mentre i russi potevano fare affidamento sui visori notturni. Così accerchiati e praticamente ciechi l'unica mossa era sparpagliarsi; riuniti sarebbero stati un bersaglio troppo evidente.
Dragan e altri caposquadra diedero l'ordine: si divisero in vari gruppi per coprire diversi bersagli simultaneamente e il fuoco si intensificò su tutte le linee. Ilyas seguì Dragan e si trovò a combattere nello spazio stretto della tromba di una scala, dove abbatté un paio di uomini, e poi nella mensa, dove ingaggiarono una feroce sparatoria tra i tavoli.
«Tutti giù!» gridò Dragan.
Si tuffarono dietro i banconi per evitare le pesanti scariche. Riuscirono a tirar su una specie di barricata, ma i russi non si arrestarono: sembrava che le loro scorte di energie fossero inesauribili come le loro pallottole.
Che cazzo facciamo, rimaniamo qui? pensò lui mentre sparava senza tregua. Uno scatto secco: le cartucce nel caricatore erano terminate. Tuffò la mano nel gilet, afferrò un altro caricatore e riprese a sparare senza mollare il grilletto. Le dita non gli tremavano, il fiato sì.
Di questo passo avrebbero presto finito le munizioni e allora cosa avrebbero fatto, avrebbero aspettato che i nemici venissero a sgozzarli come agnelli? I russi puntavano a quello, a spremerli fino all'ultima cartuccia e ucciderli o catturarli? E sarebbe stato meglio se li avessero catturati – era vero che solo così avrebbe avuto la possibilità di diventare tenente?
In verità in quel momento lui non sapeva neanche più per cosa stesse combattendo. Per la promozione, per Aisha, per l'onore, per la speranza di una vita migliore? Forse no. Forse combatteva solo per istinto, per la paura di perdere una vita preziosa, nonostante sapesse che, uscito da lì, sarebbe stato ancora vivo. Ogni minuto era l'inferno: aveva un compagno al fianco e l'attimo dopo poteva essere ridotto a un magma di carne e sangue. Con tenacia ma anche disperazione si piazzava dietro il mirino e combatteva solo per combattere, uccideva solo per uccidere. Non aveva pensieri: l'unica cosa che sapeva era che, se avesse smesso di sparare, lo avrebbero ammazzato subito.
Il fucile tacque di nuovo. Nella luce singhiozzante dei tubi al neon, tolse il caricatore e ne estrasse dal gilet un altro paio, tenuti insieme dal nastro isolante blu. Mentre inseriva le cartucce, vide Dragan poco lontano, il viso tirato, incastonato in una concentrazione febbrile, Tibor con guance d'alluminio e labbra sottilissime, Milan Tomic pallido come un morto, Erazm invece rosso in faccia, che affannava e urlava... Tutti sparavano senza fermarsi e Ilyas non fu da meno. Guardando avidamente al di là del banco dietro cui si era andato a rifugiare, lanciò una scarica. Sentì di essere andato a bersaglio. Senza togliere il dito indice della mano destra dal grilletto, con la sinistra sfiorò il manico d'osso del coltello per assicurarsi che fosse ancora lì.
E poi ci fu un'esplosione. Diversa dalle altre: non era quella di una granata, né di una bomba. Il rumore fu assordante e si dilatò in cerchi concentrici. Ilyas, per un attimo dimentico del fucile, si portò le mani alle orecchie. Anche gli altri non riuscirono a resistere. Il suono era insopportabile, alto e stridente. Come un continuo graffiare di unghie contro una parete metallica. Gli sembrava che le orecchie gli stessero sanguinando, che il suo intero corpo venisse stritolato da una forza invisibile come se fosse finito nello spazio siderale e stesse implodendo.
Hanno lanciato una bomba a ultrasuoni, realizzò e qualcosa precipitò nel fondo del suo stomaco e nello stesso momento premette spasmodico contro le tempie: terrore. Sapeva come funzionavano quelle armi: erano uno dei più sofisticati armamenti in dotazione dell'esercito, un fiore all'occhiello della Legione insieme ai fucili radioattivi, che i russi, muniti di tappi speciali, usavano per neutralizzare il nemico, causandogli perdita momentanea dell'udito, stato confusionale, nausea e apatia, e a volte arrivavano addirittura a ucciderlo. Era impossibile reagire quando i fasci di ultrasuoni ti colpivano. Lui provò a riprendere il fucile, ma gli lacrimavano gli occhi e non riusciva neanche a muovere le dita. Gli sembrava di essere un ubriaco al cesso che balordamente non trova l'uscita e picchia atterrito contro le pareti. Non riusciva a muoversi, a parlare, a pensare. La testa gli stava scoppiando.
Cazzo, no, urlò dentro di sé col panico che cominciava a tracimare i bordi della coscienza. Distinse i suoi compagni nelle stesse condizioni, che strisciavano a terra e gemevano di dolore. Intravide i russi che fuoriuscivano dalla loro barricata di banchi e avanzavano verso di loro. Ombre lunghe, più lunghe della notte che premeva contro l'edificio.
No, no, no.
Riuscì in qualche modo a rialzarsi. Goffamente, con sempre la sensazione che un martello gli stesse trapanando la testa, barcollò in avanti, provò a prendere il kalashnikov, ma i russi erano già arrivati e gli tolsero il fucile dalle mani insieme alla pistola. Niente più spari: gli furono addosso con calci e pugni. Ilyas scorse Dragan che provava a difendersi, ma ben tre uomini si precipitarono a tenerlo fermo. Non riusciva a distinguere chi fossero gli ufficiali che li avevano accerchiati: non c'era abbastanza luce, molti di loro portavano maschere antigas e la sua vista era sdoppiata, pulsante di punti neri simili a falene impazzite. Gli sembrava che l'effetto dell'ultrasuono fosse scemato, di poco, e ora riusciva a percepire alcuni rumori in sottofondo, ma si sentiva ancora come un ubriaco che cammina su un deserto di uova.
Era caduto a terra, non sapeva come. Qualcuno doveva averlo spinto. Con la testa impastoiata, in mezzo ai russi che urlavano, strisciò sui gomiti sul pavimento, tra calcinacci rotti e bossoli vuoti, cercando di ritrovare una scintilla di pensiero, un qualcosa che lo spingesse ad alzarsi e combattere, non starsene lì come un verme rattrappito, pronto a essere schiacciato.
E un pensiero infine, fragoroso quanto una detonazione, si delineò netto nella sua mente: il coltello.
Con orrore si accorse di non averlo più attaccato alla cintura. Strizzò gli occhi, girò la testa da un lato all'altro e miracolosamente lo vide. Stava a circa un metro di distanza da lui, caduto a terra per via della sua stessa caduta. Si issò sui gomiti, poi sulle ginocchia. Gli ci volle qualche secondo per trovare un malfermo senso del sopra e del sotto. Gattonò in avanti, si sporse verso l'arma. Quindici, dieci, cinque centimetri. Doveva prenderla. Doveva...
Qualcosa lo afferrò da dietro. Una mano che gli prese il colletto della maglia sotto la giubba e tirò forte, così forte che lo fece annaspare per la momentanea mancanza d'aria. Si ritrovò sbalzato all'indietro con la mano che divenne un braccio e, brutalmente, lo tirò su in piedi come se si trattasse di un fantoccio fatto di iuta. Prima che Ilyas potesse realizzare cosa stesse succedendo, l'aggressore portò il braccio sopra la sua testa, lo abbassò e lo avvolse attorno al suo collo, mentre con l'altra mano afferrava quella del braccio appena messo in uso e gli chiudeva la testa e il collo in una morsa. Iniziò a stringere.
Merda, fu l'unica cosa che Ilyas riuscì a pensare. Non trovò neanche la forza di gridare. Riuscì solo ad agitarsi mentre l'aria gli fluiva lentamente ma inesorabilmente via dai polmoni. Chiunque fosse ad averlo assalito stava stringendo così forte da dare l'impressione di volerlo strangolare e lui boccheggiò come un pesce appeso all'amo, si dibatté convulsamente, agitò le gambe in aria, conficcò le unghie nel braccio che lo stava stritolando, aprì la bocca, rantolò esagitato una protesta senza voce.
Lasciami, lasciami, sto soffocando, sto soffocan...
Il braccio lo lasciò davvero a un certo punto. Ilyas non seppe se fu per il modo in cui si era dimenato, ma si ritrovò di nuovo a terra, a succhiare aria in singulti lacerati, la testa ancora troppo impastoiata, la vista appannata, i polmoni in fiamme e gli arti liquidi. Con la coda dell'occhio, mentre era lì a carponi ad ansimare, gli parve di scorgere un paio di gambe aggirarlo, portarsi vicino al punto dove si trovava il coltello e chinarsi per afferrarlo.
Poi non capì più niente.
Fu tutto molto veloce: prima ancora che avesse ripreso a respirare normalmente, la mano calò di nuovo, lo riafferrò per il colletto della maglia ma stavolta non lo sollevò: lo trascinò per terra come fosse una carriola presa per il manico. Ilyas cadde sulla schiena e appena sentì il collo della maglia risalire a stringergli la gola ricominciò a dibattersi. Portò le mani ad abbassare il bordo di stoffa e tentò di rialzarsi, ma l'aggressore – ma chi era? – sembrava in possesso di una forza straordinaria. Non lo mollò, né gli permise di rialzarsi; lo trascinò di peso sul pavimento come fosse un cane preso al laccio, lui a terra che cercava di liberarsi, il panico che si allargava in cerchi sempre più concentrici nel buio della coscienza.
Rapidi flash intermittenti dell'ambiente circostante gli si affacciarono alla vista come fulmini scaricati nell'aria: c'erano i suoi compagni, tutti e terra, chi cercava di schermirsi dai calci, chi era svenuto, chi forse già morto. Cercò in quella massa indistinta Dragan e gli parve di scorgerlo riverso al suolo, con mezza faccia insanguinata, gli occhi chiusi e due soldati attorno a lui che si chinavano ad afferrargli le caviglie. Forse fu un'allucinazione. Sperò che fosse un'allucinazione.
Era finito in un incubo dai contorni incerti: sentiva ancora la testa rimbombare come in una camera d'eco, l'effetto lungo degli ultrasuoni che picchiettavano contro i timpani, ma sia la sua vista che il suo udito stavano gradualmente tornando alla normalità e fu in grado di capire che era stato catturato insieme agli altri, ma stava venendo trascinato via, via dalle reclute e dai soldati russi che gridavano ordini, ridevano e si congratulavano tra loro. L'ultima cosa che vide prima di oltrepassare la soglia della mensa fu uno degli ufficiali, forse lo stesso Saganev – aveva i capelli biondi, più pallidi della luna affacciata sui vetri infranti – che tirava fuori una fiaschetta.
«Brindiamo alla vittoria!» lo sentì gridare o forse anche quello fu frutto della sua immaginazione. Non lo sapeva: gli sembrava di non saper riconoscere più la realtà, ovattata com'era.
I suoi sforzi per liberarsi si erano fatti blandi. Più si agitava più si era accorto che rischiava di strozzarsi con le sue stesse mani. Chiunque lo avesse preso non aveva intenzione di lasciarlo andare e lui si sentiva debole, ancora scosso dalla bomba a ultrasuoni.
Infidi russi del cazzo, pensò inghiottendo la rabbia in fondo alla gola. Facile vincere così.
Provò a sollevare la testa e ruotò gli occhi all'indietro per vedere chi era l'uomo che lo stava trascinando in quel modo, ma nel corridoio era buio pesto e scorgeva solo una sagoma alta, una schiena lunga e spalle ampie, capelli del colore indistinguibile. Chi diavolo era? E perché lo stava portando via? Cos'è, avevano deciso che ognuno si pigliava la sua recluta e se la maltrattava in solitaria?
Era un metodo che si usava in guerra, lo sapeva bene: spesso quando si veniva catturati si veniva torturati da un singolo uomo, il cosiddetto inquisitore, che faceva domande e studiava attentamente le reazioni del prigioniero per capire quali tasti premere. Le torture di gruppo avvenivano più nel quadro della punizione; se c'era bisogno di tirar fuori qualcosa al soldato catturato, era più funzionale un unico inquisitore, come in una partita a scacchi dove il prigioniero partiva svantaggiato, senza dubbio, ma anche il suo carnefice aveva i suoi ostacoli da superare.
C'erano sempre due scogli per l'inquisitore: prima quello immediato di distruggere la sua vittima fisicamente e poi quello più difficile di farlo a pezzi mentalmente. Il colonnello Karkarov, che era quello che si occupava di istruirli sulle peggiori situazioni che si sarebbero trovati ad affrontare in campo, gli diceva che in ogni guerra lo svantaggio tattico principale è che non conosci la psicologia, le debolezze e le risorse intime del tuo avversario. Alcuni possono crollare al primo cenno di tortura, altri non si arrenderanno mai.
«Lungo lo spettro tra i due estremi ci siamo tutti noi – tutti voi» soggiungeva e li guardava con severità come se volesse capire dalle loro facce dove si posizionavano.
Un inquisitore non può mai essere certo di avere raggiunto il suo obiettivo, anche questo Ilyas sapeva. I segnali sono difficili da riconoscere: saprà di non poter giudicare dallo stato fisico del prigioniero, perché quest'ultimo di solito esagera i danni; dalle botte poi si possono valutare solo le condizioni fisiche, non lo stato mentale, che è la vera cortina da sfondare. Tuttavia, una cosa che era pronto a scommettere venisse insegnata a tutti, dall'esercito federale alle cellule ribelli nelle montagne, è che gli occhi non mentono. Che puoi fingere tutto, dolore, indifferenza, stoicismo, disperazione, coraggio, ma gli occhi non riescono a reggere l'inganno che il corpo può così abilmente architettare. E quindi stava solo a lui far sì che chiunque lo avesse catturato non vedesse attraverso quella finestra di verità, l'unica che doveva tenere ermeticamente chiusa.
Mentre cominciava a riacquistare lucidità di pensiero, si accorse che avevano attraversato il corridoio che portava verso la cantina, un tragitto breve che eppure gli era sembrato più lungo del campo di manovra. L'aggressore si fermò sulla soglia delle scale, una gola nera nel buio. Ilyas ne approfittò per cercare di rialzarsi – non sentiva più le gambe molli e neanche più fitte lancinanti alla testa –, ma l'uomo, sempre di spalle, lo afferrò prima che riuscisse a raddrizzarsi: con un braccio gli circondò la vita e con l'altro prese il suo braccio destro per torcerglielo dietro la schiena usando ancora quella forza che sembrava potesse spaccargli tutte le ossa del corpo.
«Lasciam...» provò a gridare lui, ma venne spinto in avanti, lungo le scale immerse nell'oscurità.
Per poco non capitombolò giù; rischiò di inciampare, ma la presa dell'altro dietro la schiena era salda e lo guidò fino alla fine degli scalini.
Ilyas sentiva il sudore gelido lungo il viso, la paura un obolo acido in bocca. Non capiva: stava venendo portato là sotto? Era quello il posto che i russi avevano deciso di usare per torchiare i prigionieri? Aveva esplorato la cantina nei giorni precedenti: aveva più l'aria di un magazzino sotterraneo dove erano ammassate ogni genere di cianfrusaglie, tra cui un paio di cisterne d'acqua. Un bel posticino, certo, ma troppo piccolo per ospitare tutti. Avrebbero dovuto fare a turno o forse gli ufficiali rimasti nella mensa si erano scelti altri loculi; in fondo in quella scuola dissestata c'era l'imbarazzo della scelta di angoli dove poter torturare poveri disgraziati in totale tranquillità.
Sono nella merda, pensò, un altro pensiero febbrile sfuggito alle maglie della mente. Cercò comunque di rimanere lucido, calmo. In una situazione come quella l'ultima cosa che poteva fare era mostrare la paura. Sapeva anche che avrebbe dovuto mostrarsi docile e mansueto, più debole di quanto si sentisse in realtà, come se fosse totalmente spaesato. A parte ogni altra considerazione, era la tattica migliore per risparmiare le energie residue in modo da essere pronti per la fuga. Lui la mansuetudine non sapeva neanche come si scriveva, ma avrebbe tentato di tutto per uscire vincitore da lì.
La porta della cantina si aprì dopo aver girato la chiave già nella toppa: l'uomo la spinse con la schiena ed entrò trascinandoselo dietro. Ilyas puntò i piedi sulla soglia e cercò di indietreggiare, di sfilarsi da quella presa di ferro, ma si guadagnò solo una stretta più forte al braccio che lo fece rantolare di dolore. Venne sospinto all'interno della cantina, buia come il corridoio che aveva appena attraversato, e non fece in tempo ad abituarsi a quell'ulteriore oscurità, densa e quasi materica, che l'altro gli liberò il braccio e lo spinse a terra con un calcio.
Le sue ginocchia toccarono il suolo con un tonfo sonoro e il suo corpo si tese in attesa di un altro calcio, anzi della probabile sequela di calci che presto gli si sarebbero abbattuti sulla schiena. Non ci furono altri colpi, però. Approfittando di quell'insperato momento di stasi, Ilyas si allontanò il più possibile dall'altro, che nel frattempo si era girato per chiudere la porta a chiave; raggiunse il muro di fronte dove in alto si trovava una feritoia stretta come una grata che lasciava filtrare, debole e malata, una singola striscia di luce lunare, non abbastanza luminosa da fugare le ombre, ma abbastanza forte da permettergli di trovare un punto di appoggio sul muro sbrecciato. Si resse con la mano e riuscì a rialzarsi. Constatò che le gambe non gli tremavano e che la sua mente era tornata reattiva, sgombra da qualsiasi ronzio fastidioso.
Col fiato corto, una mano a massaggiarsi il collo, si girò verso la porta. Una fioca luce si accese, azionata da un interruttore posizionato chissà dove, e strisciò nel buio come un fantasma opalescente, così da permettergli finalmente di vedere chi era lo stronzo che lo aveva trascinato fino a lì, l'uomo che avrebbe dovuto sconfiggere per vincere.
Alzò lo sguardo per guardarlo dritto in faccia e il fiato gli rimase intrappolato in gola per un momento.
Cosa?
L'uomo fece un passo avanti, mostrandosi anche alla misera luce della luna. Tra le sue mani balenava un luccichio metallico.
«Cercavi questo?» chiese, calmo, pacato, una voce che risuonò come vuota tra le pareti. Sollevò il coltello, ne osservò attentamente il filo. «Scelta interessante come arma.»
Ilyas era paralizzato contro il muro, afono di parole, più che spaventato incredulo.
Non è possibile.
Lui?
Jagun Bezbòznij rimase a fissare il coltello un altro po', poi lo abbassò e lo lanciò a terra, nella pozza di luce lunare, davanti a lui.
«Prendilo»ordinò con quella voce che gli aveva sentito tante volte, in camerata, nelcampo di addestramento e di manovra, ovunque nel Comando e per mesi, e cheeppure gli sembrò di sentire per la prima volta. «Fammi vedere cosa sai fare.»
¹ Verso di una canzone croata molto bella, che parla dell'assedio di Sarajevo: ("Suona, suona per me, fratello"). La linko al capitolo. Dalla strofa citata ho tratto il titolo di questa storia. È una canzone che ho trovato molto adatta per descrivere quel che succederà, ahimè...
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