XIII - Through the broken looking glass - seconda parte
L'atmosfera non sembrava neanche più quella dell'esercito, pensò Ilyas mentre approdava nel campo. Le ex reclute non stavano in riga, bensì sparpagliate in gruppetti a parlare tra loro come fosse l'ora d'aria dopo il rancio. C'era chi fumava, chi lanciava esclamazioni, chi accoglieva gli altri appena entravano. Lui si guardò intorno con occhi spenti. Riconobbe molti ragazzi del suo plotone e altri che aveva conosciuto nel Limbo. Erano tutti vestiti con la stessa divisa e pochi portavano il gallone d'argento sul braccio; ne contò giusto una decina tra quelli che superò. I designati tenenti si ergevano con il capo più eretto degli altri, simili a levrieri in una muta. Lui cercò di non farsi notare, di muoversi silente, invisibile nella folla, ma qualcuno si accorse del gallone e molti sguardi lo seguirono. Distinse Erazm Mikhajev, poco distante, impegnato a parlare con altri due ragazzi, la faccia pallida e tiratissima, che si irrigidì ancora di più nello scorgerlo: strinse gli occhi come strinse tra le dita la sigaretta che teneva in mano.
Ilyas lo ignorò.
«Ohi, eccolo lì! Ilyas!»
Una voce familiare si abbatté su di lui. Era Milos, a poca distanza, con Zaid e Arkaša: si mise a fare grandi gesti con le mani per attirare la sua attenzione.
Con le gambe che ancora gli sembravano impallinate, Ilyas raggiunse i tre ragazzi.
«Ve l'avevo detto che non poteva non aver superato il test! E guardate: era proprio come pensavo!»
Milos indicò il gallone sul braccio destro di Ilyas. Mentre Arkaša emise un lungo fischio ammirato tra i denti, Zaid non sembrò sorpreso. Lo fissò coi suoi occhi scuri e calmi.
«Lo pensavo anch'io. Ce l'hai fatta alla fine, Ilyas.»
«Già» si limitò a mormorare lui.
«Ah, cazzo, tu sì che sei un dritto.» Arkaša, che pareva giusto un po' più magro dall'ultima volta che lo aveva visto, gli rivolse un gran sorriso. «Però ora ci devi raccontare tutto.»
«Non c'è niente da raccontare.»
«Come niente!» protestò Milos. Anche lui sembrava sempre lo stesso, a parte le occhiaie che gli gravavano sotto gli occhi, che incastonavano invero i visi di tutti e tre i ragazzi. Gli occhi di Milos erano vispi, comunque, colmi di curiosità. «Come hai fatto a ottenere il grado? Non eri con Dragan?»
«Dragan?»
Fu come un fulmine a ciel sereno. Quel nome riemerse nell'orizzonte della sua mente per la prima volta da giorni. Si guardò attorno, ma vide solo una selva compatta di divise verdi, indistinguibili l'una dall'altra.
«Dov'è Dragan? È qui?»
«Come se è qui? Intendi se ha superato il test?» Zaid gli scoccò un'occhiata perplessa. «Certo che l'ha superato, pure lui è diventato tenente. Ma scusa, non l'hai sentito questi giorni?»
Ilyas scosse la testa. «Dov'è?» insistette.
Anche Milos gli rivolse uno sguardo confuso. «Arriverà a momenti, immagino. È tornato ieri dalla Serbia, l'ho sentito io. Quindi è vero che non eri con lui all'assalto alla mensa?»
«Eravamo insieme, ma poi siamo stati... separati.»
«Ah, allora ti sei salvato da Saganev e quegli altri.» Milos non riuscì a trattenere un brivido e li guardò tutti. «No, vabbè, io ve lo dico: Dragan è più di là che di qua. L'ho sentito ieri e aveva la voce di un morto, giuro. Se poi è vero quel che dicono...»
«Ma non ti ha detto niente?» chiese Arkaša. «Io ho sentito robe assurde.»
«Ma figurati se mi ha detto qualcosa e poi mica io gli ho chiesto niente! Al telefono poi! No, no, mi sono limitato a chiedergli come stava. Spero oggi ci dirà qualcosa, in realtà.» Milos allungò il collo verso l'entrata da dove stavano sciamando un paio di nuovi soldati. «Anche solo per capire se Erazm si inventa balle.»
«Erazm?» gli fece eco Ilyas.
«Sì, Erazm. Era anche lui con Saganev e i suoi cani scodinzolanti tra cui proprio il Cane Pazzo, il caporale Ludenkho. Erazm però non ha ottenuto il grado di tenente al contrario di Dragan. Ma possibile che non sai niente, Ilyas? Ne parlano tutti! Saganev ha tenuto Dragan, Erazm e altre reclute per tre giorni dopo la fine dell'attacco e Dragan è stato l'unico a uscirsene come tenente. Gli altri sono stati solo promossi o beh...»
«Ho sentito che Tibor Zhuk se l'è fatta nelle mutande e ha detto le coordinate del covo al primo minuto di interrogatorio» intervenne Arkaša e fece una mezza smorfia. «Quello che faceva tanto il sapientino, ah. Ecco, gli è servito a poco sapere pure gli algoritmi del simulatore.»
«Non sono certo quelli che ti salvano» commentò Zaid con un sospiro.
Ilyas ritornò a guardare Milos. «Tre giorni?»
«Tre giorni, già. Assurdo, vero? Chissà che incubo deve essere stato. Sembra proprio vero che quel Saganev è un mezzo piromane... oh, eccolo lì!» Milos ritornò a sbracciarsi. «Ehi, Dragan, siamo qui!»
Ilyas si voltò. Dragan era appena entrato nel campo, così alto da essere subito distinguibile nella folla. I suoi capelli biondi rilucevano sotto il pallido sole mattutino. Sembravano più lunghi mentre la sua faccia appariva più scavata.
Si portò con passo lento e pesante vicino a loro, seguito da non pochi sguardi. Quando li raggiunse, Ilyas lo vide lasciar scivolare lo sguardo su di lui.
«Ehi» disse, atono. Incontrò i suoi occhi e la voce si alzò di un tono. «Ehi.»
Ilyas si limitò a un cenno del capo. Milos si mise subito a parlare, cavandolo d'impiccio da qualsiasi altra esternazione.
«Dragan, eccoti, ti stavamo aspettando. Come va?»
«Non dormo da dieci giorni, ecco come va.» L'altro si strofinò la faccia con la mano. I suoi occhi scuri, dai riflessi verdi, erano gravati dalle palpebre pesanti. «Ho provato coi sonniferi che mi hanno dato, ma non ha granché funzionato.»
«Io ho smesso di usarli perché mi rendevano più rincoglionito» confessò Zaid.
«Una botta in testa funziona meglio» sentenziò Arkaša. Occhieggiò Dragan e sembrò esitare, un atteggiamento che non gli si vedeva spesso addosso. «Quindi... non dormi, eh?»
«Già.»
«Beh, è normale» intervenne Milos. Anche lui adottò un atteggiamento cauto. «Insomma...»
«Cos'è?» sbottò Dragan. «Volete sapere cosa è successo al test?»
«Se ne vuoi parlare...»
«Ci hanno tenuti tre giorni in palestra» iniziò Dragan, la voce dura, stretta tra i denti, che gli fuoriuscì dalla bocca come il fischio di un proiettile. «Saganev e Ludenkho, e c'erano anche Kadyshev e Antonov, più un'altra decina di ufficiali. Non lo so, si davano il turno con altri che stavano torchiando altre reclute altrove, ma Saganev era sempre lì con noi. Era lui che conduceva gli interrogatori. Ci ha tenuti in piedi contro il muro per tre giorni. Non potevamo sederci. Non potevamo mangiare. Non potevamo dormire. Se uno di noi provava anche solo ad abbassare le palpebre, cominciavano gli spari. Saganev ci prendeva uno a uno, ci interrogava nei bagni: ci teneva la testa ficcata nel cesso finché non svenivamo. A ognuno diceva che la recluta prima di lui lo aveva tradito, poi ha cominciato a farci lottare uno contro l'altro a mani nude. Ha detto che chi avesse ucciso l'avversario sarebbe stato promosso a tenente. Uno ci è cascato, Arek Aliyev: ha strangolato Milan del nostro plotone, allora Saganev ha preso la pistola e gli ha sparato in testa. Non si tradiscono i compagni, ha detto. A superare il test è stato solo Milan.»
Nessuno di loro parlava. Milos fissava Dragan con gli occhi sbarrati.
«C'era quel tipo, Tibor, lui ha rivelato le coordinate del covo il primo giorno. Saganev gli ha sbattuto la testa contro lo specchio del bagno e Kadyshev gli ha ordinato di raccogliere i pezzi in un minuto e che, se non lo faceva in tempo, gli avrebbe sparato in mezzo alle gambe. Tibor ha avuto un attacco di panico, ha perso la testa, è solo per questo che non ha superato la prova.» Dragan strinse le labbra. «La maggior parte di noi è stata promossa. Eravamo una dozzina. Volevano solo vedere se avremmo retto. Ma Saganev voleva qualcosa di più. L'ho capito il terzo giorno quando ha preso un attizzatoio e ha cominciato a bruciarci le piante dei piedi.»
«Che cosa?»
Milos non si trattenne e lo interruppe con quell'esclamazione. Arkaša emise un grugnito e buttò giù qualche imprecazione. Persino Zaid perse per un attimo la sua espressione calma e corrugò profondamente la fronte. Ilyas non disse niente. Guardava Dragan che non guardava nessuno.
«Ci ha bruciato i piedi, sì, a noi che eravamo rimasti. C'era anche Erazm.» Sembrò occhieggiare l'altro ragazzo che si trovava a pochi metri di distanza da loro, ancora intento a fumare una sigaretta dopo l'altra. «Erazm e gli altri hanno pianto e urlato, urlavano come animali scannati. Ma nessuno ha rivelato il covo e allora gli ufficiali hanno dichiarato che avevano superato il test.»
«E tu invece?»
«Io non ho urlato.»
«Sul serio?»
«Ho capito che era l'unico modo. Che Saganev voleva quello: che qualcuno lo sfidasse. Non so perché... l'ho pensato... era tutto così surreale, mi sembrava di essere nella sua pelle. Nella pelle di quello stronzo. Voleva divertirsi, voleva qualcuno che non lo annoiasse, e così l'ho fatto. Non ho urlato, non mi sono mosso, non ho neanche protestato quando mi ha avvicinato l'attizzatoio all'occhio. Mi sono morso così forte la lingua che credo di essermela staccata. Saganev allora è scoppiato a ridere. Questo è un coglioncello di razza, ha detto ed è stata l'ultima cosa che ho sentito perché poi mi ha sferrato il calcio della pistola alla tempia, c'è stato il buio e subito dopo il bianco. Mi sono risvegliato e ho scoperto di essere diventato tenente. Ero l'ultimo.»
Dragan finì quel discorso come se avesse appena concluso una lunga corsa. Affannava leggermente. Alzò gli occhi su Ilyas e lui non seppe decifrare la sua espressione.
«Cazzo, Dragan!» esclamò Arkaša. «Che roba. Lo puoi proprio dire: te la sei sudata questa dannata promozione. Complimenti.»
«Poveracci gli altri» sospirò Zaid. «Alla fine sono capitati nel posto sbagliato al momento sbagliato con la persona sbagliata. È tutta questione di tempismo, come in una guerra vera.»
«Di tempismo e sfiga.»
«Sì, appunto, Arkaša, proprio quello.» Zaid rilasciò un altro sospiro e si rivolse a Dragan e Ilyas. «Noi ce la siamo cavata. Non ci hanno catturato. Siamo riusciti a raggiungere il cortile antistante e lì abbiamo lanciato le granate contro i russi. Ci hanno inseguito per i campi, è stata una notte di inferno, ogni due per tre cadeva qualcuno, Arkaša era ferito alla spalla, mentre io ho perso una mano, mi è saltata per un esplosivo, e Milos per poco non si è ritrovato infilzato in un fossato, ma alla fine, non so come, siamo arrivati vivi all'alba e ci siamo ritrovati nella sala di controllo.» Si fissò la mano sinistra, l'espressione impenetrabile. «Che ci crediate o no, per tutti questi giorni ho creduto di non averla. L'alzavo, la muovevo e non mi sembrava vera. Anche adesso non mi sembra vera.»
Scese un breve silenzio a quelle ultime parole, come raccolto.
«Beh, quello che conta è avercela fatta.» Milos accennò un debole sorriso e si rivolse a Dragan. «Forse è stato meglio non essere stato catturato. Tenevo al grado di tenente, lo sai, ma dopo quel che mi hai raccontato... forse è stato meglio così, già.»
Dragan non replicò.
Ilyas lasciò scivolare lo sguardo fino all'ingresso del campo. Dovevano essere arrivati quasi tutti e non erano più di un centinaio; come avrebbero detto i tecnici, la percentuale si era abbassata quell'anno, poco più della metà delle reclute erano state promosse e sfoggiavano ora le loro nuove divise come reduci. Chissà, forse in futuro la Simulazione di quell'anno sarebbe stata utilizzata come modello.
«E tu, Ilyas?»
Lentamente riportò lo sguardo sugli altri. Milos lo stava guardando, ma non era l'unico, anche gli altri lo stavano facendo, Dragan con gli occhi socchiusi, fissi su di lui.
«Cosa?»
«Tu come sei diventato tenente? Se non eri con Dragan, dove...»
«Sono scappato.»
«Ah, sì? Anche tu?»
Zaid corrugò la fronte. «Non sei scappato durante la battaglia però; non avresti potuto prendere il grado così.»
«No» rispose solo Ilyas, una conferma asciutta, detta in tono conclusivo, che però non acquietò Milos.
«Quindi sei scappato da altri ufficiali? Sei finito in un altro gruppo? Con Zamatij e i granatieri per caso? A proposito! Ho sentito che Zamatij è stato stranamente... morbido. Insomma, nei suoi limiti. Una decina di reclute sono state catturate in un'altra parte della scuola, le hanno passate al torchio per un giorno, ma Zamatij stava in disparte e a parte qualche calcio e pugno non ha fatto granché. Me l'ha detto un ragazzo della centocinquantesima divisione che era lì.»
«Non ci credo manco se lo vedo, guarda» borbottò Arkaša.
«Beh, neanche io ci credo tanto...»
Dragan lo stava ancora fissando; Ilyas si accorse del suo sguardo intenso e di nuovo stornò il proprio.
«Come hai fatto a scappare, Ilyas?» riprese Milos.
«Sono scappato.»
«Ma chi ti ha...»
«Non ha importanza» lo scavalcò, un sibilo che ebbe l'effetto di farlo ritrarre.
Arkaša e Zaid si scambiarono un'occhiata, ma nessuno dei due fece domande.
Dragan invece parlò: «Non ti ho più visto nella mensa.» Lo guardava con la fronte lievemente aggrottata, come se stesse cercando di ricordare. I suoi occhi erano limpidi, trasparenti. «Era tutto confuso dopo la bomba, mi sembrava che il sopra e il sotto si fossero scambiati di posto e quando ho provato a cercarti, credo di averti visto, sì, per un attimo, in mezzo al caos. Poi però sono svenuto. Pensavo di ritrovarti in palestra, ma non c'eri.»
«Ero già fuori l'ottavo giorno» fece Ilyas e la sua voce suonò ancora dura, rauca; l'avvertì anche lui dissonante nell'aria.
«Dov'eri?»
«Nella scuola.»
Stava cominciando a innervosirsi. Guardò da una parte e dall'altra, evitando lo sguardo dritto di Dragan.
«E con chi er...»
«Non ha importanza, ho detto.»
Milos intervenne: «Se non ne vuoi parlare, Ilyas...»
«Non ne voglio parlare infatti. Quando ci chiamano?»
Si guardò intorno nel campo gremito. Aspettava di sentire la campanella dell'adunata e di vedere apparire uno dei colonnelli o un altro ufficiale per ordinargli di disporsi in riga e dirigersi verso le camerate designate. Perché non era ancora arrivato nessuno? Non voleva restare là fuori più tempo dello stretto necessario.
E poi ci fu una voce, netta e sibilante. «Perché non dici ai tuoi amichetti come sei diventato tenente, Hasani?»
Ilyas si voltò. Si ritrovò Erazm Mikhajev davanti, seguito da altri due ragazzi. Aveva raggiunto il loro piccolo gruppo e fissava solo lui con occhi stretti e brucianti.
Milos lo apostrofò. «Ehi, Erazm! Che fai qui?»
«Niente. Sono venuto a sentire cosa ha Hasani da dire.» Lo sguardo del bielorusso si appuntò sul braccio di Ilyas, sul gallone argentato, e i suoi occhi parvero bruciare ancora di più quando li riportò al suo viso. «Avanti, perché non ci racconti come è andato il tuo test?»
Zaid ritornò a corrugare la fronte. «Che ti importa del test di Ilyas, scusa?»
«Sono solo curioso. Non si può fare una domanda adesso?»
«Beh, sì, ma lui non ne vuole parlare...» fece Milos.
«Non è che tutti hanno la bocca larga come te» osservò Arkaša con un sorrisetto.
Erazm li ignorò. Teneva lo sguardo fisso su Ilyas. «Ah, non ne vuoi parlare? Chissà perché. È molto conveniente così, vero?»
«Erazm, ma che stai dicendo?»
«Dai, Hasani, lo dici tu o lo dico io?»
Ilyas sentì un brivido gelido scendergli lungo la colonna vertebrale. «Cos...»
«Vuoi che dica io ai tuoi amici da chi sei stato catturato?» Senza dargli il tempo di rispondere, Erazm si voltò verso gli altri. «Indovinate un po' con chi è finito il Leone Pazzo. Dai, per me ci arrivate.»
«Erazm, che ti pigl...»
«Con Bezbòznij» sputò allora Erazm e ritornò a fissare Ilyas con quello sguardo di fuoco. «L'ho visto. Ho visto che ti trascinava via dalla mensa. Dai, avanti, perché non ci dici cosa è successo: ti ha dato qualche botta e poi una carezzina sul capo? Siete andati a caccia insieme?»
«Bezbòznij?» boccheggiò Milos, incredulo. «Davvero?»
«Hai beccato lui?» chiese Zaid inarcando un sopracciglio mentre Arkaša borbottava "che culo".
Dragan non disse nulla. Guardava Ilyas, ma lui non ricambiava lo sguardo, non guardava nessuno, in realtà, neanche Erazm che continuava a fissarlo con quell'espressione piena di odio e rancore. Sentiva di cominciare a perdere la presa su di sé, che sotto i suoi piedi si stava aprendo una voragine. Doveva andare via. Subito. Doveva...
«Non parli più, Hasani? Strano, non sei mai stato uno che se ne sta zitto e buono. La vergogna ti ha forse mangiato la lingua?»
«Erazm, perché non ci dai un taglio?» emerse la voce di Dragan, cupa. «Che cosa stai insinuando?»
«Insinuare? Sto solo dicendo quel che pensiamo tutti e cioè che questa cazzo di prova è tarata, perché da una parte ci sono i poveri stronzi come noi» Erazm indicò se stesso e gli altri attorno, furiosamente, «che magari sono stati torturati per tre giorni e tre notti di seguito, che hanno dovuto sopportare l'inferno e neanche ottenere un riconoscimento, e poi ci sono altri per cui, a quanto pare, la Simulazione è stata una passeggiata di salute. Non è forse così, Hasani? Dai, avanti, perché non ci racconti quanto ti ha torchiato Bezbòznij?»
Il sangue batteva violento contro le tempie. Ilyas lo percepiva, netto quanto un odore, un rombare cupo, gorgogliante. Aveva stretto i pugni.
«Niente? Vuoi farci indovinare? Fai provare a me: qualche bottarella e, puff, ecco magicamente un nuovo tenente. Non è andata così?»
«Erazm, dai, smettila, che cavolo dici» bofonchiò Milos. «Il simulatore non si può ingannare...»
L'altro ignorò anche lui. «Non c'era neanche il leopardo da ingraziarsi per attirare l'attenzione, ma sono sicuro che hai trovato altri modi per far colpo, oh, sì. Perché non ce li dici, eh, perché non ci dici come hai fatto a convincere Bezbòznij a darti il massimo dei voti? Hai promesso di tenergli la belva quando è occupato? Che anche per le prossime cacce sarai il suo attendente? Oppure...» le sue labbra si piegarono in un sorriso crudele, rabbioso, «oppure sei andato più sul concreto? Non dirmi che gli hai ciucciato il cazzo perché allora deve essere stata la pompa del secolo per guadagnarsi una med...»
Erazm non completò la frase perché iniziò a urlare. Subito si unirono altre grida, Ilyas non capì da parte di chi, ma non aveva nessuna importanza. La realtà era tornata imprendibile, immersa in una fitta nebbia appiccicosa che rendeva tutto indistinguibile, anche il volto che aveva appena cominciato a tartassare di pugni dopo essere balzato sull'altro ragazzo e averlo buttato a terra. Erazm stava ora sotto di lui e urlava come un ossesso; cercava di levarselo di dosso, di evitare i pugni e rispondere, ma Ilyas lo aveva inchiodato al suolo, seduto a cavalcioni su di lui, e lo colpiva a più riprese, sul volto, sul petto, sullo stomaco, finché non vide sgorgare il sangue. Si beccò un calcio in mezzo alle gambe, che non servì a fermarlo; Erazm gli tirò i capelli, lo morse e gli diede un altro calcio, ma lui continuò a picchiarlo, indifferente ai suoi colpi, intenzionato solo a fargli male, così male che non avrebbe più aperto bocca, non avrebbe più osato... nessuno avrebbe osato...
Tutto attorno riverberavano le grida, alcune di incitazione, altre di allarme – lo ammazza, cazzo, lo ammazza –, e qualcuno provò anche a separarli, ma Ilyas se li scrollò di dosso e continuò a colpire il ragazzo sotto di sé finché una mano più decisa delle altre non lo afferrò per la spalla.
«Ma sei impazzito?» fece una voce che conosceva bene, quella di Dragan, sconvolta, allarmata, impaurita forse – impaurita per lui.
Ilyas sentì le sue mani che gli agganciavano le spalle e lo traevano via di peso dalla sagoma urlante di Erazm; una scivolò sulla sua vita per trattenerlo dal rilanciarsi contro l'altro e fu solo allora, appena avvertì un braccio forte circondarlo, intrappolarlo, che perse davvero la testa.
«Lasciami!»
Iniziò a scalciare, a dimenarsi esagitato, a mordere l'aria, il panico un crogiolo bollente che si espanse e gli iniettò di terrore ogni vena e muscolo. Il mondo si infranse davanti ai suoi occhi come uno specchio rotto: non si trovava più nel campo di adunata, in mezzo ad altri ragazzi, tutti vestiti uguali, indistinguibili l'uno dall'altro, sotto un cielo quasi azzurro e un sole pallido; non era più lì, nella realtà, era tornato là dentro, nel buio del Limbo, in quella cantina, con un corpo dietro di lui che premeva, un corpo che cercava di bloccarlo, schiacciarlo, domarlo.
No no no no
«Ilyas, cazzo, stai fermo! Non voglio farti niente, calmati un at...»
Si udì un sonoro crack e poi la voce di Dragan venne inghiottita da un lungo grido di dolore. La presa del suo braccio si allentò e Ilyas ne approfittò per sfuggirgli, cadendo a terra e rialzandosi subito dopo. Solo quando si voltò, affannato e coi capelli sugli occhi, si rese conto di essere ancora nel campo, tra le grida degli altri: Milos che strepitava: «Dragan, stai bene?!»; Zaid che sibilava: «Se vedono che è scoppiata una rissa, siamo tutti morti»; Erazm che urlava, trattenuto da altri soldati: «Io ti ammazzo, Hasani, hai capito? Ti ammazzo!»; solo Dragan non diceva nulla; aveva una mano sul viso e stava cercando di tamponarsi il sangue copioso che gli imbrattava il naso, là dove il gomito di Ilyas lo aveva colpito.
«Ilyas...» mormorò sputando uno spesso grumo rosso a terra. Alzò lo sguardo: nei suoi occhi non c'era rimprovero, neanche rabbia, forse solo sgomento, una domanda che stentava a farsi voce. «Che cosa...»
Lui fece un passo indietro ed era già in procinto di girarsi e correre via quando una voce sbraitante perforò l'aria densa di tensione.
«Che cazzo succede qui?!»
Roman Zamatij piombò tra loro come una furia. Appena si palesò il panico si sparse tra le fila dei nuovi soldati: alcuni si allontanarono dal centro della rissa e si misero in riga per salutare il tenente colonnello, altri si agitarono come se li avessero beccati a sbirciare sotto la gonna della sorella. Ilyas non si mosse. Rimase a fissare il sangue che scorreva dal naso di Dragan senza neanche vedere l'altro ragazzo. Vedeva solo rosso.
«Una rissa?! Una rissa il primo giorno di servizio? Ma voi mi state prendendo per il culo! Chi è il pezzente figlio di...»
«Sono stati loro, signore.»
Almeno una cinquantina di dita puntarono a Ilyas, a Ilyas e Erazm al centro del campo, e gli occhi di Zamatij si svuotarono di rabbia.
«Mikhajev! Mikhajev e... oh, Hasani! Ma certo, certo, stupido io a chiedere! Perché non sono affatto sorpreso? Quel grado da tenente lo porti ovviamente solo per decorazione, Hasani! Pure tu Kushev! Ecco, tu, Kushev: cosa diavolo ti salta in testa? Da te non mi aspetto un comportamento del genere!»
Milos si fece avanti e prese parola: «Mi permetto, tenente colonnello: il soldato Kushev non c'entra niente, stava solo cercando di...»
«Niente» lo interruppe Dragan, brusco. Era riuscito a frenare un po' il gettito del sangue; ritirò la mano e si voltò verso Zamatij. «Mi dispiace, signore.»
«Certo che ti dispiace! Vi deve dispiacere a tutti! Non vi si può lasciare due secondi da soli e piantate su un bordello! Volete essere messi in punizione tutti quanti già il primo giorno? Mando al cassero l'intero plotone, com'è vero che vostra madre ha pianto quando ha sgravato dei sacchi di merda come voi, vi ci mando, oh, sì, vi spello vivi, vi...»
Al panico si era sostituita la rabbia tra i soldati irrigiditi dal silenzio. Ilyas colse molti sguardi puntarlo, guardarlo con puro odio, lo stesso odio che riverberava negli occhi di Erazm. Quest'ultimo non era più trattenuto dagli altri: si trovava a pochi passi di distanza da lui, vicino a Zamatij, con mezza faccia insanguinata e un ematoma che spiccava vistoso al centro della guancia, e lo guardava dritto, con gli occhi stretti. Non visto da Zamatij, che continuava a sbraitare al centro del piccolo vuoto che si era creato nel campo, dove Ilyas, Dragan ed Erazm si trovavano, si passò un dito sotto il mento e mimò le parole "ti ammazzo" mentre Zamatij passava a insultare i loro genitali.
E poi un'altra voce si levò. Più calma, bassa e atona, eppure in grado di ergersi tra le urla.
«Cosa succede qui?»
Ilyas si paralizzò.
«Oh, Bezbòznij, mancava giusto lei! Cosa succede? Glielo spiego subito: invece di un plotone di soldati il Comando oggi ci offre un branco di canaglie sgravate male!»
«Maggiore colonnello.»
«Maggiore colonnello.»
«Maggiore colonnello.»
I saluti si accavallarono insieme alle voci, ma Ilyas non li sentiva, non sentiva più nulla, tranne il proprio fiato che si incastrava sotto la gola e il sangue che gli abbandonava il viso.
Panico. Oppressione. Paura di non riuscire più a riprendere fiato, di non riuscire a respirare. Aria, aria, adesso, la voleva adesso.
Dovette impallidire, forse barcollare. Dragan, davanti a lui ma posto di lato, si era girato per il saluto e aveva appena abbassato la mano quando riportò gli occhi su di lui. Sbatté le palpebre e di nuovo una domanda parve sorgere nelle sue iridi scure, velate da un alone di confusione, ma Ilyas non vedeva più neanche lui, era consapevole solo del rumore di passi che si avvicinavano, lenti, cadenzati, misurati, di uno stridere metallico che li accompagnava; la punta del coltello ritornata fredda contro la carne, poggiata sulla pelle vulnerabile della sua gola.
«Hasani, che cazzo fai?!»
Trasalì. I suoi occhi si snebbiarono per un attimo e visualizzarono a fatica Zamatij, davanti a lui, che lo guardava furioso.
«Cosa fai così impalato, la bella statuina? Cos'è, credi che essere diventato tenente ti renda più importante non solo dei tuoi compagni ma anche dei tuoi superiori? Saluta come si deve il maggiore colonnello!»
Il piombo aveva raggiunto ogni singola fibra del suo corpo, ma Ilyas si forzò a muovere gli arti, a voltarsi, ad alzare la mano.
«Maggiore colonnello» mormorò e non seppe se la sua voce fosse udibile perché fu appena un sussurro, sfuggito dalle labbra strette, e riverberò non più di un paio di attimi, lo stesso tempo in cui riuscì a reggere lo sguardo dell'altro.
Jagun Bezbòznij lo stava fissando. Gli si era creato un cerchio attorno per come i soldati gli avevano fatto spazio e si trovava a meno di un metro da lui, alto e inappuntabile, le spalle ampie intagliate dal bagliore del mattino, i capelli biondi che rilucevano come oro, il volto impassibile, quegli occhi senza fondo; era lì, nella realtà, nella viva luce, la sagoma immobile come quella di un animale a riposo, e lo fissava, lo fissava, lo fissava. Ilyas avvertì un gancio prenderlo alla gola, un cappio che lo asfissiava. Abbassò lo sguardo nello stesso istante in cui abbassò la mano, lo seppellì a terra e fu così che ritrovò il sangue.
«... fidare, non ci si può fidare di voi, no, siete peggio dei cani: vi si dà un osso e vi prendete tutto il braccio! Adesso che siete diventati soldati vi credete intoccabili? Valete ancora meno della merda di un ratto, cosa pensate? Tu, Mikhajev, cos'hai da dire?»
«Signore, mi dispiace, ma non ho fatto niente, è stato Hasani, è lui che...»
«Ti stai giustificando?!»
Sangue aveva cominciato a scorrere sul terreno, a espandersi in una chiazza scura e ribollente, a inghiottire la terra: partiva dai piedi dell'uomo, dai suoi stivali lucidi che Ilyas aveva visto anche nella cantina, quando la sua ombra si era avvicinata e chinata su di lui, gli aveva detto...
«No, signore, non mi sto giustificando, riporto i fatti. Possono testimoniarlo anche gli altri. È Hasani che mi ha assalito. Ha assalito anche Kushev. Lo abbiamo visto tutti: sembrava una belva, signore.»
«Oh, questo non fatico a immaginarlo, ma se pensi di cavartela così...»
«No, signore, mi prendo le responsabilità che devo prendermi, ma questa è la verità, così si sono svolti i fatti, giuro che...»
Era tornato il sangue. Era di nuovo lì e sembrava reale, materico, col suo odore dolce e metallico; spirava dall'uomo, ma non era l'altro a sanguinare, era lui; era Ilyas che non riusciva a trattenere tutta quella materia vitale che erompeva dal proprio corpo come da una fontana dissestata, com'era successo nel Limbo, mentre agonizzava alla ricerca di un respiro, stretto da mani implacabili che lo avevano toccato ovunque, lo stavano toccando anche ora; se le sentiva ancora addosso come le aveva sentite mille volte al giorno, tutti i giorni da quando si era risvegliato, e non riusciva a sfuggirgli; non riusciva ad andarsene via, neanche con la mente, non sarebbe mai riuscito a...
«Non posso credere di aver pensato anche solo per un attimo che la Simulazione vi avesse messo un po' di sale in zucca. Tu, Hasani, cos'hai da dire?»
Quanta vita aveva avuto, pensò confusamente qualcosa che non era più il suo cervello, bensì la sottile epidermide che era tornato a essere, gli occhi fissi e allucinati sulla pozza che si stava allargando sotto i suoi piedi. Quanta vita era sgorgata giù dalla sua bocca, dai suoi fianchi, dai suoi polsi, dal suo ano – ogni parte di lui. Quanta vita era scivolata via in rivoli rossi da sé.
«Hasani, mi hai sentito?»
Non pensava che avrebbe avuto così tanto sangue da versare, così tanta esistenza da sgocciolare.
«Hasani?»
Così tanta...
«Hasani!»
Un tocco al braccio, qualcuno che cercava di scrollarlo. Ilyas scattò all'indietro come se lo avessero fustigato e così riprese coscienza del mondo circostante. Intravide Zamatij ritirare una mano.
Gli stava urlando a cinque centimetri dalla faccia.
«Che cazzo ti prende, si può sapere?! Adesso non ti degni neanche di rispondere quando vieni interpellato?»
«Io...» iniziò Ilyas, ma non continuò perché Bezbòznij fece un passo avanti e affiancò il collega, oscurando il cielo dietro di lui.
Lui automaticamente indietreggiò.
«È tutto a posto, tenente colonnello. Non c'è bisogno di alzare le mani.»
«Tutto a posto? Qua siamo alla follia! Neanche un minuto da soldati e questi stanno già deturpando la divisa che indossano. Ma non sono sorpreso, figurarsi, la feccia rimane feccia, non è che all'improvviso comincia a profumare di rose. Tu, Hasani, perché diavolo non rispondi quando ti si parla? Mi hai scambiato per tua madre che aspetta i tuoi porci comodi?»
Ilyas, senza guardare in nessun modo alla destra di Zamatij, inghiottì un bolo d'aria e rispose in un bisbiglio: «Non l'ho sentita, signore.»
«Non mi hai sentito? Non mi hai sentito? Ma tu vuoi proprio farmi incazzare di prima mattina! Dillo, è questo che vuoi? Vuoi farmi incazzare e iniziare la tua carriera nella Legione in punizione?»
«Nossignore.»
«E cos'è questa storia poi, prima ti comporti come un cane rabbioso e ora sembri dormire in piedi? Ti è presa la paralisi o cosa, i giorni di licenza ti hanno fatto credere di essere in villeggiatura?»
«Nossignore.»
Zamatij stava per riaprire la bocca per un'altra probabile sequela di domande mista a insulti, ma si fermò. Aggrottò profondamente la fronte.
«Sei strano oggi, Hasani» osservò, la voce più bassa di almeno dieci decibel. Lo scrutò come alla ricerca di un'arma nascosta sotto i vestiti. «Niente più battutine? Nessuna alzata di cresta? Hai deciso di rinfoderare gli artigli? Oh, beh, era anche ora.» Sollevò lo sguardo e squadrò l'intero campo. «Forse questa simulazione non è stata del tutto inutile per alcuni di voi. E ora, maiali schifosi, ringraziate qualunque dio a cui credete che non siete ancora ufficialmente in servizio. Non vi metto in punizione. Per questa volta. Ma state pur certi che alla prossima non vi salva neanche l'Onnipotente.»
Un brivido di sollievo corse tra i soldati. Zamatij occhieggiò Erazm e Dragan.
«Kushev, Mikhajev, levatevi quel sangue dalla faccia e andate in infermeria. Tu invece, Hasani, dopo che ti sei sistemato, vieni nel mio ufficio. Giuro che te la faccio passare io la voglia di assalire i tuoi compagni neanche fossi una bestia allo sbando. Voi altri cosa aspettate, le moine? Filate subito in camerata! In ordine e dritti con la schiena, non voglio sentire volare una mosca!»
Appena Zamatij ebbe dato le istruzioni sulle camerate in cui dividersi e proferito l'ordine di rompere le righe, Ilyas non aspettò un attimo: scattò via prima degli altri, senza unirsi al coro di "sissignore", e percorse a ritroso il campo a lunghe e macinanti falcate, il terreno che correva sotto i suoi piedi. Gli parve di scorgere lo sguardo di Dragan, sempre perplesso, seguirlo, ma non si voltò per accertarsene. Voleva solo andare via da lì. Subito.
Quando raggiunse la camerata designata, per primo, si accorse che le gambe gli tremavano. Che avevano ripreso a tremare, magre e patetiche come le vedeva nei suoi incubi. Anche le sue mani tremavano: sui palmi spiccavano dei segni rossi. Aveva stretto i pugni così forte da aver lacerato la carne con le unghie.
Stai calmo calmo calmo
Gli altri ragazzi sciamarono all'interno della camerata riempiendo in pochi secondi lo spazio disponibile. Bisbigliavano tra loro di quello che era successo; molti si girarono a sbirciarlo, allungando lo sguardo verso la sua sagoma in piedi contro il muro, che guardava a terra. Ilyas percepiva i loro sussurri frinire come una risacca contro la battigia della mente.
«Ehi, Ilyas.»
Alzò il capo. Arkaša e Zaid lo avevano raggiunto. C'era anche Milos dietro di loro, un po' incerto.
«Stai bene?» gli chiese Zaid, gli occhi socchiusi, attenti. «Sei...»
«Sto bene» rispose lui, rauco, e si raddrizzò dal muro. Le gambe avevano smesso di tremare.
«Ma che ti è preso, si può sapere?» sbottò Arkaša. «Perché sei scattato così? Sembravi davvero una belva e se lo dico io...»
«Hai colpito anche Dragan» fece Milos, la voce venata di rimprovero, e Ilyas sentì lo stomaco contrarsi.
«Non volevo.»
«Lo sappiamo, però, insomma... cosa ti è preso, sul serio? L'hai rischiata grossa – l'abbiamo tutti rischiata grossa.»
«Te la sei presa per quello che ha detto quel cazzone di Erazm?» domandò Arkaša ed emise un lungo sbuffo. «Ma non starlo a sentire, quello! Ce l'ha a morte pure con la sua ombra perché non è diventato tenente dopo essere passato sotto il torchio di Saganev. Che poi capisco la rabbia, ma non è una buona scusa per riversare le proprie frustrazioni sugli altri.»
Zaid annuì gravemente. «Ha detto una marea di stronzate. Il simulatore non si può ingannare, ha ragione Milos, e poi lo sappiamo tutti.»
Ilyas lo guardò. «Che cosa?»
«Di Bezbòznij. Non mi è mai piaciuto, lo sapete, ma nessuno può negare che sia un tipo super corretto. Non avrebbe mai falsato la prova. Se ti ha dato il massimo dei voti è perché te lo sei meritato.»
«Già» concordò Milos con ampi cenni del capo. «Su questo nessuno può aver dubbi.»
Anche Arkaša assentì. «Solo quel cazzone di Erazm e proprio perché è un cazzone.»
Silenzio.
Ilyas guardava a terra. Aveva di nuovo stretto i pugni.
«Ma che hai, Ilyas?» Zaid tornò a scrutarlo, l'espressione che palesava ora aperta perplessità insieme a una punta di preoccupazione. «Ha ragione Zamatij: sei strano oggi.»
«Vado al cesso» disse lui tra i denti e li smarcò, allontanandosi da loro.
Sulla soglia della camerata incrociò Dragan. Doveva essere passato a prendere il suo posto prima di andare in infermeria; la sua faccia era ancora sporca di sangue.
«Ilyas?»
Provò a fermarlo allungando una mano verso il suo braccio. Lui si scostò bruscamente.
«Non toccarmi» sibilò.
Dragan sbatté le palpebre, confuso. Lo guardò con quell'espressione interrogativa che gli aveva rivolto anche nel campo d'adunata. «Ilyas, che cazzo hai?»
«Niente.»
«Come niente? Vuoi metterti già nei guai il primo giorno? Non siamo più reclute, è diverso ora, non ce la caviamo con una semplice punizione e tu non puoi...»
«Lasciami perdere, va bene?» proruppe Ilyas, così forte che lo sentirono anche i ragazzi che in quel momento si trovavano vicino all'ingresso. Aveva urlato. «Lasciami stare!»
Lasciatemi tutti stare!
Dragan si irrigidì. Sembrava aver appena ricevuto un colpo più forte di quello che gli era stato sferrato nel campo. Lo guardò con ancora quell'espressione così scoperta, attonita e trasparente, e provò di nuovo a fermarlo, ma Ilyas allontanò la sua mano tesa e fuggì via, via dalla camerata, dagli sguardi degli altri, dagli occhi nudi di Dragan che sembravano trattenere una domanda.
Perché?
Lui però non aveva una risposta, forse non l'avrebbe avuta mai.
Corse via.
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