XI. Nel Limbo - seconda parte

Eccoci qui, siamo arrivati al Capitolo, il turning point, la svolta, la parte più violenta dell'intera storia, sia dal punto di vista fisico, sia psicologico. Non ripeterò gli avvertimenti, sono già stata fin troppo ridondante; chiunque sia arrivato a leggere fino a qui sa già cosa lo aspetta e io spero solo di aver fatto un buon lavoro. Qualcosa di crudo, sì, ma non morboso, sensazionalistico o indelicato.

Rispetto alla versione su EFP ho omesso un paio di dettagli più grafici qui su Wattpad, ma in sostanza il capitolo è lo stesso.

C'è una citazione che mi viene sempre in mente quando mi ritrovo a scrivere scene come quelle che andrete a leggere, di uno dei miei scrittori preferiti, Ian McEwan, che interrogandosi sul perché si scrive – e si legge – di cose orribili, dichiarò: "Usiamo i casi peggiori per misurare la portata della nostra morale. E forse dobbiamo svolgere le nostre paure all'interno dei confini sicuri dell'immaginario, come forma di speranza esorcistica."
Ecco, è l'unica cosa che mi sento di dire, con parole d'altri, se qualcuno dovesse chiedersi perché cavolo ho scritto questo capitolo e questa storia, perché davvero non ne trovo altre – è sempre difficile e forse inutile cercare dei perché.
Vi auguro buona lettura e sparisco!


XI.

Nel Limbo - seconda parte


Qualcosa scivolò lungo il suo petto, leggero come una piuma. Passarono alcuni istanti di stasi, elettrici e immobili. Non avvenne nulla. Ilyas aprì un occhio, poi l'altro. Si ritrovò ancora nella cantina, nella penombra del crepuscolo che aveva cominciato a filtrare dalla feritoia. Bezbòznij non era più seduto davanti a lui, bensì chinato. Gli stava tagliando i legamenti delle caviglie dopo aver reciso il filo che gli circondava il collo.

«Cos...» provò a dire lui, ma la sua voce venne inghiottita da un rantolo quando la mano dell'uomo scattò a prenderlo per i capelli e lo buttò a terra, sulle ginocchia già contuse.

Ilyas gridò più per la sorpresa che per il dolore. Era tornato libero, tranne le braccia ancora torte dietro la schiena, i polsi intrappolati dal filo trasparente, ed era ancora vivo, ma non capiva perché.

L'altro voleva picchiarlo? Ancora? Non era finita?

Tentò di girarsi, ma un calcio sferrato dritto al centro della schiena lo fece cadere in avanti. Incapace di ripararsi il viso per via delle mani legate il suolo gli precipitò addosso. Fortunatamente riuscì a girare la faccia in tempo e a colpire il pavimento solo su un lato. Gemette e provò a raddrizzarsi quando qualcosa lo bloccò all'altezza della nuca: una scarpa.

«No» biascicò e cercò di sottrarsi al piede, che però lo bloccò sotto di sé, esercitando una leggera pressione contro il collo.

Ilyas vide di nuovo bianco e il panico ritornò a galleggiargli nelle ossa. Si dimenò per sfuggire alla presa, dimentico di essere ancora legato, tanto che i suoi polsi ripresero a sanguinare per come li stava sfregando nel contorcersi a terra. La pressione sul retro del collo allora aumentò e lo costrinse a succhiare aria in un respiro scomposto.

«Stai fermo» disse la voce, perché sembrava diventato solo questo adesso l'uomo: una voce, un corpo, quel piede, quelle gambe e quelle mani che Ilyas sentì sfiorargli il capo quando, sollevando lo stivale, si mise su un ginocchio per chinarsi su di lui. Mani calde che si posarono sui suoi capelli per scendere a saggiargli il lato del viso con una strana quanto incongrua reverenza. «Fermo.»

Ilyas trasse un respiro affannato e stava ancora cercando di afferrare i singulti che gli fremevano al di sotto delle tonsille, raggomitolato a terra, quando l'altro lo aggirò, si chinò, lo afferrò per i fianchi e fece per raddrizzarlo.

Fu allora che lo sentì.

Mentre cercava di opporsi, anche così legato e coi fianchi trattenuti da mani forti quanto artigli d'acciaio, i suoi fianchi, troppo sottili per quelle mani, che stavano ancora sanguinando; ora che erano tornati così vicini, coi corpi che sfregavano l'uno contro l'altro, lo sentì. Dietro di sé, contro di sé. Qualcosa di duro che premeva contro di lui. Pensò al calcio di una pistola in un primo momento, ma poi si ricordò: l'altro non aveva pistole. Lo aveva visto prima, lo aveva visto.

La sua mente andò in blackout per la seconda volta. Il suo intero corpo si raggelò. I secondi si allungarono in minuti, in anni, in ere zoologiche.

No

Non era vero.

No

Non poteva essere vero.

No

Se lo stava immaginando.

No

Era l'adrenalina, l'eccitazione della lotta, una reazione fisica involontaria, normale, che non significava nulla.

No

Era un errore, quello era un cazzo di errore, avrebbero dovuto fermare la simulazione – qualcuno doveva fermarla.

«No!» urlò, rompendo l'improvvisa immobilità, la voce tracimante panico, orrore, non sapeva che cosa.

Riprese ad agitarsi, a dimenarsi come un ossesso, come una tarantola impazzita, con l'intenzione viva e spasmodica solo di allontanarsi, sfuggire a quel corpo che premeva, a quella cosa che premeva, che non poteva chiamare col suo nome perché non era vera, ciò che stava accadendo – che gli era appena precipitato addosso – non era vero, si trattava di un malinteso e avrebbe dovuto dirlo a voce alta, ma riusciva solo a gridare frasi incoerenti che gli sfuggivano dalle labbra come schegge.

«Lasciami! Lasciami! Lasciami, fottuto bastardo, lasci...»

Una mano gli lasciò il fianco e scivolò sotto il suo torso teso in avanti, risalì lungo il petto e raggiunse il collo. Si serrò attorno alla sua gola. Per l'ennesima volta l'aria gli uscì via dai polmoni, ma fu diverso. Questa volta, di tutte le strette che aveva subìto in quelle poche ore, di tutte le occasioni in cui si era ritrovato a rincorrere un respiro sempre più rado, ad agire fu direttamente la mano e fu diverso. Ilyas lo avvertì mentre, con forza, con calcolata sapienza, quella mano rossa di sangue prendeva dominio del suo corpo, le dita strette come morse di ferro, impresse laddove la sua vita pulsava più feroce e disperata alla stregua di un lupo incastrato in una tagliola; lo costrinse a raddrizzarsi sulle ginocchia, a aderire con la schiena al petto ampio dietro di sé, così appiccicati che la pressione contro il sedere divenne impossibile da ignorare. Lui sbarrò gli occhi, aprì la bocca per gridare, ma la stretta si intensificò e non trovò fiato in fondo alla gola per proferire neanche un suono.

Jagun Bezbòznij si chinò al suo orecchio.

«Sei un animale.» La sua voce gli alitò sul lato del collo, un espiro umido e sottile contro la pelle. Sembrava una carezza, controllata, lieve e quasi morbida, eppure vibrante, fremente quanto un affondo mortale. «Un animale che non sopporta la gabbia, ma anche le belve più selvatiche possono essere domate...»

E dopo aver proferito quelle parole, con la mano gli lasciò il collo e si abbassò ad afferrargli il bordo dei pantaloni.

No

Ilyas non era più in sé. Non riusciva a pensare a niente, neanche a ciò che aveva appena udito, che gli aveva gelato il sangue nelle vene. L'unica cosa che gli rimbombava in testa era quella parola: no. No, no e ancora no.

«Lasciami...» boccheggiò, la gola dolorante, la voce a pezzi, mentre cercava ancora, invano, di liberarsi, ma l'altro gli aveva intrappolato la vita con un braccio per trattenerlo contro di sé e con la mano destra stava armeggiando coi bottoni dei suoi pantaloni e Ilyas non poteva muovere le mani, non riusciva neanche a muovere le gambe, rinchiuse tra quelle del corpo sopra di lui che si era piegato per bloccarlo, assediarlo, costringendolo a piegarsi a sua volta sotto il suo peso, e il panico ormai era una pozza oscura dai cerchi vorticanti che sembrava inghiottire tutto, la sua sicurezza, la sua resistenza, la sua lucidità – tutto quel che era.

«No» mormorò quando l'ultimo bottone saltò. «No» ripeté nel sentire i calzoni calare giù in un fruscio assordante quanto una cannonata e abbassarsi fino alle ginocchia. Girò la testa da un lato e dall'altro, si morse a sangue le labbra. «Non voglio, no, non farlo, non...»

La mano si fermò.

«Vuoi dire qualcosa?»

Voleva dire qualcosa? Non lo sentiva – non riusciva a sentirlo?

No no no no

Ilyas stava per riaprire la bocca e gridare quella parola a pieni polmoni quando la voce lo sovrastò.

«Le coordinate del covo?»

Di colpo smise di agitarsi.

Come per magia, il peso sopra di sé svanì. Anche le mani sparirono insieme al corpo incombente.

Lentamente Jagun Bezbòznij si rialzò. Si allontanò di un paio di passi. Sembrò prendere una distanza di sicurezza prima di parlare di nuovo.

«Allora?»

Ilyas era a terra, in ginocchio. Si sedette sui talloni, abbassò il capo e il movimento gli fece cadere delle ciocche sugli occhi. Si guardò i fianchi che ancora sgocciolavano sangue, andato a rapprendersi nella stoffa delle mutande e scivolato fin quasi sulle cosce nude, serrate, che tremavano leggermente e sembravano così magre, magre e patetiche. Del sangue gli era scivolato anche sulla schiena; dai polsi lacerati dal filo aveva raggiunto l'elastico delle mutande.

Una marea intollerabile di rabbia gli risalì lungo la gola.

«No...»

«Che cosa no? Che non vuoi dire dove si trova il deposito?»

«Non questo» sputò, senza guardarlo, senza avere il coraggio per la prima volta di alzare lo sguardo, girare il capo e affrontarlo. Non voleva vederlo. Non sapeva chi fosse quella persona in piedi a poca distanza da lui. Ma soprattutto: non voleva saperlo. «Non... non questo, non...»

«Hasani.» Di nuovo il suo cognome pronunciato con quel tono calmo e quasi affabile, condiscendente, che gli trasmise un brivido gelido lungo la colonna vertebrale e un feroce senso di nausea dritto nello stomaco. «Questo è uno scenario di guerra.»

Ma cosa cazzo stai dicendo? Che cazzo dici, stronzo? Questo non era previsto. No, non era previsto. Non questo e non tu. Non tu, dannazione. Non tu.

«Pensavo lo avessi capito.»

«Non...»

«Devo spiegarti io cosa può succedere in guerra?» Rumore di passi. Ilyas, col capo chino e i capelli a fargli da schermo, scorse solo degli stivali, un paio di gambe che si avvicinavano alla sua sagoma inginocchiata a terra, lo superavano e gli si mettevano davanti. «Cosa succede in tutte le guerre e cosa potrebbe facilmente capitare a qualcuno come te?»

Le gambe si piegarono di fronte a lui, le ginocchia allargate, il calore del corpo un afrore intenso dritto nelle narici.

«Vedi, sei troppo attraente per passare inosservato.»

Lo disse così, con nonchalance, con tranquillità, come una constatazione di fatto, un postulato logico e inoppugnabile, e Ilyas si sentì morire. Sentì che qualcosa si spezzava dentro di sé. Non ci erano riuscite le botte, ma quello sì, quello era peggio di qualsiasi schiaffo...

Scosse la testa e si rese conto con orrore che gli occhi gli erano diventati lucidi. Cercò di fissare un punto fermo al lato della spalla sinistra, di continuare a non guardare l'altro, non vedersi specchiato nelle sue pupille come doveva apparirgli ora: accasciato a terra, legato, scosciato, con il collo segnato e sporco di sangue, i polsi scorticati, le gambe tremanti, quei tagli sui fianchi e un fiato selvaggio intrappolato nel petto.

Non sta accadendo non sta accadendo non sta accadendo non sta

«Te lo chiedo un'ultima volta.» Una pausa, la voce lontana. «Vuoi dire qualcosa?»

Non stava accadendo davvero. Quella era la finzione, non la realtà. Cosa gli avevano detto all'inizio? Tutto quello che vivrete non è reale. Dovevano tenerlo a mente, sì, per non andare nel panico, non creare problemi al programma e perdere l'occasione.

Non era reale, neanche l'uomo davanti a lui che attendeva in silenzio una risposta, il suo maggiore colonnello che gli aveva permesso di avvicinarsi al suo leopardo, che lo aveva portato a caccia, che gli aveva detto di aver visto del potenziale in lui, del talento; neanche quell'uomo era più reale. Forse non lo era mai stato.

Ilyas alzò lentamente gli occhi.

Jagun Bezbòznij era lì, piegato sulle ginocchia di fronte a lui, i talloni sollevati per mantenere quella posizione scomoda, le mani libere e pazienti, l'espressione calma e imperturbabile; era lì, uguale a sempre, uguale a se stesso, con il suo sguardo intenso e la sua figura imponente, e allora Ilyas lo guardò, si costrinse a guardarlo, a vederlo, e fu così che lo vide in maniera nitida, come una verità, il risultato di una legge crudele e ineluttabile quanto lo era quel mondo.

Lo vide, finalmente, per la prima volta.

Socchiuse le labbra, cercò la voce in fondo alla gola e non la trovò. Non c'era più una mano a stringergli il collo, ma non importava: la morsa era rimasta, invisibile ma tenace, non l'aveva lasciato.

Abbassò lo sguardo.

Quando si entra in una gabbia, si fissa la belva negli occhi; devi sempre essere sicuro che abbassi lo sguardo per prima. Altrimenti è meglio uscire subito.

Anche quelle parole gli riecheggiarono in testa col suono di echi lontani.

Sentì il tocco di dita leggere e calde tra i capelli.

«Bravo» fece la voce dell'uomo che aveva appena visto. La sua mano si levò a sfiorargli i capelli, scese giù per la tempia e coi polpastrelli gli percorse in una lunga carezza il lato del viso. «Molto bravo.»

Ilyas si scostò bruscamente a quel tocco, girò il capo verso sinistra, si morse ancora una volta le labbra. Un fiorellino di sangue fuoriuscì dal labbro inferiore; cercò di concentrarsi su quel piccolo, inconsistente dolore per non pensare, non pensare già...

L'uomo si rialzò e lo aggirò. Si diresse verso la sedia vicino alla caldaia. Ilyas, girato di spalle, riuscì a capire dal rumore di uno stridio sul pavimento che era andato a prendere il coltello.

Lo sentì tornare indietro, gli stessi passi lunghi, misurati.

«Alzati.»

Lui non si mosse.

«Ho detto» si sentì afferrare per i capelli, le sue ginocchia si staccarono dal suolo, «alzati

I pantaloni, già slentati, caddero a terra, aggrovigliandosi attorno alle caviglie. Ilyas si ritrovò con le gambe nude e cercò di trattenere i tremiti, che tuttavia si intensificarono quando avvertì la lama piatta del coltello all'altezza del bacino. Il ferro tagliò le mutande, gliele lacerò senza ferirgli la pelle al di sotto; pezzi di stoffa si andarono a spargere al suolo seguiti da quelli dei pantaloni che vennero fatti a pezzi anche se sarebbe bastato sollevare i piedi per sfilarli via. Ma l'uomo volle strapparli, farli a brandelli in gesti precisi e metodici, e poi, con sempre la lama di piatto, in una carezza leggera che non lasciò nessuna traccia di sangue, gli passò il pugnale lungo il lato della gamba, dalla caviglia fino all'anca.

Ilyas stava in piedi, immobile, le braccia torte dietro la schiena, il mento incassato, i capelli sugli occhi; non tremava neanche più. La paura era diventata altro, qualcosa di troppo difficile da scomporre, una paralisi che ottundeva anche le normali reazioni del corpo. Sentì la mano libera dell'uomo posarsi sul dosso dei suoi lombi, accarezzargli la rientranza delle fossette sopra i glutei dove era andato a raggrumarsi del sangue, poi salì su, affondò  nei capelli, gli strattonò violentemente la testa all'indietro per costringerlo a raddrizzarsi e inarcare la schiena. Gli rovesciò la testa da un lato.

La voce era calda, appena accelerata, un fruscio fremente dietro la nuca.

«Non preoccuparti» disse, sollevando il coltello ad accarezzargli il lato del collo teso ed esposto, mentre abbassava l'altro braccio a serrargli la vita e a spingerlo contro di sé. «Te l'ho detto: non voglio rovinarti.»

L'arma venne gettata a terra e sostituita l'attimo dopo da ciò che dall'inizio forse l'altro aveva voluto usare: le sue mani. Ilyas lo capì veramente solo in quel momento, quando una di esse iniziò a percorrergli il viso mentre l'altra lo tratteneva per la vita, anche se in realtà lo aveva intuito da quando lo aveva visto sedersi davanti a lui con quel pugnale, solo che non aveva voluto e potuto ammetterlo, neanche a se stesso.

Una lacrima.

La sentì scendere lungo la guancia, lenta e silente, incespicante; scivolò sotto il mento, si incuneò tra le ossa della clavicola, si perse nella trama della pelle. Una lacrima, seguita da un'altra e poi un'altra ancora, tutte fuggite via dal bordo delle ciglia per come aveva chiuso – serrato – gli occhi. Così veloci e inconsistenti da non sembrare neanche vere. Ma lo erano poi, vere? Stava succedendo, stava davvero piangendo?

Doveva esserci un errore. Un altro. Una falla del simulatore. Perché lui non avrebbe pianto nella realtà. Aveva pianto per sua madre la notte che l'aveva persa, quasi sette anni prima; era stata l'ultima volta che delle lacrime gli avevano solcato il viso. Non avrebbe potuto di nuovo piangere dopo quella notte; mai nulla avrebbe potuto essere come quella notte. E quindi anche quelle lacrime non erano reali, non potevano esserlo, e non erano reali neanche le mani appena scivolate giù lungo il suo petto, giù fino al ventre; mani rapaci e calde che iniziarono a salire e scendere lungo il suo torso, tracciandogli le costole, saggiandogli la pelle, stringendogli i fianchi e macchiandolo del sangue dei tagli ovunque si posassero; mani che lo toccavano, lo stritolavano... Erano sbagliate quelle mani, sbagliate quelle lacrime, tutto era sbagliato.

Niente di quel che stava accadendo era reale e lui avrebbe dovuto smettere – smettere – di piangere.

Venne sospinto in basso, di nuovo in ginocchio, a carponi sul pavimento. La sua fronte toccò il suolo e continuò a tenere gli occhi chiusi, il fiato serrato tra i denti, mentre le mani passarono a percorrergli la schiena, le natiche, le cosce; gli allargarono brutalmente le gambe per toccarlo anche lì in mezzo, non lasciare un centimetro libero nella loro esplorazione, ogni tocco un marchio vivo e bruciante sulla pelle.

Ilyas inghiottì il respiro in fondo alla gola, lo trattenne per non far fuoriuscire nulla dalla bocca, che fosse un gemito, un urlo, un singhiozzo, il pianto disperato che sentiva erompere dal fondo di sé. Voleva solo che finisse subito, che l'altro si facesse la sua spruzzatina, gli impartisse la sua lezione e via. Ma l'uomo, quell'uomo a cui non riusciva più a dare un nome, un volto, continuava a toccarlo in quel modo meticoloso e indugiante, come se avesse tutto il tempo del mondo davanti a sé, come se volesse memorizzare ogni centimetro della sua pelle, mentre lo teneva così, in quella posizione di umiliante sottomissione, e lui non capiva, se mai avesse potuto capire, se c'era qualcosa da capire...

Finalmente smise di toccarlo. Erano sembrate ore, ma erano passati soltanto pochi minuti da quando lo aveva spogliato. Ilyas si tese, tese tutti i muscoli del corpo. Quando sentì la mano che scendeva sul suo ventre e risaliva lungo il suo petto, sapeva già dove voleva arrivare.

Lo prese alla gola, di nuovo quella morsa d'acciaio. Lo forzò a raddrizzarsi sulle ginocchia mentre si sganciava la cintura con l'altra mano e poi gli afferrò il ginocchio per allargarglielo, costringerlo a divaricare ancora di più le gambe, e salì sulla coscia, gliela saggiò e gliela strinse, salì ancora, sul suo fianco destro umido di sangue, e lo agganciò circondandogli la vita. Le dita della mano destra gli avvolsero l'intera superficie del collo e diedero la prima stretta.

«Ora puoi urlare.»

Un altro sussurro aleggiante sulla nuca, il fiato caldo a frusciargli nell'orecchio.

Fu peggio di come Ilyas si aspettava. Molto peggio. Non ci fu nessuna preparazione, solo l'altro che gli entrava dentro, mentre gli stringeva la gola, e si faceva strada a viva forza, con spinte da subito potenti e ravvicinate. Non ci fu neanche nessuna resistenza se non lui che gridava senza voce, contorcendosi impotente in quella morsa spietata di carne, intrappolato dal braccio serrato attorno alla vita e dalla mano sul collo che non lo lasciava urlare e respirare tutte le volte che le dita imprimevano una stretta più forte, simultanea a una spinta più poderosa delle reni.

Andò oltre il corpo, oltre la mente, oltre l'anima, quella che forse aveva avuto e a cui non aveva prestato attenzione. A ogni affondo un pezzo di sé se ne andava, a ogni stretta la coscienza si rarefaceva, scivolava via lontano, eppure lui rimaneva là dentro, in quella pelle dolorante, nel rumore dei gemiti, degli ansiti, nel ritmo delle spinte che lo scuotevano con violenza, nel tocco di quelle mani che non smettevano di stringerlo, marchiarlo, farlo loro in un'unione feroce e senza ritorno.

Non seppe quanto durò. Dovette perdere coscienza per un momento, ma quando rivenne era ancora lì e anche l'altro era ancora lì, dentro di lui, a spingere come se volesse spaccarlo in due, a non dare un attimo di riposo alle sue anche sopraffatte dai colpi, e Ilyas urlava, urlava e urlava. Urlava anche quando non aveva voce, quando non aveva più fiato che gli corresse su per la trachea. Urlava per la violenza di quella penetrazione, per la propria assoluta e devastante debolezza, per tutto quello che aveva creduto e si era infranto come un sogno al mattino. E urlò forse anche per invocare aiuto. Una parte di sé, nel più profondo di sé, laddove non c'erano più parole, né grida, chiese aiuto quel giorno. Invocò non la pace, forse no, ma almeno una tregua, una pausa da quel dolore, da quel terribile, maledetto dolore che lo stava dilaniando. Invocò che qualcuno, chiunque, venisse a liberarlo. Sua madre, sua sorella, Voznjak e Magda, Dragan, persino Dio. Invocò un essere onnipotente di venire a salvarlo.

Ma non venne nessuno.

Non era mai venuto nessuno.

Svenne di nuovo, per la seconda volta, e si risvegliò solo quando si sentì scuotere. Era ancora l'altro, che non lo teneva più per il collo: lo aveva lasciato e Ilyas era scivolato a terra per l'impossibilità di reggersi sulle gambe. Erano viscide, le sue gambe, sporche di sangue. C'era odore di fiele, di minerali, di pozzo e metallo, dolciastro e nauseante, e lui non riusciva più a muoversi. Non ebbe nessuna reazione quando risentì un corpo estraneo incombergli sopra, né quando venne ripreso per le anche, rovesciato sulle ginocchia; si limitò a girare il viso da un lato, la guancia poggiata sul pavimento freddo.

Ritornò il dolore, come una marea. Ritornò anche la mano, sul retro del collo, a tenerlo fermo con il busto piegato e i fianchi levati, mentre le spinte riprendevano, più lente all'inizio, quasi ondulate, e poi sempre più potenti, quasi rigorose, come una pattuglia in marcia. L'uomo respirava pesantemente sopra di lui, Ilyas sentiva il suo fiato rovente sulla pelle, la sua mano che continuava a scorrergli per tutto il corpo. Stavolta fu costretto a sentirsi invadere dal suo orgasmo brutale, a sentirlo fremere prima di scaricarsi come una bestia stanca dentro di lui, ma non vide nulla oltre il velo appannato che gli era sceso sugli occhi e non sentì più nulla, non la mano posata sul collo, non il peso del corpo che lo aveva di nuovo sopraffatto, non l'odore del sangue che imprimeva l'aria, non il gemito lungo e rauco, morso tra i denti, che aveva riverberato nel silenzio prima dell'ultimo scatto di reni.

Non vedeva nulla, non sentiva nulla, non era più nulla.

Uccidimi

Lo pensò o forse non fu un pensiero, non aveva la linearità dei pensieri, ma qualunque cosa fosse, da qualunque anfratto scaturisse, quella parola riverberò dentro di sé come proveniente da un lungo tunnel e si ritrovò a pensare, a sperare, che l'altro stringesse le dita e la finisse. Anche lì, così, in quel modo, in quello schifo, bastava che finisse. Che quel dolore finisse. Il lato più vile e umano di lui era pervaso dal sollievo e sperò, disperatamente sperò, che fosse arrivata l'ora: un tocco, una stretta più decisa, l'ultima, e poi il nulla. Un agognato, amabile nulla. Il tenero, innocente e bianco nulla della neve della sua infanzia; che potesse prenderlo, avvolgerlo come faceva da bambino quando giocava insieme a sua sorella sulle rive del Danubio ed entrambi si chiedevano cosa ci fosse al di là delle montagne.

Mi dispiace, mamma, fu l'unico vero pensiero che ebbe, imploso nel buio della coscienza come una stella cieca. Non ce la faccio più...

Come se lo avessero ascoltato, le dita si strinsero davvero. A una mano seguì l'altra, tutte e due poggiate sulla sua gola, a premere sulla trachea, sulla giugulare, lui ancora a terra ma girato di schiena, che continuava a non vedere niente, eppure gli parve di scorgere, mentre annaspava alla ricerca di un respiro fantasma, il contorno di un viso. Un volto lontano, dalla bellezza violenta e funesta di un dio impenetrabile. Il volto dell'uomo che lo stava uccidendo.

Ci fu un suono strozzato, il rumore di qualcosa che si spezza, un lampo di luce bianca, ancora accecante. E infine, dolce come sangue, come il bacio che gli aveva dato sua madre prima di lasciarlo per sempre, il nulla.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top