X. Il cacciatore e la preda
Ed eccoci qui, questo è uno dei due capitoli più crudi di cui avevo avvisato. Il prossimo, che dividerò in due pezzi, sarà il turning point, il momento della verità con la scena più violenta.
Buona lettura a chi è ancora qui e, mi raccomando, fate sempre attenzione agli avvertimenti...
X.
Il cacciatore e la preda
Ilyas si era mosso ancor prima di sentire il tintinnio metallico contro il pavimento. Afferrò il pugnale e, veloce, si ritrasse contro il muro.
Si guardò attorno.
L'ambiente era piccolo, proprio come gli era sembrato durante il giorno: piccolo e angusto, invaso di ombre. Le cisterne insieme alla caldaia costituivano le masse più scure del locale sotterraneo. Alle pareti erano appesi una serie di scaffali ingombri di roba: scatole, barattoli delle più diverse forme, aggeggi di metallo, utensili vari, lattine di liquido combustibile. C'era anche un tavolo con un paio di sedie attorno. La luce lunare proveniente dalla feritoia arrivava a sciacquare soltanto metà della cantina; illuminava a sprazzi il profilo delle cisterne e quello delle vasche piene al di sotto, dove rade gocce d'acqua cadevano singhiozzando dai serbatoi. Il lento sgocciolare era l'unico rumore nel silenzio, quello e il fiato che gli fremeva dentro la gola.
Strinse più forte il manico d'osso e scrutò l'uomo davanti a sé.
Stai calmo. Sarà l'ennesimo test, l'importante è non perdere la testa. L'hai visto combattere contro un leopardo praticamente a mani nude, ma va bene, ce la puoi fare. Devi solo stare calmo.
Bezbòznij non aveva armi, neanche una pistola, constatò, ma di questo, chissà perché, non se ne sorprese.
«Niente armi lei, signore?» domandò recuperando la voce, arrocchita come ruggine.
Non gli chiese perché fosse lì, perché lo avesse preso e trascinato in quella cantina. Sembrava irrilevante. Doveva essere una prova, sì, e come tutte le prove a cui quell'uomo lo sottoponeva era diversa da ciò che gli avrebbero propinato altri ufficiali, più ambigua, insidiosa, ma anche più paritaria. Gli stava dando la possibilità di combattere.
Forse non mi è andata così male, pensò cominciando a mettere il pollice contro la parte piatta della lama per prepararsi ad attaccare. Gli altri saranno disarmati, già ridotti a uno straccio per le botte, io invece ho un coltello, ce la posso ancora fare.
«Non chiamarmi "signore".» La voce di Bezbòznij risuonò ancora una volta tra le quattro mura, piana e profonda, come in un'eco. «Non sono il tuo istruttore qui.»
«Vero.» Ilyas sentì gli angoli delle labbra incresparsi. Era il momento più inopportuno per sorridere, ma una strana eccitazione gli riscaldò lo stomaco e si diffuse in tutto il corpo. Sentiva l'adrenalina battergli contro le tempie, più forte del rombare del sangue. «È il mio nemico.»
«Esatto.»
«Niente armi quindi?»
«No.» L'altro abbassò lo sguardo sul coltello, lo rialzò lentamente tornando al suo viso e gli piantò le pupille negli occhi. «Cosa aspetti?»
Ilyas non se lo fece ripetere.
Attaccò e andò diretto con un affondo. Non avrebbe sprecato tempo a danzargli attorno con fendenti e scarti. Conosceva l'uomo che gli stava davanti, il suo livello di addestramento; a suo parere era necessario neutralizzarlo subito, colpire un'area vitale senza tentennamenti. Si riteneva abbastanza esperto per tentare da subito un affondo al ventre e così fece: gli si avvicinò, eseguì un paio di finte e poi si avventò, veloce come un missile Exocet.
Velocità e agilità: erano queste le chiavi per destreggiarsi con un coltello, i motivi per cui prediligeva quel tipo di combattimento che aveva imparato a padroneggiare già a tredici anni, in strada, che aveva affinato negli anni, anche nell'esercito, e che non richiedeva eccessiva forza, ma appunto rapidità e precisione. Concentrazione poi, soprattutto nell'affondo: bisognava impegnarsi completamente, con l'intero corpo, nel colpo, vibrarlo al momento giusto, raggiungere la carne e affondare senza esitare. Se eseguito con la tecnica giusta l'avversario non aveva nessuna possibilità di scampo contro un affondo mortale, come in generale un uomo disarmato non aveva speranze contro una lama usata nella maniera adeguata.
Ora lo ammazzo, lo ammazzo in un colpo solo e sono fuori da qui e fanculo a tutti.
Bezbòznij, in posizione difensiva, era calmo come acqua stagnante. Non retrocesse quando Ilyas gli si avventò contro, tutti i punti vitali del busto completamente esposti, come se glieli stesse offrendo, ma quando lui si sbilanciò in avanti con tutto il corpo, pronto a sferrare la lama al suo basso ventre, lo sguardo dell'uomo seguì il movimento, fisso sul pugnale con una concentrazione adamantina, e Ilyas lo vide flettere le ginocchia e alzare le mani.
Al momento dell'affondo, due secondi e due centimetri prima che la lama gli trafiggesse le carni, Bezbòznij evitò il coltello, deviandolo con un rapidissimo spostamento di lato, e nel nanosecondo successivo, approfittando del suo sbilanciamento, gli afferrò l'avambraccio e glielo bloccò contro il tronco sovrapponendogli a esso il suo braccio sinistro. Non gli bloccò il polso come Ilyas si era aspettato – era la mossa più frequente, e anche la più fallimentare, per difendersi dall'attacco di un coltello. Gli intrappolò il braccio e quindi il pugnale contro il proprio corpo, bloccandolo saldamente, e con quella fluidità che sembrava pervaderlo come una seconda pelle spostò leggermente il piede all'indietro e ruotò la sua posizione verso destra. A quel movimento repentino Ilyas sentì una fitta tremenda al gomito e si morse un urlo tra i denti. Provò a liberarsi, ma più si agitava più il dolore si intensificava e fu a quel punto che Bezbòznij, con il braccio sinistro che gli teneva ancora fermamente intrappolato il braccio del pugnale, mise entrambi i pollici al centro del dorso della sua mano, il pollice sinistro sotto il destro. Con una leggera pressione gli piegò il polso all'indietro verso il gomito, lo ruotò.
Il dolore fu un lampo accecante di luce bianca. Ilyas non urlò solo perché si morse a sangue la lingua, ma credette di svenire.
Mi sta spezzando il polso, pensò e tutta la calma che era riuscito a imbastire scivolò via per fare spazio a un panico gelido e informe.
Non era possibile. Come aveva potuto farsi bloccare così? Non aveva neanche avuto il tempo di reagire, era stato tutto così veloce che ora, intrappolato e ansimante contro il corpo dell'altro, non riusciva a realizzare di essere stato neutralizzato nel giro di malapena cinque secondi; che era lui quello con il coltello ancora in mano, ma era l'altro che lo controllava.
Con un altro movimento fulmineo, Bezbòznij lo spinse ad abbassarsi facendo un passo indietro e girandogli intorno con il piede sinistro. Ilyas, sempre il braccio del coltello torto sulla schiena e il polso bloccato da quella presa ferrea, fu costretto a piegarsi verso il pavimento, il dolore stretto tra i denti alla stregua di un cavallo che morde la staffa. Con l'altra mano, quella libera, non riusciva a raggiungere l'altro, poteva solo schiaffeggiare l'aria. Bezbòznij, indifferente al suo agitarsi, continuò nel movimento, gli tirò il braccio come se volesse staccarglielo dalla spalla e stavolta Ilyas urlò a pieni polmoni, così come urlò quando, con il ginocchio destro, l'altro lo colpì alle costole, inchiodandolo a terra.
«Un affondo così è una mossa azzardata» ritornò la voce calma e pacata. Con il ginocchio destro ben piantato nelle sue costole, la presa salda sulla sua mano ora bloccata tra il petto e l'altro ginocchio, Bezbòznij lo fissò dal basso verso l'alto, a fondo. «Puoi farlo solo se il tuo avversario non sa difendersi o quando lo cogli di sorpresa. Mai sopravvalutare così tanto le proprie capacità. Cosa ti avevo detto a proposito di ragionare con la testa?»
Ilyas, a terra, stava annaspando. Gli sembrava di avere mille aghi conficcati tra la spalla e il polso; sentì l'ondata gelida di un crampo risalire per tutto il braccio e il dolore si sciolse in un altro urlo lacerato. Bezbòznij, sopra di lui, continuava a fissarlo.
«Adesso basterebbe premere qui.» Le dita della sua mano libera gli sfiorarono la gola scoperta. «Una sola stretta. Per farti perdere coscienza o... altro.»
Cosa fosse quell'altro Ilyas neanche se lo chiese. Sentiva troppo male per ragionare. Quel bastardo gli stava spezzando il braccio, il polso, la spalla, tutto. Non avrebbe resistito un altro minuto così, non poteva, non riusciva a...
Il peso si alleviò. Bezbòznij sorprendentemente lo lasciò andare. Non prese il coltello che adesso sarebbe stato facile sfilargli via dalle dita inerti. Ilyas rotolò sul fianco e si strinse il braccio contro il torso, terrorizzato all'idea che l'altro gli avesse lacerato i tendini del bicipite e gli avesse quindi in pratica staccato il braccio dalla spalla. Ma per quanto il dolore era stato intenso, il braccio non era rotto: se lo sentiva molle, dolorante quanto il polso contuso, come trafitto da lame penetranti in ogni centimetro, ma era ancor ben attaccato al suo corpo con tutti i muscoli.
A fatica, col fiato che gli galoppava in gola, riuscì a mettersi in ginocchio. Il coltello era abbandonato a terra, davanti a lui.
«Riprova.»
Ilyas alzò lo sguardo, i capelli sugli occhi che gli scheggiavano la visuale. Attraverso quella cortina vide Bezbòznij in piedi, a pochi passi di distanza, che lo guardava con un'espressione che, ancora una volta, non fu in grado di decifrare.
Sembrava come in attesa.
«Cosa?» boccheggiò.
«Ho detto: riprova.»
Ma era pazzo? Ma cosa voleva, perché non lo picchiava subito? Aveva preso la Simulazione per una sessione di addestramento? Ilyas non capiva che cosa diavolo stesse succedendo.
«Cos'è» ritornò la voce, «hai paura?»
Fu come se qualcuno gli avesse appena lanciato una secchiata d'acqua gelida in pieno viso. Ilyas si raddrizzò di colpo, il braccio destro stretto dall'altra mano, e soffiò uno sbuffo per togliersi le ciocche disordinate da davanti agli occhi.
«Non ho paura» dichiarò a denti stretti.
Avrebbe dovuto mostrarsi debole, docile e inoffensivo, con la speranza che, dopo un paio di colpi ben assestati, l'altro lo avrebbe lasciato in pace, convinto di averlo strigliato a dovere. Era così che funzionava, o meglio: era così che insegnavano nell'esercito come comportamento da tenere in caso di cattura del nemico, per tentare di salvare la pelle e, nella migliore delle ipotesi, riuscire a fuggire. Ma Ilyas non ce la faceva. Ammettere di avere paura sarebbe stato come ammettere già il fallimento. Equivaleva ad arrendersi, sottomettersi. E lui non si sarebbe arreso, se l'era ripromesso.
«Avanti» intimò Bezbòznij, la voce più profonda, quasi roca, densa di aspettativa.
Almeno così parve a Ilyas quando, afferrando il coltello con la mano sinistra, si lanciò di nuovo all'attacco.
Stavolta fu più cauto. Gli girò intorno, calcolando attentamente la distanza e la forza da utilizzare. Lo colpì e l'altro parò. Lo colpì di nuovo e l'altro si abbassò. Lo colpì con un fendente che lasciò un lungo taglio sul braccio e l'altro lo respinse senza emettere suono.
Ilyas stava attento a rimanere ben chiuso, a non abbassare la guardia come prima; continuò con delle coltellate rapide, che a volte andavano a segno, causando dei tagli superficiali, e dei fendenti ben mirati, poi ripassò agli affondi, una serie ravvicinata, anche se i colpi non erano abbastanza potenti perché stava utilizzando la mano sinistra. Il braccio destro continuava a dolergli e i suoi movimenti non erano abbastanza veloci, se ne accorse, ma puntò tutto sulla precisione, cercando di muoversi il meno possibile per risparmiare le energie e studiare l'altro per prevedere le sue mosse.
Era difficile: Bezbòznij era un combattente esperto, ne era ben consapevole dopo tutti quei mesi passati nel campo reclute. Era uno di quelli che non si slanciava se non era pronto a resistere allo slancio dell'avversario; non attaccava prima di essersi preparato a respingere un attacco. Era calmo, e letale, bravo a nascondere i suoi movimenti: contraeva i muscoli solo quando attaccava e, mentre Ilyas lo incalzava con un turbinio di colpi, non attaccò mai; si limitò a parare i suoi colpi, muovendosi in circolo insieme a lui. Più e più volte lui tentò di raggiungere i suoi punti vitali, il suo ventre e la sua gola dove la vita pulsava alla superficie, e ogni volta l'altro lo scansò balzando da parte. Scartava, bloccava, teneva il ritmo degli attacchi senza stillare una goccia di sudore. Il sangue però aveva cominciato a sgorgare, di un rosso vivo anche nella poca luce, e Ilyas a un certo punto, quando si fermò un attimo per riprendere fiato e ricalcolare la posizione, guardò ipnotizzato le ferite scintillanti apparse sulle braccia dell'uomo e una che si era appena aperta sulla parte inferiore della sua coscia per un fendente che gli aveva sferrato dal basso.
Sta sanguinando, pensò, frastornato e incredulo, il sudore che gli scivolava acre lungo il viso. Può sanguinare anche lui.
Era strano: era come vedere un dio sanguinare.
Non avrebbe resistito ancora per molto. Non a quel ritmo, combattendo con la mano sinistra, e non se proseguiva a colpirlo in quel modo superficiale. Di solito anche dei tagli marginali erano in grado di deconcentrare il difensore, tanto più se erano numerosi, ma Bezbòznij non sembrava accusare nulla; continuava a tenere la guardia alta, serrata, gli occhi fissi su di lui, riverberanti concentrazione. Ilyas non aveva nessuna speranza di prenderlo per sfinimento, lo sapeva: avrebbe dovuto attaccarlo di nuovo con l'intenzione di ucciderlo.
Me la vuole proprio far sudare questa promozione a tenente.
Non era forse questo il motivo per cui che era stato trascinato lì? L'altro non voleva "aiutarlo", in un modo distorto, certo, ma d'altronde l'unico che permettesse l'esercito? Ilyas non trovava altre spiegazioni del perché altrimenti si trovasse in uno scantinato sotterraneo armato di un coltello, teso dallo sforzo di aggredire e uccidere il suo maggiore colonnello. Se lo avesse battuto, Bezbòznij gli avrebbe dato il massimo dei voti; conoscendo quell'uomo, doveva essere l'unica spiegazione logica del suo comportamento.
Poteva andargli peggio, continuava a ripetersi. Molto peggio. Chissà che fine aveva fatto Dragan...
Quando ritornò all'attacco, si spostò oltre il gomito sinistro dell'altro, che aveva notato essere la sua area più sguarnita. Bezbòznij intercettò il movimento solo a metà infatti; ruotò su se stesso e scartò, ma Ilyas fece in tempo a sferrargli un fendente al fianco, che sprizzò un copioso getto di sangue.
Sì, cazzo, pensò, esaltato.
Adesso doveva girarsi e colpirlo di nuovo, prenderlo al ventre, la parte più vulnerabile e facile in cui piantare un coltello, non come la giugulare, che lascia a strillare la vittima per un minuto buono, o il cuore, che è sempre complicato da trovare. Doveva affondare nella sua pancia, nelle sue viscere, tranciargli l'esofago proprio come avrebbero fatto le zanne di un lupo.
Mise tutta la forza che aveva nel braccio sinistro, mosse in avanti il polso e scattò. Ci arrivò vicino, vicinissimo. Bezbòznij si scansò in tempo, ma nell'urgenza del movimento si sbilanciò e sembrò per un attimo surreale perdere la presa su di sé. Galvanizzato, Ilyas tentò ancora un affondo, allora l'altro, nel cercare di controllare il suo movimento, gli colpì l'interno dell'avambraccio con il proprio e provò subito a sollevare la mano destra per disarmarlo con una torsione del braccio o una presa al polso. Tuttavia, nessuna di queste cose avvenne perché Ilyas, col sangue che gli batteva spasmodico contro le tempie, fu più veloce: si liberò da quella stretta duttile e con la lama lo colpì al fianco, ancora, più a fondo di prima, facendo sgorgare altro sangue.
Ci fu un suono che riverberò come un sasso gettato in un pozzo: un gemito. Jagun Bezbòznij aveva appena rantolato di dolore ed era stato lui – lui – a causarlo; lui ci era riuscito, lui aveva fatto sanguinare quell'uomo all'apparenza inscalfibile, simile a una deità di pietra dai lineamenti scabri e selvaggi; lui lo aveva ferito. Quel gemito era stato vero come sarebbe stato se avessero combattuto corpo a corpo nella vita reale. Era un suono che aveva il sapore venefico della vittoria.
E ora muori, pensò roteando il polso e rigirando la lama per il colpo di grazia.
Bezbòznij reagì.
Proprio quando pensava di non avere più ostacoli, Ilyas si ritrovò il polso dell'altro, scattato come una serpe tra gli sterpi, che intercettava il proprio, lo colpiva di netto con la mano aperta a coltello, come se stesse tirando un fendente discendente. Per poco non perse la presa del pugnale.
Non fece in tempo a fare nulla, neanche ad aprire la bocca per proferire un'esclamazione di sorpresa: Bezbòznij gli afferrò il polso con la mano destra e gli stese il braccio in avanti, mentre con la sinistra lo colpiva alle costole, ancora e ancora, finché non lo fece piegare in due. Lo prese allora di nuovo per l'avambraccio, glielo torse dietro la schiena, applicando un altro blocco articolare al gomito, e Ilyas urlò come una bestia portata al macello. Non riconosceva in quelle grida la propria voce, ma doveva essere lui, lui che strillava e cercava convulsamente di liberarsi, ritornato intrappolato nella presa dell'altro che, nonostante stesse sanguinando abbondantemente dal fianco, non accennava a mollarlo.
Dopo alcuni minuti di lotta spasmodica, invece di spingerlo a terra come aveva fatto all'inizio, Bezbòznij lo scaraventò contro il muro. Il coltello tintinnò impotente sul pavimento di cemento. Ilyas si accasciò contro la parete. Aveva battuto la testa; del sangue cominciò a colargli dal taglio che aveva sulla tempia, frutto dell'attacco al fiume, lungo il lato destro del viso. Si portò una mano a sfregare la pelle contusa e gemette. Percepiva l'odore del proprio sangue vibrante nell'aria, che si mescolava a quello dell'altro.
Anche Bezbòznij aveva un taglio in faccia. Se ne accorse solo quando, tremante e ansante, riuscì a sollevarsi, la schiena contro il muro, il fiato intrappolato tra i denti, ogni singolo arto che urlava dolore. Fissò l'altro per valutarne le condizioni: anche lui ansimava leggermente e aveva quella ferita al fianco che gli aveva insozzato tutta la parte bassa della divisa, più un'altra serie di ferite sanguinanti, tra cui quel taglio sulla guancia che Ilyas non ricordava di avergli inferto; forse lo aveva vibrato poco prima nella colluttazione, nel cercare di liberarsi dalla sua presa; un taglio netto al lato del viso che si trovava proprio dove l'uomo aveva la sua vecchia cicatrice. Come se il coltello, animato di vita propria, avesse voluto riaprirla.
Con una mano che si teneva il fianco ferito, Bezbòznij sollevò l'altra a sfiorarsi la guancia. Delle gocce di sangue gli macchiarono il palmo; lo abbassò per osservarlo per alcuni secondi di assoluto silenzio e poi, lentamente, riportò gli occhi su di lui.
Sorrise.
Ilyas si paralizzò.
In piedi contro il muro, anchilosato come se gli avessero congelato tutti i muscoli, sbatté le palpebre, spalancò la bocca per la sorpresa, forse.
Jagun Bezbòznij stava sorridendo? Era il suo sorriso quello? Non gliel'aveva mai visto fare, non così apertamente, e ora che lo vedeva, che era testimone di un evento così raro, non gli sembrò affatto un sorriso normale: più un innaturale stiramento di labbra nel viso altero e fiero, riverberante forse dolore, forse euforia, un ambiguo senso di eccitamento sommerso quanto scoperto, qualcosa che gli trasmise, nella metà di un istante, un brivido gelido lungo la schiena, un gancio di allarme alle viscere come se, da lupo, avesse appena intravisto la carabina di un cacciatore tra i cespugli.
Quando lo guardo a volte, quando mi sono ritrovato a guardarlo negli occhi... ha uno sguardo che mi fa gelare il sangue.
Le parole di Dragan, dette appena pochi giorni prima, riverberarono dentro la sua testa in un'eco lontana. Sarebbe indietreggiato, se non avesse avuto il muro dietro di sé, forse addirittura avrebbe tentato la fuga, in barba all'impossibilità della situazione e a tutto quel che razionalmente il cervello gli imponeva, ma l'istinto, la sua pelle, le sue viscere, gli urlavano il contrario: che doveva scappare, adesso, ora, fuggire via a gambe levate, perché non era normale, no; non era come sempre, come nel mondo reale, quel sorriso e il modo in cui lo stava guardando...
Svelto, prima che Ilyas potesse rendersene conto, Bezbòznij ruppe l'immobilità e gli fu addosso. Lo colpì con un pugno in pieno stomaco, togliendogli il fiato e la voce, e lo prese per i capelli trascinandolo al suolo. I suoi movimenti erano veloci, ratti movimenti da soldato addestrato a dare la morte, impensabili per qualcuno che era stato appena accoltellato almeno una decina di volte, per quanto superficialmente tranne una, eppure eccolo lì, un possente fascio di muscoli e tendini appena incrinato che lo spingeva a terra e cominciava a tartassarlo di calci. Lo prese di mira con la punta dello stivale, con colpi potenti e precisi, ravvicinati, che si abbatterono sulla sua schiena e sulle sue spalle, sullo stomaco, che Ilyas cercò di proteggere raggomitolandosi sul pavimento, la rabbia che iniziava a montare quasi offuscando la paura.
Si schermì e, quando l'altro gli lasciò uno spiraglio, si lanciò contro di lui ignorando il dolore. Provò a colpirlo alla spalla, a fargli perdere l'equilibrio, e riuscì persino a tirargli un gancio destro dritto in faccia, facendo schizzare altro sangue, ma Bezbòznij intercettò il suo polso vibrato per il secondo colpo e lo ributtò al suolo. Lo trascinò per il collo della maglia fino alle vasche posizionate sotto le cisterne e lì, senza che Ilyas riuscisse a sottrarsi, gli infilò la testa sott'acqua, gliela spinse giù con tale forza da immergerlo fino a metà busto e fargli toccare la fronte contro il fondo.
Quando riemerse, tossendo e sputando acqua, fece in tempo a ingoiare un vorace respiro prima di essere di nuovo ficcato con tutta la testa dentro la vasca, l'acqua che risaliva nelle narici e scendeva lungo la trachea a sostituire quel poco d'aria che aveva aspirato. Si dimenò, cercò di rialzare il capo, ma la mano dell'uomo lo teneva saldamente giù e sentì l'altra che gli torceva il braccio destro ancora dolorante, spingendolo ad aprire la bocca, gridare per il dolore e incanalare altra acqua nei polmoni.
Pensò di essere ormai sul punto di annegare quando venne sollevato.
«Ti arrendi?»
Una domanda pacata.
Ilyas, preda di violenti colpi di tosse, scosse la testa, l'acqua che gli ruscellava tra i capelli, lungo il viso, dentro i vestiti, e trasse un profondo respiro preparandosi a essere rischiacciato con la testa sott'acqua, ma Bezbòznij lo afferrò per la vita e lo trasse su in piedi. Gli tolse la giubba, che, per come Ilyas aveva lottato per rialzare il capo dalla vasca, si era aperta e gli era scivolata lungo le braccia, e gli levò nel movimento anche il gilet con l'ultimo caricatore nelle tasche, ormai inutile. Poi lo buttò contro il tavolo.
L'impatto del bordo contro il basso ventre gli strappò ancora una volta l'aria dai polmoni. Le sue gambe si piegarono, ma non crollarono. Rimase aggrappato alla superficie di legno nel tentativo di riprendere fiato. Sentì l'altro avvicinarsi, la sua presenza incombente, il suo fiato caldo che per un attimo gli aleggiò sopra la nuca. Con la mano posata sulla parte bassa della sua schiena, Bezbòznij racchiuse nel pugno la stoffa bagnata della sua maglietta e gliela sollevò su per i fianchi. Sembrò indugiare.
«No...» riuscì a biascicare Ilyas, ancora affannato, e tentò di rialzarsi.
L'altro, portando velocemente la mano alla sua nuca, gli afferrò di nuovo i capelli, gli tirò la testa all'indietro e la sbatté con violenza giù contro la superficie dura del tavolo. Una, due, tre volte. A un certo punto Ilyas non riuscì più a contarle. Quando prima i suoi occhi erano stati invasi dal buio trasparente dell'acqua, ora vedeva solo rosso, un velo rosso e baluginante dove lo scorcio di mondo che riusciva ancora a filtrare fremeva bollente come nel magma.
Lottò per rimanere cosciente, anche quando la vista gli si annerì del tutto. Dopo avergli sbattuto la testa per un numero imprecisato di volte, Bezbòznij gli passò un braccio sotto la vita e provò a rigirarlo per metterlo sopra il tavolo. Ilyas, gemente e frastornato, incapace di vedere ormai a un palmo di naso e con il sangue che gli scivolava lungo il viso, non seppe come continuò a opporsi, le mani che si muovevano di vita propria, simili a oggetti slentati dal corpo, che cercavano di allontanare l'altro, di graffiarlo e colpirlo, sferrando dei deboli e patetici pugni alla cieca. Fu facile per l'uomo immobilizzarlo catturandogli i polsi e buttarlo ancora contro il tavolo, che sembrò incrinarsi sotto il suo peso quando ci venne scagliato sopra, di schiena stavolta, la nuca che sbatteva violentemente contro il duro legno e il bordo scheggiato che gli segava la pelle nuda della parte inferiore della schiena, scoperta per come gli era risalita su la maglia.
Lottava, ma non vedeva più niente, neanche l'uomo davanti a sé, sopra di sé, che si era infilato tra le sue gambe e cercava di farlo stare fermo. La cantina sembrò contorcersi e franare su se stessa quando avvertì un peso sulla carotide: un gomito che premeva ostruendogli il passaggio d'aria. Pensò che avrebbe vomitato o avrebbe perso i sensi oppure, molto semplicemente, sarebbe morto di lì a poco.
È troppo forte per me...
Una consapevolezza raggelante. Lo sapeva già, certo che lo sapeva: Jagun Bezbòznij era più forte di lui, ma tanti altri lo erano. Dragan, per citarne uno, ma anche Zaid o Arkaša, molti dei suoi commilitoni, il giovane tenente Bojan Lukic e poi, tra gli ufficiali, Zamatij, il capitano Kadyshev, forse persino Semonov e di sicuro il tenente colonnello Andrej Saganev, la cui forza, si narrava, andava oltre l'umano. Muscoli alla bilancia tutti loro erano più forti di lui, ma non aveva importanza. Con la bravura, con la velocità, con la tenacia, Ilyas era comunque in grado di batterli tutti, tutti quanti, e in ogni caso, anche se non ci fosse riuscito, sarebbe stato capace di resistergli; non si sarebbe mai arreso. Ma Jagun Bezbòznij... lui non era solo forte, era dominante e questo sì che faceva una fottuta paura.
Non ci esco vivo da qui, fu l'ultimo pensiero che ebbe, simile a una miccia inesplosa, poi non ci fu più niente, solo il buio.
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