VIII. Nella terra dei lupi

«Schema contatto a sei, chiaro?»

A parlare era stato Dragan, già calato nel ruolo di caposquadra della pattuglia. In un'altra occasione Ilyas avrebbe fatto una battuta su quanto dovesse piacergli avere cinque ragazzi scodinzolanti ai suoi ordini, ma quello non era il momento di scherzare. Si sarebbe trattenuto fino alla fine della Simulazione. Ora dovevano iniziare la missione.

Era stato tutto molto veloce: quando aveva aperto gli occhi e si era ritrovato abbagliato dalla luce, aveva subito capito dove era finito. Non a Batum, il villaggio sotto attacco, ma al campo base, il nascondiglio dei combattenti in montagna, nel secondo gruppo. C'era anche Dragan con lui, ma non era l'unico del suo plotone: anche Arkaša era capitato nello stesso gruppo, così come Erazm Mikhajev e Petar Vasil, altri suoi commilitoni. Il resto dei ragazzi, circa una ventina, provenivano dagli altri quattro plotoni, lui non li conosceva infatti; giusto con un paio aveva scambiato due o tre parole in quei mesi, al massimo una sigaretta.

Appena tutti si erano svegliati, non avevano perso tempo con le presentazioni. Si erano subito messi all'opera controllando alacremente il campo per capire cosa il Comando gli aveva lasciato per la missione. C'erano armi, più di quante sperassero in realtà: cartucce calibro 7,62x39 per i kalashnikov col mirino telescopico, munizioni ed esplosivi, oltre lanciarazzi Katyusha e bombe da 40 mm per i lanciabombe portatili. Queste ultime erano state una scoperta che aveva fatto quasi piangere di gioia alcune tra le reclute, incluso Arkaša.

«Pensavo ci avrebbero lasciato solo dei bastoni» aveva confessato nel prendere il suo kalashnikov con la reverenza che si riserva alle antiche reliquie.

Nel proseguire la rassegna l'entusiasmo si era smorzato: si erano resi conto che potevano contare su provviste che non sarebbero durate più di tre giorni. Il che voleva dire che dovevano mettersi in marcia immediatamente.

Si erano divisi in quattro pattuglie e deciso i capisquadra. Dragan era stato scelto quasi in automatico una volta formata la loro pattuglia, che comprendeva Ilyas, Petar, Arkaša e altre due reclute della centoquarantasettesima divisione. La sua fama di promettente soldato lo seguiva un po' ovunque, persino negli altri plotoni. Anche su questo Ilyas si era riservato più avanti di fare una battuta.

Per la prima rotazione a lui era toccato il ruolo di scout, il primo uomo di pattuglia, i suoi occhi e le sue orecchie. Era stato Dragan a deciderlo. Come scout, insieme a un'altra recluta di nome Ivan Larakhev, Ilyas sarebbe avanzato per primo e avrebbe riferito tutto ciò che vedeva e sentiva al caposquadra. Sua era la responsabilità di trovare la strada migliore sia in termini di percorribilità che di copertura. Non avevano mappe, né tantomeno un satellitare e, visto che dovevano portarsi a piedi tutto quanto, era necessario che si muovessero in fretta e fossero in grado di individuare subito dei potenziali punti di sosta in mezzo ai boschi.

«Sai orientarti in montagna meglio di chiunque altro» aveva detto Dragan. «Guidaci.»

Mentre avanzava, con il peso del kalashnikov in posizione da tiro e quello rassicurante del coltello alla cintura, Ilyas si guardava attorno, attento a ogni minimo dettaglio del bosco brulicante, e forse per la prima volta in vita sua si sentiva davvero nudo. Non sentiva gli odori. O meglio: li percepiva, ma non come nella realtà, dove era un essere dotato dell'olfatto di un lupo. Per la prima volta da quando aveva undici anni si muoveva nel mondo come un comune umano privo delle doti che tante volte gli avevano salvato la pelle. Era strano: non essere più un vulkulaki lo faceva sentire esposto, come se si fosse appena tolto tutti gli strati di pelle e fosse lì, con gli organi in bella vista, a farsi scorticare dal vento.

Avanzava molto lentamente insieme alla pattuglia. Si fermava, osservava l'area in cui si trovavano, riprendeva a muoversi, gli altri membri che lo coprivano dal fianco e da dietro, dove non avrebbe visto il profilarsi di una minaccia. Se incappavano in un'altura, con terra di nessuno sull'altro versante, lui e Ivan facevano fermare gli altri e andavano in avanscoperta usando la copertura degli alberi.

Se ci prendono non siamo morti: peggio, pensava, febbrile.

Avrebbe avanzato anche più lentamente, con il fucile che in quella posizione gli spezzava la schiena, se avesse significato che sarebbero arrivati vivi a Batum. Farsi uccidere o catturare i primi giorni aumentava drasticamente le possibilità di fallire il test.

Sentirono dei rumori. Nella foresta rimbombavano già gli echi delle mitragliatrici e il sibilo dei colpi che rimbalzavano contro gli alberi. Un'altra pattuglia doveva essere incappata nei federali oppure i russi stavano sparando dalle alture per spaventarli. Come a dire: siamo qui e vi scoveremo. Loro potevano permettersi di sprecare proiettili, d'altronde.

«Siamo in transito trasversale, dovremmo riuscire a evitare le imboscate» disse Dragan quando fecero la prima sosta. «Ma non possiamo procedere con questa andatura: ci metteremo il doppio del tempo a raggiungere Batum e non abbiamo abbastanza provviste.»

«O così o saliamo» replicò Ilyas. «Ma allora scordiamoci di non lasciare nessuna traccia.»

Dragan assentì. Lo sapeva già, ovviamente. Lo sapevano tutti. I punti alti e i sentieri erano i luoghi da evitare per non farsi scovare dal nemico, ma erano anche i punti che permettevano gli spostamenti più rapidi. Procedere nel terreno brullo, senza mai usare la cima delle alture, era invece la scelta di spostamento più tattico, anche se una tortura in termini di tempo impiegato per coprire distanze anche molto piccole. In una mattina non avevano fatto neanche dieci chilometri.

«Andate in ricognizione» decise infine Dragan, rivolto a Ilyas e Ivan. «Vediamo dove riusciamo a tagliare.»

Passarono il resto di quel primo giorno dentro il simulatore così, a muoversi furtivi e a pasto sostenuto nel fitto sottobosco che macchiava il fianco della montagna, facendo molte soste per una costante conferma delle coordinate. La vegetazione era fitta e la volta degli alberi non consentiva di vedere quasi nulla; se da una parte quel paesaggio offriva un'adeguata protezione, dall'altra rendeva l'avanzamento tattico più difficoltoso. Per capire se stavano andando nella direzione giusta, verso nord, dovevano fermarsi molte volte e Ilyas e Ivan andarono in esplorazione con una media di due volte l'ora.

Com'era da prevedersi, e come spesso era avvenuto anche durante le esercitazioni, il morale cominciò a calare: divennero tutti più accaldati, più frustati, più incazzati, tranne Dragan che continuava a spronarli ad andare avanti e non smetteva di pianificare.

«In caso di attacco fuoco di saturazione.»

«Gli brucio il culo a quegli stronzi» esclamò Arkaša. E poi si guardò intorno. «Ma dite che ci sentono?»

«Ma chi? Non c'è nessuno» fece Petar.

«No, intendo quelli fuori. Il Comando. Ci sentono attraverso i computer?»

«Solo i tecnici seguono cosa avviene durante la Simulazione» spiegò l'altro ragazzo che Ilyas non conosceva, un cecoslovacco dai capelli biondi di nome Tibor Zhuk, che si era rivelato una fonte preziosa di informazioni sulla Simulazione. «E non vedono nulla: il simulatore vomita dei codici e loro li decodificano. Me l'ha detto uno di loro e mi ha pure detto che questi codici rivelano solo alcune cose, tipo i nostri spostamenti, le reazioni fisiche, le azioni in generale, ma non quello che diciamo, ecco, quello no. A parte per il codice di sblocco a loro non interessa nulla cosa diciamo, se invochiamo nostra madre o li mandiamo a fanculo.»

Arkaša sembrò soddisfatto. «Oh, quindi posso mandarli a fanculo.»

Per quella prima notte Ilyas trovò un buon nascondiglio: una caverna nascosta nella vegetazione, divisa da un grande masso, in cui infilarono l'equipaggiamento e tutta l'attrezzatura. Petar e Tibor, gli ultimi della pattuglia, erano i più provati per aver trasportato i lanciabombe per tutto il tragitto. Avrebbero fatto a cambio il giorno dopo; sarebbe toccato a Ilyas.

«Sembra proprio una vera notte cecena» disse più tardi Dragan quando venne il loro turno di guardia, gli occhi al cielo stellato che lumeggiava sopra la foresta.

Erano di nuovo solo loro due, lui e Ilyas, come quella volta in montagna durante l'esercitazione avvenuta subito dopo l'estate. Si sorprese a pensare a quante cose fossero cambiate da allora. Così tante e in così poco tempo.

«Quindi sei stato in Cecenia.»

«Sì, ci ho vissuto fino a tredici anni.»

«Con entrambi i tuoi genitori?»

«Esatto, poi mio padre è morto e mia madre ha deciso di tornare in Serbia, a Bezdan, sul confine. Non si è mai ripresa granché, lei, dalla morte di mio padre.»

«E tu?»

Dragan scrollò le spalle. «L'ho fatto come fanno tutti: provandoci ogni giorno.»

Tacque allora e rimase in silenzio a scrutare la caligine degli alberi. Anche Ilyas non parlò per un po'. Non c'era bisogno di parole, pensava, per cose del genere.

Il silenzio era spurio come era sempre il silenzio in natura: pieno di sussurri e di fruscii, rumori di animali che si muovevano nel buio – non si poteva negarlo: il simulatore era molto accurato –, tra cui si levò l'ululato di un lupo, dritto dal cuore della montagna.

Ilyas sentì un sorriso amaro sorgergli sulle labbra. «Hanno massacrato quasi tutti i lupi nel mondo vero, ma possono ancora crearli in un mondo finto.»

Bestie, pensò. Erano gli uomini le bestie vere e crudeli di quel mondo; lo pensava da sempre.

«La Cecenia è la terra dei lupi, sai?»

«Come?»

«Lo stemma della Repubblica indipendente di Ickerija, l'antico nome della Cecenia, è proprio un lupo. È un simbolo per i ceceni: placido ma all'erta, signore della sua terra.»

Sembrava che Dragan stesse recitando il verso di una poesia.

«Non lo sapevo» ammise Ilyas e il sorriso perse ogni amarezza. «Ecco perché i suoi combattenti sono così fieri.»

Erano anni che i ceceni combattevano contro i russi e ancora non si erano arresi; erano un popolo per cui lui provava il rispetto che si prova sempre verso i vinti.

«Mio padre mi ha raccontato di aver visto un lupo una volta» proseguì Dragan, lo sguardo ancora fisso nel folto del bosco. «Era in una montagna come questa, nascosto come noi. Anche lui si muoveva coi suoi compagni in piccole unità, una tecnica imparata nell'esercito; mi diceva sempre che il miglior modo di combattere è a piccoli gruppi perché quanto è più grande il gruppo tanto più alto è il numero delle perdite. Ma noi non abbiamo paura della morte, aggiungeva. Quando combatti per la libertà la morte significa giustizia.» Lasciò quelle parole a macerare nell'aria per alcuni istanti prima di riprendere. «Ha visto il lupo durante un giro di ricognizione. Era da solo, aveva trovato un fiume e così, all'improvviso, l'animale gli è apparso davanti sull'altra sponda. In un primo momento non ci ha creduto, ha pensato fosse un'allucinazione. Ha pensato addirittura di essere morto e che quello fosse il paradiso che si diceva accogliesse i guerrieri, con i lupi a fare da guardia. Ma il lupo era vero, si stava abbeverando e per un attimo ha alzato gli occhi a guardarlo. Immobile, silenzioso, bellissimo. Nei suoi occhi sembravano esserci tutte le ere del mondo. Così ne ha parlato mio padre e, credimi, non era un tipo che si lasciava andare a suggestioni, parlava poco e niente, per lui le parole si usavano per i fatti, non per i sentimenti, eppure è rimasto tanto colpito dalla visione di quel lupo, forse uno degli ultimi esemplari ancora vivi al mondo, da dirmi che dopo aver visto una cosa del genere qualunque uomo può morire in pace.» Un'altra pausa, palpabile. «Lui è morto un paio di anni dopo.»

«Combattendo» fece Ilyas, più un'affermazione che una domanda.

«Già: combattendo.»

Quello di Dragan fu un sussurro.

Ilyas spostò il kalashnikov sull'altra spalla, sbirciò il suo compagno, prese tempo. Infine riuscì a chiederlo: «Perché ti sei arruolato nella Legione?»

Perché vuoi combattere al fianco degli assassini di tuo padre?

Dragan girò lentamente il capo a guardarlo. «Tu perché l'hai fatto?»

«Non ho altra scelta.»

«Anch'io. Mia madre sta male, è malata da anni e io sono metà ceceno. Posso cambiare il mio nome, contare sul mio aspetto e sul fatto di non professare la religione di mio padre, ma non posso cambiare il mio sangue. Non voglio neanche.» Ritornò a fissare il fitto degli alberi. «Quando non hai un posto nel mondo, è facile prendere l'unico che ti offrono.»

Ilyas annuì, un gesto quasi indistinguibile nel buio. Aveva stretto le mani a pugno. Capiva fin troppo bene cosa l'altro volesse dire. Capiva che, quando non hai scelta, devi prendere quella necessaria, quella di cui forse non ti perdonerai mai.

«Anch'io ho visto un lupo. Più di un lupo, in realtà. Anni fa.»

«Davvero?»

Ilyas fece un altro cenno di assenso. Non avrebbe parlato della sua seconda natura, non poteva permetterselo, anche se Dragan si era dimostrato così diverso dall'idea che aveva avuto di lui all'inizio che ogni tanto, in quelle ultime settimane, aveva pensato... aveva accarezzato l'idea... di essere davvero nudo davanti ai suoi occhi...

«Sì, li ho visti ed erano proprio come diceva tuo padre: come se custodissero il segreto del mondo. Sarebbero piaciuti anche a te. Un lupo, mi diceva mia madre, è sempre libero, anche quando è incatenato. E finché esisterà anche solo un lupo a solcare la terra allora vorrà dire che esisterà ancora qualcosa per cui combattere.»

Anche quelle erano parole di sua madre.

Dragan sembrò sorridere. Gli scoccò un'occhiata difficile da decifrare, soffusa da quella che sembrava una palpabile ammirazione.

«Adesso ho capito.»

«Che cosa?»

«Perché il leopardo si è affezionato a te: ti ha riconosciuto.»

Ilyas si irrigidì, ma si rilassò subito dopo. Capì cosa l'altro voleva dire e ricambiò il sorriso.

«Magari anche lei non ha saputo resistermi, toh.»

«Siamo di vedetta, Ilyas.»

«Eh?»

«Stavolta sul serio.»

«E quindi?»

«Non mi tentare.» Dragan ritornò a guardare il bosco che friniva attorno a loro. «Dopo questa simulazione magari, anche se dovessi essere trasferito in Serbia, potremmo...»

Non continuò e anche Ilyas tacque. Ci pensò su. Gli sarebbe piaciuto continuare a vedere Dragan anche dopo la fine dell'addestramento, doveva ammetterlo, e forse, anche se in due basi diverse, la distanza non sarebbe stata così proibitiva...

Ne avrebbero parlato dopo la fine della Simulazione, decise. Ora quel che contava era uscire entrambi promossi da lì, idealmente con una medaglia da tenenti da appuntare in divisa. Da tenenti poi avrebbero avuto molti più giorni di licenza rispetto ai semplici soldati.

Placido ma all'erta, signore della sua terra.

Ilyas ripensò a quelle parole mentre continuava a scrutare la foresta e per tutto il turno si aspettò – forse sperò – di vedere un lupo emergere dalla vegetazione, ma non venne nessuno.

***

Arrivano al fiume tre giorni dopo, uno in più del previsto. Lo spostamento tattico aveva funzionato: non erano incappati nei nemici, né in esplosivi nascosti, ma ciò aveva comportato un dispendio di energia e tempo ulteriore. Arrivarono infatti stanchi, affamati, ma soprattutto assetati dopo aver dovuto razionare la poca acqua a disposizione lungo il percorso. Quando Ilyas avvistò finalmente il fiume pensò quasi a un'allucinazione.

«Quattro, abbiamo raggiunto la nostra posizione e ci metteremo in contatto non appena sistemati, passo» comunicò Petar che si occupava della radio, una delle poche che avevano trovato al campo base.

«Speriamo siano ancora vivi o meglio: operativi» osservò Tibor con un sospiro. «Gli spari si son sentiti per tre giorni. I russi avranno avuto tempo di pisciare mentre scaricavano tutti quei proiettili?»

«Le pattuglie Uno e Quattro sono ancora in piedi, la Due in effetti non la sentiamo da ieri.» Dragan era meditabondo. «In tre unità l'assalto possiamo ancora farlo, in due sarà una missione suicida, da soli tanto vale ammazzarsi direttamente.»

«Tanto non moriamo davvero» osservò Arkaša che stava controllando il mirino del suo kalashnikov.

«Ma falliamo il test.»

«Non se ci buttiamo in battaglia. Lo avete sentito Karkarov? Se veniamo uccisi nel mezzo del fuoco il nostro avatar viene ripristinato.»

Tibor scosse la testa. «Non funziona così. Il simulatore è in grado di distinguere un attacco vero da uno falsato, diretto solo al ripristino degli avatar. Utilizza un sofisticato calcolatore che raccoglie e confronta tutte le variabili e probabilità di un'operazione. Unito ai recettori delle capsule, che registrano tutte le nostre reazioni corporee e possono capire, anche solo dal dato della pressione sanguigna, se siamo davvero spaventati o meno, il computer è in grado di valutare le nostre intenzioni con un margine di errore dello 0,3%. Almeno così dicono i tecnici.»

«Quindi ci stai dicendo che siamo fottuti?»

«Esatto.»

«Cazzo di scienziati di merda.» Arkaša, che andava famoso nel plotone non solo per la sua abilità a sparare ma anche per essere più sboccato di Zamatij, butto giù un altro paio di insulti e qualche bestemmia prima di proseguire, a labbra strette. «Neanche i kamikaze vogliono farci fare.»

«Sarebbe troppo facile quando sai che hai tre possibilità di "rinascere".»

«Ma che sei dalla loro parte, Tibor?»

Il cecoslovacco scosse ancora la testa. «No, affatto. Però ammiro quello che sono riusciti a creare. Il simulatore è un sistema quasi perfetto.»

Era su quel "quasi", pensò Ilyas, che dovevano puntare.

Dragan riprese parola: «Li attaccheremo prima dell'alba, una volta ricongiunti con gli altri, quelli ancora operativi. I russi se lo aspettano e avranno già tutto l'armamentario spianato, quindi non potremo contare sull'effetto sorpresa: dovremmo essere aggressivi e veloci, è l'unico modo.»

Ci mancò poco che rispondessero "sissignore". Ilyas non lo avrebbe fatto mai, se non in un'occasionale situazione intima di cui Dragan avrebbe dovuto sentirsi molto fortunato; comunque, anche se non l'avrebbe ammesso, il suo tono fermo lo calmò. Sembrava avere la situazione del tutto sotto controllo.

Si ricongiunsero con le pattuglie Uno e Quattro quella sera stessa e scelsero insieme il punto dove avrebbero sferrato l'attacco. I russi si erano sistemati in una fortificazione nei pressi del fiume, proprio vicino al ponte che costituiva la più importante via di rifornimento di Batum. Il villaggio si trovava solo a una decina di chilometri di distanza e la fortificazione lo fronteggiava come un animale in agguato, un cupo complesso usato come posto d'osservazione e scalo tecnico per lanciare attacchi contro la cittadina. Il giorno prima i federali avevano sganciato due munizioni di attacco diretto congiunto, come gli spiegarono i membri della pattuglia Uno, che erano lì già da svariate ore. Sapevano tutti che ad avvicinarsi avrebbero trovato una decina di soldati solo in quella zona, che facevano da sentinelle avanzate per chiunque si avvicinasse a Batum.

«Come lupi in agguato» disse Erazm, un ragazzo di origini bielorusse del loro plotone con cui Ilyas non era mai andato molto d'accordo. Lo trovava uno sbruffone e forse ci si rivedeva un po'.

«I lupi sono meglio.»

«Beh, tu te ne intendi di animali, Hasani...»

Dragan stava guardando l'avamposto con il binocolo. «Ci sono parecchi punti di accesso: l'unico modo per condurre in porto un attacco del genere è distribuirci più o meno uniformemente e cercare di colpirli in simultanea. Dobbiamo dividerci in squadre di irruzione e se qualcuno trova resistenza allora tutte le squadre nelle vicinanze devono spostarsi a fornire supporto oppure bisognerà mettere le entrate in sicurezza. Tutto chiaro?»

«Ti sei proprio calato nella parte del comandante.»

«Stai zitto, Ilyas. Piuttosto: avete visto tutti quei buchi all'esterno?»

«Cazzo, sì.» Arkaša fece una smorfia. «È più buio all'interno, noi non vedremo un cazzo, mentre loro avranno una visione perfetta per spararci addosso.»

Dragan annuì gravemente. «Raggiungere l'obiettivo senza essere visti è impossibile da questa parte. Dobbiamo colpirli da dietro.»

Ilyas fu il primo ad alzarsi. «Andiamo a incularli, dai. Non vedevo l'ora che lo dicessi.»

Si prepararono e cercarono al contempo di tenere il morale alto. La situazione era pericolosa a dir poco. Gli ufficiali del Comando – chissà chi erano quelli che presidiavano la fortificazione – si aspettavano un attacco da un momento all'altro e conoscevano sia il loro numero sia le armi che avevano a disposizione. Loro invece non sapevano quasi nulla e tutti i loro vantaggi erano stati annullati in quello scenario, massimizzando quelli dei russi. Dire ad alta voce che non erano più che agnelli condotti al macello era inutile: lo sapevano già. La Simulazione era architettata per fallire, ma questo non significava che avrebbero smesso di giocare.

Attaccarono che era quasi l'alba. Cinque punti di ingresso, visibilità zero, nessun elemento ostile all'esterno. Il nemico se ne stava al riparo ad aspettarli. Dragan era nella prima unità di assalto, Ilyas nella terza. Sarebbe avanzato solo quando l'unità di testa sarebbe arrivata dall'altra parte e si fosse messa in posizione per garantire un fuoco di copertura. Regola numero uno che gli avevano insegnato per qualsiasi guerra da qualsiasi parte del mondo: avere sempre qualcuno a coprirti le spalle.

A proteggerti il culo, pensava.

Se avesse avuto i suoi poteri avrebbe potuto accorgersi della presenza dei russi rintanati nella fortificazione, ma non sentiva nulla. L'aria era silente e quasi inodore, l'unico rumore era il vento che fischiava sulla superficie del fiume, increspandola di ricami argentati. Le increspature sembravano tante mani protese, pronte ad afferrare il riflesso della luna.

Dragan diede il segnale. La prima unità aveva raggiunto il muro perimetrale. La distanza che li separava era di circa cinquecento metri. Pochi nella realtà fisica, ma diventavano cinquecento chilometri con il pensiero che una mitragliatrice avrebbe potuto prenderli di mira da un momento all'altro.

Ilyas iniziò ad avanzare, a occhi bassi, per abituarsi già al buio che avrebbe trovato all'interno del sito. Per quanto desiderasse correre per fuggire il prima possibile dalla zona allo scoperto, si attenne agli insegnamenti dell'addestramento, che imponevano una corsetta perché recuperare da uno scatto, se fosse iniziato il fuoco, avrebbe richiesto troppo tempo, la differenza tra la vita e la morte. In quel momento era un bersaglio, neanche una recluta, l'ultimo anello della catena alimentare dell'esercito, né tantomeno una persona. Ma questo, forse, non lo era mai stato in quel contesto.

Il primo tratto andò: la sua unità raggiunse il muro e lui fece attenzione a non urtarlo per non svelare la loro esatta posizione. Duecento metri li avevano fatti senza esser crivellati, bene. Toccava arrivare alla fortificazione "vivi".

Erazm era tra gli ultimi della formazione, a chiudere la fila. La "coda", la chiamavano, la posizione del mitragliere sul retro di un bombardiere, il cui unico scopo era quello che nessun velivolo nemico si insinuasse dietro la formazione.

«Libero?» gli chiese Dragan.

Il ragazzo rispose attraverso la ricetrasmittente: «Libero.»

Ripresero ad avanzare, nel buio tessuto di luna, furtivi come topi. Ilyas sentiva già gli spari frinire nell'aria, nonostante la notte continuasse a essere stranamente silente. Il momento peggiore era proprio quello, quando i primi spari non avevano ancora cominciato a crepitare eppure li sentivi lo stesso, con la vaga nettezza di un presagio. In quel momento potevi solo ascoltare e pensare. Quanti mezzi sarebbero arrivati? Gli sarebbero piombati direttamente addosso o i nemici gli avrebbero puntato i mitragliatori scaricandoli a pioggia? Sarebbero sopravvissuti?

Dragan con l'unità di testa riuscì ad arrivare all'edificio. Cominciarono a entrare.

E poi avvenne.

Un suono stridulo, lo sferragliare dei cingoli e il rombo di un motore a pieno giro perforò la notte. Ilyas allungò il collo per vedere. Vedere era la cosa più importante in ogni operazione, l'unico atto in grado di placare il terribile timore dell'ignoto sempre in agguato ad avviluppare le viscere di un soldato. Poteva darsi che ciò che si vedeva sarebbe stato molto peggio di quello che si era previsto, ma comunque bisognava guardare. Sempre. Guardare il pericolo dritto in faccia, riconoscerlo, era comunque una tacca in più per la sopravvivenza. Ilyas l'aveva sentito dire a Jagun Bezbòznij questo, un giorno.

Uuuuf!

Si mise a gridare: «Merda! Merda!»

Seguirono urla lungo tutta la linea.

«Vedete niente dalla vostra parte?»

«Non vedo un cazzo!»

«Cazzo! Cazzo!»

«Sono già qui? Fottuti russi!»

«No, cazzo!»

«Ma allora che diavolo è, cosa...»

Un carro armato.

Ilyas lo vide avanzare come un incubo apparso all'improvviso sul crinale della coscienza. Era appena sbucato fuori da sinistra, un gigantesco mezzo corazzato armato di una mitragliatrice altrettanto gigante, sceso lungo una piccola depressione, non visibile dalla loro parte. E correva; nonostante la mole correva come un cavallo imbizzarrito.

Il panico cominciò ad allagarsi a macchia d'olio tra le unità ancora tra il perimetro e l'edificio. Arkaša aveva appena iniziato a sbraitare.

«Cazzo, spariamo! Facciamola finita, facciamola finita!» urlò e anche Ilyas urlò con tutto il fiato che aveva in gola.

Non è possibile, pensava. Quando avevano perlustrato la zona prima dell'assalto non avevano notato nessun veicolo corazzato. I russi lo avevano ben nascosto oppure potevano averlo addirittura "evocato" nel Limbo, consapevoli che quella sarebbe stata la notte in cui sarebbero stati attaccati? In quest'ultimo caso la Simulazione sarebbe stata un gioco ancora più sporco di quel che era.

Vaffanculo, pensò in preda alla rabbia, ma poi si ricordò: con la rabbia non si vincono le battaglie, non ci si salva la pelle. Doveva cercare di rimanere calmo. Non era l'ideale, certo, vedersi venire addosso un pachiderma di ferro armato di tutto punto. Non importava che sapesse che all'interno c'erano due uomini che stavano probabilmente sudando sette camicie per prendere la mira così sballottati sul terreno frastagliato. L'unica cosa che vedeva era quell'affare mastodontico che avanzava rombando verso di loro, le cui dimensioni erano ingigantite dalla paura, dal terrore freddo che scivolava in ogni giuntura del corpo. Un essere senza vita che li voleva solo ammazzare.

«Spariamo! Spariamo!» continuava a gridare Arkaša mentre Erazm gridava: «Ritiriamoci!»

Dragan intanto diede l'ordine di aprire il fuoco.

I primi spari della mitragliatrice sibilarono nell'aria. Ilyas si abbassò. Durante l'addestramento gli avevano insegnato come reagire quando il nemico apre il fuoco: bisognava scattare per rendersi un bersaglio difficile, ci si buttava giù, a strisciare in posizione di sparo, poi si trovava il nemico, si puntava il mirino e pam. Avevano anche inventato un termine, impersonale e feroce come tutti i termini utilizzati in ambito militare: "reazione al tiro di efficacia nemico".

Erano tutte stronzate.

Lo capì davvero solo quel giorno, nella finzione di una battaglia che pareva più vera della vita stessa. Se ti scaricano addosso dei colpi, il primo pensiero non è avanzare strisciando sul terreno perché non c'è pensiero, c'è solo istinto: sotto gli spari sei già a terra e vorresti aprire una voragine per affondarci dentro. Potendo, lui avrebbe preso anche un cucchiaio e si sarebbe messo a scavare.

«Controattacco!»

Era la voce di Dragan, che urlava come un dannato. L'unità di testa si era voltata, rinunciando all'obiettivo, per coprirli. Le posizioni si erano ribaltate; la fortificazione a quanto pareva era vuota, una trappola che i russi gli avevano teso per spingerli allo scoperto. Ilyas sentiva i fischi degli spari sopra di sé, come una pioggia di sassi lanciati contro una parete metallica. Doveva alzarsi e combattere. Non sarebbe "morto" così, acquattato a terra come un cane spaventato. Lui era un lupo e, come diceva spesso a sua sorella, i lupi non hanno paura di niente.

Respirò a fondo e sollevò la testa. Il carro armato si era fermato a circa cinquecento metri di distanza, miracolosamente impantanato in un fosso. Il terreno della vallata era irregolare, se ne erano accorti in quei giorni di marcia, e perlopiù gelato; quello vicino al fiume non faceva eccezione. Ilyas scorse qualcuno uscire dal carro armato, urlare qualcosa in un russo inferocito. Altri soldati con l'uniforme dell'esercito federale erano appena apparsi tra le ombre, armati di tutto punto, e gridavano ordini contraddittori. Ci fu confusione per un attimo a causa dell'arresto forzato del mezzo e quell'attimo fu troppo prezioso per sprecarlo.

«Spariamo!» gridò Ilyas.

Arkaša e gli altri lo stavano già facendo. Dragan e la prima unità anche. Sapevano tutti che l'unico modo per prevalere era la massima potenza di fuoco, senza però scordarsi di risparmiare le munizioni: sparare più colpi dei nemici e ucciderne tanti all'inizio, per costringerli a indietreggiare. Ilyas aveva uno dei lanciarazzi Katyusha con sé. Prese la mira, sparò mentre dietro di lui continuavano i colpi. Sfiorò il carro solo da un lato mentre Petar, che aveva due bombe, ne lanciò una contro l'autocarro e l'altra contro i russi attorniati attorno. Ci fu un'esplosione, una fiammata accecante illuminò il buio e poi seguì l'inconfondibile odore della carne bruciata.

«Riparo! Riparo e attacco!»

Erano vicino al muro, vi si erano lanciati come schegge impazzite. Alcuni erano caduti, ma Ilyas era ancora in piedi. Arkaša era a pochi metri da lui. L'istante in cui Ilyas udì il suo fucile d'assalto che sgranava, si girò, lo localizzò alla sua sinistra e si spostò dietro di lui in un lampo. Due metri, tre. Si girò di nuovo, aprì il fuoco. Decine di felci andarono in pezzi, geyser di corteccia d'albero esplosero da tutte le parti, urla fremettero come fulmini scaricati nell'aria. Si spostò verso destra, poi più giù verso la riva del fiume. Dalla sua posizione vedeva il fumo che si levava dal fianco del carro armato; il mezzo però continuava a sparare.

«Arkaša!» gridò. «Ce la fai a coprirmi?»

«Certo che ce la faccio» disse il ragazzo tra i denti, senza distogliere lo sguardo dalla raffica di colpi che stava sparando col suo kalashnikov.

Ilyas gli diede il lanciarazzi. «Colpiscilo con questo, al centro, ai periscopi e alla mitragliatrice, ma quando sono più vicino.»

«Che vuoi fare?»

L'unica cosa che possiamo fare: abbattere quel coso.

«Uccidere gli stronzi che ci stanno dentro, ma dobbiamo costringerli a tirare fuori la testa.» Stanarli, in una parola. Come si fa con una preda durante la caccia. Non poté fare a meno di pensarci. «Petar, mettiti in comunicazione con l'unità di testa.»

Organizzarono l'attacco in meno di un minuto, consapevoli di quanto anche mezzo secondo fosse il prezzo di vite umane. Dragan esitò, ma alla fine, convinto di poter fornire fuoco di copertura per almeno altri dieci minuti, diede l'ok. Ilyas si preparò insieme ad altri due ragazzi, tra cui Erazm, per andare allo scoperto. Si sarebbero avvicinati il più possibile al carro, armati di kalashnikov e delle bombe, per uccidere le due persone all'interno. Se fossero stati colpiti, lui non sapeva se i loro avatar sarebbero stati ripristinati; era una di quelle situazioni borderline che poteva facilmente non rientrare nelle morti "inevitabili" di cui aveva parlato Karkarov, ma era pronto a prendersi il rischio. Non c'era tempo per pensare: doveva agire.

Arkaša ricaricò e si sporse per prendere di mira la linea di alberi dove si erano andati a riparare i russi. La bocca della sua arma lampeggiò e abbaiò, lasciando partire una lunga scarica. Ilyas trasse un respiro profondo.

È ora.

Partì di corsa, col cuore in gola. Al suo fianco sentiva Erazm gridare «Cazzo! Cazzo!». Le altre unità scaricarono una gran quantità di fuoco di copertura. Ilyas non sparava perché lo avrebbe rallentato. In una situazione simile poteva solo correre, buttarsi a terra e sparare da fermo, in modo che anche gli altri potessero sostenerlo. Lui era abituato a correre. A dodici anni aveva attraversato il suo villaggio in fiamme, con la mano di sua sorella stretta nella propria, scansando la morte a ogni passo, solo per obbedire a un ordine o meglio una promessa, quella che aveva fatto a sua madre.

Vivi.

Non l'avrebbe disattesa neanche in una realtà simulata. Non l'avrebbe disattesa mai.

Corse più veloce che poté. Staccò i suoi compagni già al primo metro, percorse le centinaia che lo separavano dal carro con la rapidità di un proiettile fischiato nel vento. Più a lungo sarebbe stato in piedi, più sarebbe stato un bersaglio evidente, ma sapeva anche che è difficile colpire un uomo che si muove molto velocemente e lui era pieno di adrenalina come i suoi compagni dietro di lui. Correvano anche loro, in avanti, coperti dalle altre unità posizione dietro il muro e dentro l'edificio, in mezzo ai rumori brucianti e sibilanti dei colpi che li oltrepassavano e colpivano il terreno o rimbalzavano in aria. Fuoco e manovra. Saltar su, correre, buttarsi a terra, saltar di nuovo su, riprendere a correre, ributtarsi a terra per sparare. I russi dovevano pensare che fossero pazzi e Ilyas non aveva nessuna intenzione di smentirli: erano pazzi davvero, ma quella era l'unica via d'uscita.

Erano arrivati vicino al mezzo corazzato che era riuscito, in qualche modo, a disimpannarsi e stava cercando di ritirarsi per ricaricare il fuoco, ma i cingoli erano stati colpiti e non poteva muoversi. La mitragliatrice però era ancora in funzione. Il ritmo del fuoco di copertura diminuì. Dovevano amministrare i colpi. Si udì una forte esplosione e poi una pioggia di terriccio. Ilyas sentì urlare. I russi stavano sanguinando, non più solo sparando. Lui non sapeva quanti ne avessero colpiti, né sapeva quanti dei suoi compagni erano stati abbattuti in quei pochi secondi, ma non importava; aveva occhi solo per il carro armato.

Un razzo sibilò nell'aria e andò a colpire, precisissimo, il mirino prismatico del mitragliere. Ilyas dovette abbassarsi per evitare il ritorno di fiamma. La mitragliatrice scoppiò in un agognante rantolo metallico.

Arkaša, chiunque sia lassù sia ringraziato per la tua fottuta mira da cecchino, pensò l'attimo prima di buttare la bomba dentro il portellone che si stava aprendo.

Il carro andò completamente in fiamme. Delle ombre si levarono: i soldati all'interno. Ilyas non li riconobbe nel buio: erano alti e indossavano le divise della Legione. Sicuramente artiglieri, magari uno di loro era il maggiore colonnello Domoev, che per qualche tempo si era pensato avrebbe sostituito Markovski come loro istruttore. Questo prima che venisse Bezbòznij con il suo leopardo.

Puntò alla testa. Sparò. Il primo soldato, chiunque fosse, colto nell'atto di fuggire dalle fiamme che avevano invaso il veicolo, ricadde all'indietro e venne inghiottito dal fuoco. Il secondo riuscì a balzare giù e provò ad avventarsi su di lui, ma Erazm, appena giunto vicino al veicolo, gli sparò alla gamba, facendolo cadere di faccia sul terreno gelato. Gli saltò addosso e cominciò a tempestarlo di colpi.

«Muori! Muori! Muori!»

Ilyas dovette trascinarlo via, più che altro per non fargli sprecare munizioni. L'altro ragazzo che era venuto con loro, Misha della pattuglia Quattro, si fermò con le ginocchia che tremavano.

«Cazzo, ce l'abbiamo fatta, cazzo.»

Ilyas sentiva odore di benzina, fumo e maiale arrosto: l'odore dei cadaveri che bruciano. Non era necessario un olfatto da lupo per percepire tutti quei sentori: pesavano nell'aria quanto nuvole cariche di pioggia. Videro i russi, quei pochi rimasti dietro le linee degli alberi, in rotta. Si ritirarono improvvisamente così come erano arrivati. Una lunga fila di traccianti li inseguì. Bombe a mano volarono ancora in aria e fiammate violacee illuminarono rocce e anfratti.

Guardò il cadavere a terra, si accorse che si trattava del capo artigliere Sergej Antonov, il cui avatar si stava già scorporando. Presto sarebbe stato ripristinato e posizionato in un'altra parte del campo. Al contrario loro, gli ufficiali russi avevano una riserva infinita di vite i primi sei giorni. Se li sarebbero sempre ritrovati davanti, perlomeno in campo aperto, finché la Simulazione fosse durata.

«Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!»

Grida di vittoria riecheggiarono ovunque nell'ansa del fiume, più forti e penetranti persino dell'odore del sangue. Lui si portò una mano al viso e si accorse di star sanguinando. Un taglio marginale sulla tempia, per un proiettile che lo aveva sfiorato. Era ancora in piedi e aveva vinto la sua prima battaglia. Sorrise, sentendo l'adrenalina non attenuarsi bensì montare come un fiume in piena, pronta a rompere gli argini della coscienza.

Ho vinto, mamma. Sono ancora vivo.

A rispondergli fu solo il silenzio della luna.

L'immagine del capitolo è proprio lui, lo stemma della Repubblica indipendente di Ickerija <3

A chiunque interessasse approfondire la storia della Cecenia, e delle guerre contro l'invasione russa, consiglio due libri bellissimi e feroci: Le lupe di Sernovodsk, libro-reportage della reporter  Irena Brežná, e Cecenia. Il disonore russo dell'immancabile Anna Politkovskaja.

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