Capitolo 8- present

"Puoi essere ciò che nessuno è mai stato prima di oggi?"


_Orlo precario_

Jeongguk finì di servire il kimbap al figlio che golosamente se lo cacciò in bocca quasi per intero, facendolo ridere. Gli accarezzò la testa e versò il resto del kimchi al basilico in una ciotola capiente, accanto a del riso.

«Piccolo mangione, attento o ti strozzi» lo riprese, passandogli un po’ di cavolo. «Sbrigati e vai a lavare i denti, zio Jin sarà qua a momenti»

«Ma poi mi vieni a prendere tu?»

Quel giorno Jeongguk aveva deciso di rimanere a casa per occuparsi dell’uomo che ancora dormiva nel letto dopo una notte in preda agli incubi, in cui aveva dovuto svegliarlo almeno tre volte per evitare che si colpisse da solo per la furia con cui si muoveva e del bambino ancora chiuso nella stanza degli ospiti. Doveva ancora sistemare i suoi stessi pensieri, non sicuro di cosa stesse davvero provando in quel momento.

«Assolutamente» si chinò per un bacio sulla guancia e lo lasciò andare in bagno, già vestito con la sua divisa ordinata.

Quando MyungDae entrò nella macchina del suo amico, strinse tra le mani il vassoio con la colazione e con un sospiro di incoraggiamento si avviò verso la camera padronale, aprendola a fatica e quasi facendo cadere il bicchiere d’acqua.

Jimin stava ancora dormendo, completamente avvolto nelle coperte e girato su un lato. Lasciò il vassoio sul comodino e gli si sedette accanto, accarezzandogli i capelli arruffati per la notte troppo movimentata.

Il suo povero Jimin. Cosa aveva subito davvero? Perché nella Notte chiedeva a mani invisibili di lasciarlo stare?

Sembrava piccolo e indifeso avvolto nel suo dolore trattenuto su quel letto. Gli occhi sotto le palpebre in movimento e le mani strette in due pugni, pronto a combattere. Era come un bocciolo troppo stanco e rarefatto per riuscire a sbocciare davvero.
Non si era mai chiesto davvero cosa avesse fatto nella sua vita prima di incontrarlo. Gli era stato solo raccontato come fosse entrato nell’Animal Activity. In quel momento si rese conto di quanto  in realtà lo conoscesse poco.

Cosa sapeva di lui oltre il nome e il suo vecchio lavoro?

Non gli aveva mai parlato della sua famiglia ora che ci pensava. Jimin era diventato un grosso punto interrogativo per lui e se non avesse voluto aprirsi, aveva paura potesse rimanerci per sempre. Da quando si erano conosciuti e specialmente da quando avevano iniziato quella seconda vita insieme, non gli aveva mai dato modo di pensare che ci fosse altro dentro quegli armadi segreti e stupidamente, non aveva mai creduto o pensato che Jimin potesse avere altre crepe.
Sapeva quanto i segreti rovinassero le relazioni ed era l’ultima cosa al mondo che voleva. Era sicuro di non poter più vivere senza di lui. Era diventato parte della sua felicità e del suo mondo. Vederlo allontanarsi, sarebbe stato come strapparsi il cuore dal petto. Aveva paura che così facendo, avrebbe finito per isolarsi completamente, pur di non estirpare ciò che lo stava logorando.

Si fidava di lui? Perché non gli parlava? Di cosa aveva paura? Perché doveva tenersi quel dolore dentro di lui? Non lo sapeva che insieme sarebbero potuto essere più forti?

Aprì una mano sulla sua guancia, accarezzandola dolcemente; voleva poter assorbire un po’ di quel dolore per farlo alleggerire, ma era una cosa impossibile. Non poteva fare abbassare le spade lungo la sua personale battaglia.

Ti prego, fammi entrare.

Ma tutto ciò che fece Jimin, fu aprire gli occhi cerchiati dalle occhiaie. Erano vagamente arrossati e gonfi sulle palpebre. Quella vista gli strinse la gola.

«Alzati, mangia qualcosa» lo spronò Jeongguk, scostando di poco la coperta. Il ragazzo non lo guardò, affondò solo più in basso. «Jimin, non puoi rimanere a stomaco vuoto»

Aveva vomitato la notte prima, doveva avere lo stomaco sotto sopra, non poteva digiunare.

«Forza» quando non ricevette risposta, fu costretto a togliergli le coperte di dosso, arpionarli le braccia e spingerlo a sedere. Era mortalmente preoccupato. Ancora non sembrava uscito da quello stato di trance che lo faceva sembrare un robot e non un umano. Non ne voleva sapere di uscire da quel mondo oscuro per tornare a quello che avevano creato insieme. Non parlava, non si muoveva, non guardava nulla in particolare.
Se ne stava solo seduto con la schiena china e il volto inespressivo, nella stessa posizione con cui lo aveva trovato in quel maledetto ingresso.

«Ei...» gli afferrò le guance con una mano, spingendolo a guardarlo. Voleva piangere, poteva sentire le lacrime premere contro gli occhi, ma si trattenne: Doveva essere forte se voleva riportarlo da lui, per quanto spaventosa fosse quella situazione. La notte prima era scappato persino dalle sue braccia. «Sono qua, Jimin. Guardami» sussurrò. «Ti prego» lasciò la presa per abbracciarlo strettamente, poggiandogli le labbra contro al collo.

Sentì Jimin avere un fremito nella stretta, ma non lo respinse, né ricambiò, rimase attaccato a lui finché non si fece indietro per guardarlo ancora in volto, sperando di trovare anche solo una smorfia.

Niente, era ancora perso. Forse però dovette notare i suoi occhi lucidi, perché poco dopo si lasciò appena andare e mangiò aiutato dall’altro che con pazienza gli fece finire le pietanze e lo fece sdraiare nuovamente.

«D’accordo, riposa ancora un po'» gli baciò una guancia, dovendo staccarsi a forza per uscire dalla stanza, dove sarebbe rimasto volentieri tutto il giorno.

Quando tornò in cucina con l’umore sotto i piedi, sobbalzò dalla sorpresa nel trovare il bambino in piedi davanti al tavolo, con gli occhi fissi sul cibo che aveva preparato anche per lui. Si pizzicò un braccio per darsi forza e si aprì in un sorriso, raggiungendolo.

«Buongiorno. Vuoi fare colazione?» propose, invitandolo a prendere posto mentre faceva lo stesso davanti a lui. Servì entrambi e in silenzio iniziarono a mangiare.

Jeongguk non sapeva bene che dire e il bambino si limitava a tenere gli occhi sul riso che trangugiava con fame, accompagnato dal kimchi.

«Vuoi del succo d’arancia?»

Non ricevette né uno sguardo né risposta, quindi si ficcò un pezzo di Kimbap in bocca, riflettendo attentamente.

Sembrava più sbrigliato della notte scorsa, probabilmente il riposo aveva aiutato la situazione. Aveva ancora il segno del cuscino sulla guancia morbida e ora piena di cibo ma non alzava mai gli occhi, neanche per sbaglio.

Cosa poteva fare per lui?

«Ascolta…» iniziò, poggiando le bacchette nel piatto «È probabile che dovrai stare con noi per un po’ di tempo. Non ti troverai male qua…»

Il piccolo alzò le spalle strette e le fece ricadere, bevendo l’acqua quando finì il riso. Jeongguk, abituato, si sporse per pulirgli la bocca con un fazzoletto ma la mano venne ancora una volta schiaffeggiata; questo lo fece accigliare.

«In questa casa la violenza non è ammessa» precisò, lasciandogli il tovagliolo che prese, pulendosi da solo. «Quindi, niente schiaffi e niente spinte» non usò un tono duro, ma abbastanza autorevole da fare sì che venisse ascoltato. «Il bambino di ieri è mio figlio, si chiama MyungDae, probabilmente hai la sua età, quindi perché non provi a farci amicizia?» si alzò, raccogliendo i piatti. «Potreste giocare insieme»

«No»

Quella parola lo raggiunse forte e chiaro. Poggiò le stoviglie nel lavello con un profondo e stressato sospiro, poi si stropicciò gli occhi e si voltò a fronteggiarlo. Nascondeva bene i suoi pensieri e ancora una volta non poteva fare altro che paragonarlo a Jimin.

Era una qualità del cazzo ereditata da lui. Non poteva essere altrimenti.

«Non voglio costringerti» precisò, aprendo la credenza per tirare fuori qualche biscotto che venne rifiutato. Glieli lasciò comunque sul tavolo.
«Ma questa è la situazione, come vedi… non è meglio trovare qualcuno con cui poter giocare piuttosto che pensare alle cose tristi?»

Il piccolo alzò gli occhi e lo fulminò davvero con quelle orbite fredde.

Cosa stava sopportando davvero? Come aveva vissuto fino a quel momento?

«Mamma mia ha abbandonato!» sentenziò rigidamente, sbattendo i piccoli pugni contro la superficie del tavolo. Le labbra strette in una linea e la mascella serrata. Era ben consapevole di ciò che stava accadendo intorno a lui. Era molto sveglio.

«È così» e Jeongguk non nascose la cosa. Poggiò i palmi sul tavolo e lo guardò dall’alto «E mi dispiace davvero tanto ma cosa pensi di poter cambiare comportandoti così? Forse potresti essere felice qua, perché non ci provi?» si morse l’interno della guancia, vedendolo studiarlo attentamente, senza sciogliere il cipiglio sulla fronte.

«Neanche lui non mi vuole qua» serafico nascose le mani sotto al tavolo e guardò in basso, come rassegnato.

Jeongguk venne colpito tanto duramente da quelle parole che si trovò a indietreggiare e appoggiarsi all’angolo cottura. Si passò una mano sulla fronte, capendo benissimo a chi si riferisse.

«Non è così. Tuo padre ora… non sta molto bene, ma non è che non ti voglia qua» provò, senza neanche crederci davvero.

«Perché non l’ho mai visto prima?»

E doveva essere una domanda che si chiedeva da tempo, perché la sputò fuori con tanta prepotenza che il viso gli divenne rosso.

Jeongguk, per la prima volta, nel suo visino freddo, ci lesse un dolore pesante. Era ferito dal comportamento di quelli che dovevano essere i suoi genitori. Era così piccolo ma era già stato abbandonato a sé stesso: La mamma lo aveva lasciato senza remore in una casa sconosciuta e quello che doveva essere il padre non lo aveva neanche guardato in volto.

La cosa brutta era che Jeongguk ne sapesse esattamente quanto lui. Non aveva risposte per le sue domande. Sconfitto abbassò il volto e il bambino saltò giù dalla sedia, lasciandolo solo per tornare in camera.

Qualche ora più tardi, dopo avergli dato modo di sbollire da sé, Jeongguk entrò nella camera del suo nuovo ospite, trovandolo seduto a terra, a usare quello che sembrava un pezzo di legno a forma di cervo.
Senza guardarlo lo sorpassò per rifargli il letto.
Aggiustò le lenzuola, batté i cuscini e aggiustò il piumone, sorridendo appena quando lo vide sbucare dall’altro lato e appoggiarsi con le braccia, portando il suo cervo tra le montagne innevate che il piumone regalava sofficemente.

«È molto bello» asserì, sedendosi. «Ha un nome?»

Stava cercando davvero una tregua, un piccolo punto d’accordo.

Il piccolo alzò gli occhi, guardandolo da sotto le ciglia, poi tornò sul giocattolo che sembrava veramente realistico. Una mano d’opera degna di un falegname esperto.

«Horn» borbottò, alzandolo e riportandolo giù, sulle zampe.

Jeongguk si stupì che sapesse l’inglese, ma non disse nulla, invece sorrise ancora, guardandolo con quei capelli arruffati per la notte. «Che ne dici di farti una doccia?»

Il piccolo parve pensarci bene mentre faceva fare le capriole a Horn, poi annuì delicatamente, regalandogli quella tregua che aveva cercato, almeno momentaneamente.
Lo lasciò solo, tornando con uno degli accappatoi del figlio.

«Hai bisogno di una mano?»

«No»

«Va bene, tra poco ti porto i vestiti puliti»
E Jeongguk era abituato ad aiutare MyungDae ma quel bambino era molto indipendente nonostante l’età, allora lo lasciò semplicemente andare, afferrando Horn per posarglielo sulla cassettiera dopo averlo guardato da vicino, studiando le corna attentamente intagliate: era impressionante.

Agganciò le dita al borsone che ancora giaceva sulla sedia e lo aprì, tirandone fuori i vestiti, osservando come sembrassero tutti usurati dal tempo.
Erano pochi, l’intimo, qualche maglia e quattro paia di pantaloni, ed erano tutti molto semplici: o grigi o neri, senza via di mezzo.

Tutto quello gli mise una tristezza tale addosso che gli angoli della bocca gli si piegarono all’ingiù.
Piegò tutto, chiudendoli nei cassetti, lasciando fuori solo il necessario. Poi aprì la cerniera sul davanti e ci trovò fortunatamente dentro i documenti. Almeno quella donna aveva avuto la testa di pensarci. Li osservò la vicino, leggendone i dati.

Jaesang Park.

Era così. Non c’erano bugie dietro tutto quello.

Era la realtà.

Infilò tutto in tasca e riprese i vestiti tra le mani, accarezzando il tessuto ruvido.

Non lo avrebbero abbandonato.





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