Capitolo 6- present

"Crebbe nella consapevolezza di non poter fare altro che automangiarsi nel dolore del passato. Sarebbe stata dura prendere una boccata d'aria rinfrescante"

_Mi hanno detto di essere forte_

Jeongguk, entrato in camera, adagiò a sedere sul letto Jimin, poi si inginocchiò tra le sue gambe che presentavano un leggero tremore, stringendogli le ginocchia tra le mani.

«Sei qua con me, Jimin» lo guardò dal basso, cercando i suoi occhi persi nel vuoto, fissi sulla parete davanti a lui che sentiva quelle mani leggere come battiti di farfalla mentre la voce suonava lontana, come persa in fondo ad un tunnel. Si trovava bloccato da uno spesso muro di nebbia, lo stesso che non gli permetteva di raggiungere l’uscita, di non poter osservare ciò che davvero lo circondava.

Lui era pulito, era se stesso che lo stava rovinando. Non c’era nessuno oltre a lui.

«Amore…» Jeongguk poteva sentire il petto punto da spilli di dolore davanti a quell’espressione vuota che lo faceva sembrare una bambola inespressiva di porcellana rotta.
«Ho bisogno che torni da me» Sussurrò, dandosi una leggera spinta per issarsi sulle ginocchia e averlo vicino al suo volto.

Agganciò costringendo i loro sguardi e in quel movimento cercò di trasmetterli tutta la sicurezza che riusciva a tirare fuori.

Ci sono io, non sei solo. Fammi entrare.

«Ho bisogno...» gli prese il volto tra le mani, sotto la pelle che iniziava finalmente a scaldarsi, senza più quel sudore freddo a imperlinarla che era presagio di attacchi di panico «...Di te, io sono qua» gli baciò la fronte, poi la punta del naso e infine le labbra, dove rimase per una manciata di secondi prima di staccarsi.

Jimin trasse un respiro profondo, poi lo spinse debolmente e lo sorpassò, correndo verso il bagno, dove si chinò a vomitare nella tazza. Quasi come se potesse gettare fuori gli incubi che lo infestavano da dentro, facendogli scomparire nello sciacquone che vorticò, facendoli salire le vertigini.

Jeongguk, che lo aveva inevitabilmente seguito, aveva evitato di toccarlo ulteriormente. Rimase solo dietro di lui, ad osservarli la nuca dove i capelli erano attaccati al collo per il sudore.
«Non ti lascerò affrontare tutto questo da solo. Permettimi di stare al tuo fianco» parve una supplica mentre si sentiva immobilizzato, con nessuna idea su come gestire tutto. Era improvviso, troppo.

Jimin strinse le mani sui bordi in ceramica.

Lasciarlo entrare in quella parte oscura di lui?

Per qualche motivo sembrava più spaventoso dei ricordi stessi. Come se, una volta intravisto quanto rovinato fosse, avrebbe potuto cambiare il pensiero che si era fatto su di lui. Eppure non si smetteva mai di conoscere le persona, c’era sempre una sfaccettatura da scoprire, anche la più logora e impolverata.

Jeongguk gli aveva spiegato con i piccoli gesti cosa fosse davvero l’amore. Accettare ogni parte, anche la più recondita.
Avevano combattuto insieme, fianco a fianco per uscire dalla malavita, per riuscire a fargli costruire un futuro decente. Non lo aveva lasciato allo sbaraglio, lo aveva stretto a lui, gli aveva preso il cuore per custodirlo accanto al suo e poi era entrato in guerra al suo fianco.

Aveva falciato l’erba velenosa che sostava davanti a lui, ma ancora non l’avevano fatto con quella che risiedeva dentro, mortalmente tossica e che avvelenava giorno dopo giorno ogni cellula del suo essere.

Solo poche ore prima credeva di avere tutto sotto controllo. Credeva di poter essere nuovamente felice, beato nel calore della famiglia che era nata dal nulla. Beato tra le braccia di Jeongguk e tra i sorrisi di MyungDae, ma era bastato il suono del campanello e in un attimo tutto era cambiato.

No, non poteva ignorare ciò che gli era successo. Per quanto avrebbe voluto, il passato trovava sempre un modo per tornare. Come un boomerang infuocato che per quanto lontano lanciasse, ritrovava la via nelle sue mani e finché non avrebbe trovato il coraggio di sistemare questo altro sacchetto di pietre pesanti, sarebbe rimasto ancorato sul fondale.

La superficie gli sfiorava appena i capelli, poteva raggiungerla se allungava un braccio, ma era ancora troppo pesante per emergere completamente.

E non aveva il coraggio, non ora. Non aveva il coraggio di dire cosa fosse successo, non aveva il coraggio di ammettere che quel… bambino, fosse suo figlio e non aveva il coraggio di uscire dalla sua bolla. Non ora che gli sembrava che una pesante ascia sospesa gli fosse caduta sulla testa.
Non ora che aveva rivisto quella donna.

E Jeongguk non disse altro, semplicemente lo abbracciò da dietro spingendoselo contro al petto, senza far esplodere quella sfera protettiva. Gli baciò teneramente il capo, riposando la guancia là.
Era al sicuro con lui, non avrebbe dovuto temere nulla finché era tra le sue braccia.

«Va bene così» lo rassicurò facendolo voltare e accarezzandogli la schiena mentre lo aiutava ad alzarsi. Lo accompagnò di nuovo in camera e con attenzione lo fece sdraiare sul letto, rimboccandogli le coperte mentre chiudeva gli occhi.

Jimin si girò su un fianco e lui rimase là, a fissarlo dall’alto senza sapere a cosa pensare. Per quanto avrebbe voluto essere al corrente di tutto, non era sua intenzione costringerlo, specialmente in quel momento tanto traumatico.

Voleva sdraiarsi e tenerlo sul petto ma aveva i due bambini in sala, quindi lo lasciò riposare e uscì dalla loro stanza.

La prima cosa che notò passando sotto l’arcata tondeggiante della porta, fu che MyungDae era da solo, seduto a braccia incrociate sul divano; aveva le sopracciglia aggrottate e le labbra imbronciate.

«Dov’è il bambino?» chiese curiosamente, vedendolo tutto impettito.

La manina si allungò solo per puntare l’entrata: «Là» proruppe evidentemente irritato «Non è voluto venire qua».

Jeongguk gli si sedette accanto e gli accarezzò i capelli: «Stai tranquillo, lo faccio venire io»  lo rassicurò.

«Mi ha spinto» MyungDae si mise in piedi: «Così» e lo spinse dal petto, senza smuoverlo di mezzi millimetro.

Jeongguk strinse le labbra tra di loro prendendolo dai fianchi per farlo sedere sulla gamba.
«Non essere arrabbiato con lui, puoi?» gli chiese, baciandogli una guancia.

MyungDae guardò verso il corridoio dell’entrata, dove non poteva vedere quel bambino antipatico. Poi abbassò il capo, osservandosi i piedi sospesi.

Jeongguk era sicuro che il figlio fosse molto intelligente, quindi si leccò le labbra e grattandosi la fronte lo fece dondolare sulla gamba. «Ora non ha alcun posto dove andare. Pensi di poterlo fare stare qua con noi per un pochino?»

E non c’era altra soluzione. Se Jimin era davvero suo padre, non aveva altri posti in cui andare. La madre era assolutamente da escludere, era una donna terribile.

Chi avrebbe mai potuto abbandonare il proprio figlio così?

Solo pensando al modo in cui lo aveva strattonato e lasciato in quella casa sconosciuta gli faceva venire i brividi e la nausea. Non poteva neanche immaginare cosa avesse vissuto fino a quel giorno.

«Non ha la sua casa?» chiese MyungDae, giocando con le dita del padre a cui si seccò la bocca.

Povero piccolo. Come poteva un’anima innocente essere trattata in quel modo? 

Chiuse la mano di suo figlio nella sua. Questa scomparve teneramente e il suo cuore ebbe un sussulto più caldo. 

«Non più» lo informò, sentendo la tristezza annodarli le viscere. Era dolorosamente all’oscuro di tutto, ma non avrebbe mai lasciato un bambino per strada. «Ora fai il bravo bimbo e vai a metterti il pigiama, tra poco vengo a rimboccarti le coperte» gli premette l’indice sul naso e MyungDae saltò in piedi, annuendo.

«Non sono più tanto arrabbiato con lui» proruppe, facendo splendere il sorriso di suoo padre che lo guardò camminare verso la sua stanzetta.

Sospirando, alla fine decise di alzarsi e raggiungere il piccolo sconosciuto che se ne stava ancora in piedi davanti alla porta d’entrata, dritto e fermo come una statua di sale dai tratti dolci.

«Che facciamo?» chiese, poggiando la spalla contro al muro, guardandolo attentamente, sentendo ancora una volta quella somiglianza a Jimin tanto reale. Dalla madre aveva ereditato solo il naso. Era alla francese, con la punta all’insù. Ricordava quasi Peter Pan. Ma quegli occhi, quei maledetti occhi, non potevano essere di altri se non del figlio del suo ragazzo.

Un figlio. Era davvero assurdo anche solo pensarci. Jimin non gli aveva mai accennato nulla.

Aveva forse paura del suo giudizio? Gli aveva forse dato l’impressione di poterlo denigrare in qualche modo se solo gli avesse detto di aver messo incinta una donna?

E scosse la testa, non era un buon momento per pensarci. Non mentre il bambino non sembrava intento a fare altro che starsene là.

«Rimaniamo tutta la notte qua?» tentò ancora, avvicinandosi di poco.

«Senti, non ho idea di cosa tu stia pensando» asserì sinceramente, seriamente scosso da quell'espressione troppo seria per poter stare sul volto di un bambino. «Ma ormai le cose sono andate così e non possiamo cambiarle. Perché non ci dormi sopra e domani ne parliamo? Cercheremo di trovare una soluzione a questo casino insieme, ti va?» allungò una mano, ritirandola quando venne schiaffeggiata. Il colpo rimbombò nel corridoio silenzioso.

Non era un amante della violenza, e dovette trattenersi per non riprenderlo mentre poggiava la schiena al muro, senza più guardarlo. «Cosa pensi di ottenere facendo così? Vuoi stare in piedi finché non consumi il pavimento?»

Il bambino si guardò i piedi coperti dalle scarpe logore e poi scosse impercettibilmente la testa, in segno di negazione. Jeongguk intercettò il movimento mentre si pizzicava pazientemente i polsi nascosti dietro di lui.

«Lo immaginavo. Lo sai che i piedi potrebbero rimanere incollati là? E poi che fai?» chiese alzando le sopracciglia.

Vide la piccola figura alzare il volto verso di lui: «Non può succedere» asserì serafico, dando vita alla voce sottile e calma.

«Chi te lo dice? Hai mai provato a stare fermo per così tanto tempo?»

Inaspettatamente annuì, facendogli perdere la battaglia.

«D’accordo, hai vinto» graffiò, buttando la testa all’indietro. «Io però vado a dormire, ho molto sonno. Sei sicuro di voler rimanere qua?»

Il bambino annuì ancora, quindi, indifferente gli dette le spalle e andò via, spegnendo la luce prima di fare lo stesso con quella in sala, lasciando che la casa cadesse nel buio.

Il bambino si sentì tremare, i brividi gli percorsero le braccia e dovette mordersi il labbro per non piangere. «Aspetta!»

Jeongguk sorrise sottilmente sotto quella parola. Si fermò di scatto, riaccese la luce e lo guardò curiosamente, senza avvicinarsi. «Si?» chiese innocente.

«Posso...» Il piccolo si guardò intorno, unì le mani tra di loro e per un attimo perse quella maschera rigida. «Posso venire con te?»

Jeongguk annuì e lo attese, vedendolo chinarsi per recuperare la borsa gettata a terra. Con una piccola corsetta lo raggiunse e questa volta insieme, uscirono, spegnendo le luci.
Camminarono l’uno accanto all’altro, voltarono l’angolo del corridoio scuro e raggiunsero la zona notte, dove Jeongguk aprì la porta della camera degli ospiti.

«Questa può essere la tua camera per sta notte» e non gli disse che in realtà lo sarebbe sicuramente stato per altro tempo. Gli prese la borsa dalle mani e la poggiò su una sedia accanto alla cassettiera nera.

Il letto da una piazza e mezza occupava il lato destro della stanza, davanti a un armadio dai pomelli lucidi. La finestra regalava raggi lunari al pavimento in piastrelle chiare, rendendo delicata l’atmosfera, non era molto adatta per un bambino ma pensò che sarebbe stato bello arredarla secondo i suoi gusti… prima però dovevano trovare un accordo.

Rimasero un attimo in silenzio, il piccolo a studiare ciò che lo circondava e Jeongguk a guardarlo, senza sapere che altro fare.

Voleva essere toccato?
Aveva bisogno di qualcosa?
Aveva fame o sete?
Riusciva a dormire da solo?
Solitamente com’erano le sue notti?

Per quanto fosse testardo, il suo cuore non poteva lentamente adorarlo. Era il figlio di Jimin, gli era impossibile non farlo. Era ancora così piccolo.

«Il bagno è davanti alla camera, se hai bisogno di usarlo» e lo lasciò solo, che non sapeva davvero come muoversi sotto quegli occhi taglienti e scuri che correvano dalla stanza a lui.

Questa volta non venne bloccato e raggiunse la camera di suo figlio, trovandolo già a letto. Si avvicinò per sistemargli le coperte e venne studiato attentamente mentre abbracciava il suo adorato coccodrillo viola di peluche.

«Papà?»

«Si, amore?» gli accarezzò i capelli, sistemandoli dietro le orecchie.

«Può rimanere qua per un pochino»

Jeongguk annuì, chinandosi per baciargli la fronte: «Il mio bambino ha il cuore più grande del mondo» sussurrò, porgendogli la guancia per un bacio.

MyungDae gliene schioccò uno e rise. «Ti voglio bene, papà»

«Ti voglio bene anche io» sorrise ancora, lasciandoli un ultima carezza prima di alzarsi. «Buonanotte, Dae» lasciò la porta socchiusa dopo aver afferrato qualcosa su una mensola e essersela infilata in tasca.

Tornò nella stanza dell’ospite e lo trovò a petto nudo, intento a cercare il lato giusto della maglietta che si stava cambiando. Teneva le labbra corrucciate, in un gesto che anche Jimin faceva quando si concentrava.

Jimin... come stava adesso?

«Di qua» entrò completamente, intenerito da quella scena e gli prese la maglia dalle mani piccole. Silenziosamente la rigirò. Era una semplice maglia grigia, quindi gli mostrò l’etichetta e con attenzione la arrotolò tra le dita, passandogliela sopra la testa. La srotolò quando il piccolo fece passare le braccia nelle maniche e rimase incatenato nel suo sguardo che gli parlava in silenzio di qualcosa che non poteva capire.

Forse pensava alla madre. Forse pensava all’abbandono. Forse pensava che ora sarebbe stato solo. Forse pensava a tutto questo, in un groviglio di pensieri troppo dolorosi da poter concepire.

«Stai tranquillo, d’accordo?» gli sistemò i capelli, saggiandone la morbidezza sotto le falangi: «Domani andrà meglio» e non sapeva se fosse vero, ma sicuramente sarebbe stato meglio di oggi.
E sapeva che probabilmente si aspettava che fosse suo padre al suo posto ma non si mosse, quindi semplicemente lo prese da sotto le ascelle e lo fece sedere sul materasso.

«Guardo cosa ti ho portato» tirò fuori dalla tasca la lucina a forma di stella per la notte, lasciandogliela prendere e rigirare davanti agli occhi. Quando gliela ripassò, andò a incastrarla alla presa poco lontano, schiacciò il bottone e spense la luce.

Un soffuso bagliore giallognolo abbracciò la stanza, illuminando i tratti del bambino che aveva gli occhi spalancati, fissi sulla stella luminosa.

«Ti piace? Così non avrai paura del buio, che ne dici?»

Appoggiò il sedere contro la cassettiera, studiando quelle reazioni.

Non ne aveva mai avuta una?

«Ora mettiti a dormire, questa rimarrà accesa fino a domani mattina»

Il bambino lo ascoltò e lentamente si sdraiò, infilandosi sotto le coperte color perla. Gli occhi ancora fissi sulla luce.

«Buonanotte» sussurrò Jeongguk, uscendo e lasciando la porta socchiusa anche a lui. Percorrendo il corridoio si scrosciò le dita della mani.

Era stremato, completamente stanco per gli eventi, si sentiva uno straccio. Come se improvvisamente potesse permettersi di ascoltare l’eco di ciò che era davvero successo. Si passò le mani sul volto.

Jimin aveva un bambino e non gliel’ho aveva mai detto.

Perché? E perché era così scioccato alla vista della donna? Chi era davvero? Cosa aveva passato?  E il bambino? Cosa avrebbero dovuto fare con lui?

Ma non trovava nulla, non riusciva a pensare, aveva la mente appannata e stanca, pigra, quasi richiusa su se stessa e i muscoli rigidi. Questi non si rilassarono neanche quando finalmente si sdraiò, tirando un Jimin dormiente al suo fianco per poterlo abbracciare da dietro.

Quella notte si addormentarono tutti con diversi pensieri in testa. Correvano su vie diverse ma si incrociavano letalmente tra di loro.








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