Capitolo 1- past
"Come?
Sembra inventato. Non tutte le famiglie sono perfette, la mia mi ha insegnato che il sangue che unisce non porta sempre amore"
•••
_Dimmi che non sei tu_
«Fanculo, non me ne può fottere di meno dei tuoi soldi del cazzo. Ne faccio più io solo respirando» urlò Jimin, ficcando i vestiti alla rinfusa nel borsone dopo aver spalancato le ante dell'armadio con violenza. In un vortice di urla, rabbia e completa delusione. Le orecchie fischiavano e quasi vedeva rosso mentre le mani tremavano violentemente, facendo continuamente scivolare la cerniera che cercava di chiudere.
«Bada a come parli, finocchio. Hai intenzione di andare a fare la puttana per strada?! Sappi che d’ora in poi non sei più mio figlio: per me puoi andare a morire oggi» sproloquiò l’uomo che lo aveva seguito sino in camera. Aveva gli occhi quasi fuori dalle orbite, il viso in fiamme e la saliva che schizzava da quanto urlava, tanto che persino il vicinato sapeva per filo e per segno cosa stesse succedendo in quella casa.
Jimin chiuse finalmente il borsone e con rabbia se lo ficcò sulla spalla, girandosi per fronteggiarlo. A pochi centimetri dal suo volto lo bruciò con tutto l’acido che era in grado di tirargli fuori. «Bastardo, preferisco non avere un padre che averne uno omofobo e rotto in culo. Sei il peggior genitore di tutta questa fottuta terra» gli sputò addosso quelle parole e con una spallata lo sorpassò, pronto ad andarsene lontano. Era ancora una adolescente, era quindi impossibile assopire quello che gli premeva dentro. Come tutti gli adolescenti la bocca parlava, dando fuoco all'animo.
Era improbabile, assurdamente impossibile capacitarsi di ciò che stava accadendo.
Vedere oltre l'apparenza, era abilità di pochi e sicuramente non lo era della sua famiglia.
L’uomo però fu più veloce e lo bloccò da un polso, senza più inibizione gli sferrò un pugno in volto che voleva esprimere l’immensa delusione che stava provando. Questo lo prese alla sprovvista e lo fece retrocedere il corpo fino al ciglio delle scale. Il fiato mancò nei polmoni e gli sembrò di volare mentre cadde bruscamente giù dalla rampa, sbattendo la schiena contro al muro in un gesto che gli risucchiò l’aria dai polmoni e gli fece formicolare l’intera colonna vertebrale.
«Jimie» la sua sorellina che piangeva da quando erano iniziate le urla, cercò di scivolare via dalle braccia della madre che la teneva stretta al petto, con nulla da dire davanti a quella scena terribile. Inerme fissava suo figlio deludere suo marito.
Jimin vide bianco per un attimo mentre percepiva il sangue scorrere dallo zigomo rotto. Nella cortina di capelli scuri alzò il volto e dal basso guardò suo padre osservarlo senza alcuna espressione se non completo disgusto e rabbia, tanta rabbia che lo portava a tenere la mano ancora serrata.
Era lo stesso che da piccolo gli leggeva le favole? Lo stesso che lo alzava per farlo volare come su un aeroplano? Lo stesso che gli puliva i baffi sporchi di latte dopo la colazione?
Si, era lo stesso che lo puniva per un brutto voto. Lo stesso che lo aveva ammazzato di botte quando accidentalmente, lo aveva visto guardarsi un prono gay. Lo stesso che lo aveva buttato giù dalle scale dopo averlo cacciato fuori di casa, dopo che gli aveva confessato, con un impeto di coraggio in vita repressa, di essere omosessuale.
Non c’era stato via di scampo al suo sguardo come tenaglie di sangue sull’anima. Lo aveva solo spinto in ciò che non avrebbe mai voluto essere: Un figlio gay, un figlio che non era abbastanza uomo. Un figlio che non avrebbe potuto portare avanti il suo merdoso cognome del cazzo.
Un dolore sordo gli si acuì nel petto, aprendosi come una voragine e con un urlo si mise in piedi, partendo alla carica con le fitte di dolore che trafiggevano la schiena ad ogni gradino compiuto, erano come stalattiti che percorrevano l'osso sacro. Urlò e si lanciò addosso al padre con tutta la forza che possedeva, senza più trattenersi, facendolo cadere di schiena contro al pavimento. Le mani veloci colpirono a pugni e schiaffi qualsiasi punto riuscisse a prendere, cieco tra le lacrime sulle guance. Poteva fare finta che non gli fregasse, ma era la sua famiglia a girargli le spalle.
La sua famiglia. La stessa che avrebbe dovuto amarlo in qualsiasi momento della sua fottuta vita.
Fanculo. Fanculo. Fanculo. Ti odio.
L’uomo riuscì a buttarlo di lato e lo scavalcò solo per ricambiare, rendendo di carta il volto del suo stesso figlio mentre dal suo sopracciglio colava sangue a dirotto: «Dannato finocchio» sputò con uno schiaffo. «Maledetto» continuò con un altro schiaffo.
«Basta così» la donna di casa era corsa sui gradini dopo aver messo giù la figlia e con forza tirò via il marito da quello maggiore. Egli si lasciò trascinare via, mettendosi in piedi faticosamente e rimase là, a fissare il suo operato. Azione degradante che non poteva dargli titolo di padre.
«Mamma…» sussurrò Jimin con una mano sulla bocca spaccata, con un minimo di speranza nel petto. Sentiva gli occhi rossi e ogni parte del viso pulsare ma nulla faceva più male del suo stesso cuore che sembrava starsi deteriorando.
«Esci da qua, Jimin…» sussurrò lei, voltando il capo di lato, senza ascoltare quel richiamo d’aiuto.
Sua madre. La sua mamma.
E Jimin non fece altro che mettersi seduto e scappare da là, senza guardare la sorellina che piangeva disperata, lasciando su quel pavimento maledetto il suo sangue e tutti i cocci del suo cuore eternamente frantumato.
Se prima credeva di aver sbagliato ad aver accettato quel lavoro, ora non poteva sperare in qualcosa di meglio. Sarebbe diventato ricco, avrebbe sbattuto in faccia a quegli stronzi tutti i suoi soldi e gli avrebbe fatto capire che poteva vivere bene e felicemente senza di loro. Avrebbe nascosto quel dolore sotto tutta la sua soddisfazione, sotto tutto ciò che poteva e riusciva ad avere.
Con la rabbia soffocante nei polmoni aprì lo sportello dell’automobile parcheggiata davanti casa e si buttò sul sedile del passeggero dopo aver lanciato la borsa su quelli dietro.
«Deduco sia andata male…» sussurrò Siwoo, guardando il suo volto tumefatto prima di mettere in moto per allontanarsi da quel posto infernale, da dove aveva sentito vagamente le urla.
Jimin si accese una sigaretta mentre si tamponava il naso sanguinolento e gonfio con il dorso della mano, sostituendolo con il fazzoletto che gli venne passato.
«Fanculo» rigurgitò tra il fumo, guardando fuori dal finestrino. «Fanculo» disse ancora, sentendo la voce tremare ridicolmente, mentre la rabbia cieca iniziò a scemare.
Cosa si aspettava?
Se lo immaginava, eppure faceva male, per quanto avesse già provato a prepararsi mentalmente si era sentito comunque pugnalato, dentro, profondamente e Siwoo accostò sul ciglio della strada solo per tirarlo in un mezzo abbraccio, scomodo ma che gli dette tempo di lasciarsi andare in lacrime e singhiozzi. Pianse come un bambino che aveva perso tutto, tra quelle braccia di cui si fidava. Pianse perché non gli rimaneva altro da fare e ne era consapevole.
«Non capisco… non è la famiglia a dover accettare oltre tutto?» biascicò, con la sigaretta che bruciava da sola tra le dita sospese.
Il maggiore gliela prese e la lanciò fuori dal finestrino socchiuso, prendendo ad accarezzargli il braccio in movimenti lenti. Parve riflettere attentamente prima di sospirare profondamente.
«Purtroppo delle volte non basta il sangue per essere più caritatevoli. C’è gente che non proverebbe mai a cambiare il proprio pensiero, anche se questo significa fare del male a persone per loro importanti» sussurrò, alzandogli il volto per asciugargli le lacrime mischiate al sangue. Gli baciò uno zigomo già livido. «Non possiamo fare altro che andare avanti con la nostra vita, facendoci bastare noi stessi»
E Jimin ricadde nuovamente con la testa sulla sua spalla, cibandosi della sua voce calma e sempre sapiente, lasciandosi cullare in quelle che volevano essere rassicurazioni.
Non era lui quello sbagliato.
Il suo unico sbaglio era quello di piangere e di starci male, quando suo padre probabilmente stava solo pulendo il pavimento dal suo sangue, per lui malato.
Ma non poteva bloccare quel flusso che lo grattava dentro, scorticando come carta vetrata, quindi lasciò solo uscire tutto ciò che aveva dentro, staccandosi solo quando sentì di potersi rimettere almeno seduto dentro sé stesso. Dopo quello ci fu solo un silenzio sordo. Era come se avesse fatto davvero uscire tutto e ora il nulla viaggiasse nello spazio cosmico. Il dolore; una punta al centro del suo corpo, cibata dalla rabbia e dalla delusione.
«Puoi stare da me fin quando lo vorrai» Siwoo gli baciò il dorso della mano e mise nuovamente in moto, senza più lasciargliela.
«Dio, che bastardo» soffiò Yoongi mentre si rollava una canna, leccando l’estremità della cartina prima di chiuderla su se stessa. Taehyung gliela rubò sotto il suo lamento e l’accese fregandosi il primo tiro, ripassandogliela mentre si lasciava cullare dall’odore pungente e dalla nube di leggera confusione che lo avvolse.
«Puoi dirlo forte» borbottò Jimin, mentre aspettava il suo turno.
Erano passati due giorni da quando aveva lottato con suo padre e il volto era peggiorato, completamente tumefatto faceva quasi impressione guardarlo e il dolore era indicibile, lo sentiva quasi paralizzato.
Quando Taehyung lo aveva visto, si era preoccupato così tanto che aveva cercato di trascinarlo in ospedale prima che Yoongi lo fermasse, assicurando che non fosse mai morto nessuno per una faccia pestata. Quindi erano saliti sopra al tetto del palazzo dove risiedeva, che, essendo il maggiore, viveva solo già da tempo e dopo essersi sdraiati in cerchio sopra alle pietruzze bianche, aveva iniziato a spiegare la situazione di merda in cui riversava.
«Dove starai ora? Sei ancora piccolo... e con la scuola?» Yoongi alzò la mano verso il cielo, osservando le dita bianche, in contrasto con i colori del tramonto.
«Siwoo mi ospita per un po’ e credo che la scuola la lascio, tanto che me ne faccio?» aveva riflettuto tanto su quella possibilità.
Taehyung spalancò gli occhi, poi però rilassò le sopracciglia. Si grattò la pancia e annuì: «Jimin ha ragione. Mia nonna è malata, tra poco morirà e dovrò occuparmi di tutto. Neanche io avrò più tempo per la scuola»
Yoongi alzò le braccia oltre la testa e con una presa violenta tirò in simbiosi le chiome dei due che si lamentarono, afferrandogli i polsi. «Avevate detto che avreste lasciato, stupidi. Ora siete ancora in tempo ma poi non potrete più tornare indietro» si riferì al lavoro che avevano iniziato da poco più che una settimana. Non si rendevano conto in ciò che stavano entrando completamente. Un turbine senza fine.
«Cosa credi che potremmo fare altrimenti? Poi tu sembri stare bene. Hai i soldi, vivi da solo e riesci a sopravvivere» Taehyung rotolò al suo fianco, beccandosi una brutta occhiataccia. «Nessuno prenderebbe dei minorenni a lavorare e se lo facessero non ci pagherebbero abbastanza per poter campare. Le rette scolastiche sono troppo costose, mangiamo libri?»
Jimin si mise seduto, terminando la canna condivisa e li guardò dall'alto, in attesa.
Yoongi non sapeva che aggiungere, infondo avevano ragione.
Una volta soli diventavano relitti della società e non avrebbero avuto neanche soldi per la scuola, quindi sarebbero stati anche senza titolo di studio.
Che altro futuro avevano davanti?
Almeno avrebbero fatto i dannati assieme.
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