Prologo

Il silenzio è un veleno che mi scorre nelle vene, un macigno che appesantisce ogni respiro. Il battito del mio cuore è l’unico suono che riesco a sentire, e mi sembra che stia rallentando, come se anche lui fosse in attesa del momento in cui tutto finirà. La stanza è avvolta dall’oscurità, ma c’è abbastanza luce per vedere il suo volto. I suoi occhi, fissi su di me, sono la mia condanna. Lui lo sa, e io lo so. Ma non possiamo fermarci a pensare, non ora.

Kai è inginocchiato davanti a me, il corpo teso come una corda tirata al massimo, pronto a spezzarsi. La pistola nelle mie mani pesa come un macigno, il metallo freddo che sembra gelare anche la mia pelle. Ogni passo che faccio verso di lui è come se camminassi su un filo teso sopra un abisso. Un passo falso, e tutto finirà. Ma non posso tornare indietro. Non ora.

Mi fermo a pochi centimetri da lui, sentendo il battito del suo cuore, che riesco a percepire anche attraverso il silenzio. I suoi occhi non tradiscono nulla. Niente paura, niente odio. Solo una calma inquietante. Come se stesse aspettando, come se sapesse che questo momento è inevitabile.
La mia voce è un sussurro gelido mentre parlo, cercando di mantenere il controllo, di sembrare più forte di quello che mi sento. «Pensavi che ti avrei risparmiato?» La domanda è come un colpo, ma lui non reagisce. Non risponde. Solo quegli occhi, fissi su di me, mi parlano più di qualsiasi parola.

Mi avvicino di più, la pistola pronta. Ogni passo mi sembra un errore, ma devo farlo. Non posso esitare. Non posso farmi vedere debole. «Pensavi davvero che mi importasse qualcosa di te?» La mia voce è più alta ora, quasi un ringhio, ma dentro di me c’è solo vuoto. Mi guardo dentro, cerco qualcosa, ma non trovo niente. Solo il gelo che si fa strada dentro di me.
Non mi guardi. Non muovi un muscolo. Sei il mio prigioniero, eppure non hai paura. Forse dovrei, forse dovrei sentire soddisfazione in questo momento. Ma invece mi sento… persa. Un filo esile che mi tiene sospesa, ma non mi sostiene.
«Deva,» sento la voce di Ammi provenire da dietro di me, secca, autoritaria. Non ha bisogno di alzare il timbro per farsi sentire. Il suo tono è una sentenza. «Fai presto. Non è il momento di giocare. Devi finirla.»
Mi volto lentamente verso di lui, il respiro che si fa più pesante. Non posso mostrarlo, ma la pressione di quel momento mi schiaccia. La sua figura è massiccia, immobile come una montagna, ma i suoi occhi brillano di una luce fredda e calcolatrice. La sua impazienza mi perfora come una lama.
Non posso più tergiversare. Non posso più rimandare. Il destino di Kai è nelle mie mani. Ma in qualche modo… non riesco a premere il grilletto. La pistola mi sembra più pesante di quanto dovrebbe, il metallo che mi brucia nelle mani.
Le parole di Ammi mi rimbombano nella mente, eppure, dentro, una parte di me si ribella. Voglio lasciarlo andare, trovare una via d’uscita, ma non posso. Non posso deluderlo, non posso nemmeno lasciarlo vincere.
Lui non dice nulla. Non si scompone, non urla. Solo quel silenzio che mi schiaccia, che mi fa vacillare. Eppure, mentre mi avvicino, il suo sguardo si fa più intenso, più profondo. Quella calma che mi irrita. Quella calma che mi fa sentire fragile. Come se lui sapesse che non sarò in grado di farlo. E questa consapevolezza mi fa perdere l’equilibrio.
Il mio cuore accelera, il respiro si fa corto. La sua voce, finalmente, arriva come un sussurro. «Fallo.»
La parola si infrange contro di me, come un'onda che distrugge tutto ciò che incontra. Mi paralizza, mi spezza. «Fallo», dice ancora, e in quelle due sillabe c’è tutto: la fine, la rassegnazione, la consapevolezza che non ci sarà ritorno. «Fallo. Che cosa aspetti?»
Ogni fibra del mio corpo vorrebbe cedere, vorrebbe dire basta, premere il grilletto e chiudere tutto, chiudere questa storia, chiudere questa sofferenza. Ma non posso. Non posso ucciderlo.
Mi raddrizzo, la pistola in mano come una forza che mi opprime. Lui non si muove, non si sposta, ma il suo sguardo mi perfora come un coltello. Non è paura. Non è rancore. Solo rassegnazione.
«Fallo», sussurra, ma in quel "fallo" c’è anche un comando, una richiesta. Una sfida.
Il mio dito trema sopra il grilletto. Non posso farlo. Non posso.
Mi guardo dentro e, in quel momento, vedo qualcosa che non avevo mai visto prima. La paura. Non è la paura di lui, non è la paura della morte. È la paura di perderlo, la paura di fare qualcosa che non potrò mai rimandare indietro. La paura di chiudere una porta che non posso riaprire.
E in quel silenzio, dove le parole non esistono più, lo capisco. Mi capisco. E tolgo il dito dal grilletto.
La pistola, che prima sembrava pesare cento chili, ora è solo un oggetto vuoto nelle mie mani. Il respiro mi si fa più lento, più controllato. Ma dentro, c’è un tumulto che non riesco a fermare. La tensione che mi aveva accecata ora si dissolve in un istante, come una nebbia che svanisce al primo raggio di sole.
Non ho sparato. Non oggi. Non mai.
La stanza è immobile, il tempo si ferma. Eppure, dentro di me, tutto è cambiato.

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