1. La prigione d'oro
Le luci di Dubai si distendono davanti a me come una galassia rovesciata. Mille e mille stelle artificiali che pulsano, vibrano, vivono. Le osservo dal balcone della mia stanza, con le mani poggiate sul marmo freddo del parapetto. L’aria della sera è tiepida, ma ogni tanto una brezza si alza dal mare e porta con sé il profumo salmastro che mi ricorda quanto tutto questo, sotto la sua patina dorata, sia immobile, praticamente statico. Perfetto, ma vuoto.
Sotto di me, la piscina della villa riflette il cielo scuro come uno specchio liquido. Le luci dei fari sommersi disegnano danze di bagliori sulla superficie dell’acqua, quasi a voler raccontare una storia che io non riesco a comprendere. Accanto, i giardini si estendono in una geometria impeccabile, ogni fiore al suo posto, ogni siepe scolpita con precisione maniacale. Ogni cosa è al posto giusto. Perfetta. Irraggiungibile. Una maschera pronta a nascondere non solo dei volti, ma anche il marcio di una vita intera.
Eppure, dopo tutti questi anni, non riesco ancora a sentirmi parte di tutto questo. Nonostante la mia vita sia costellata di lusso, vestiti su misura, cene in ristoranti stellati e automobili che il mondo intero invidierebbe, sento sempre una mancanza. Un vuoto che nessun gioiello può colmare, nessuna ricchezza può cancellare.
Da qui, dall’alto della mia prigione dorata, guardo le persone che camminano lungo le strade illuminate della città. Famiglie, amici, coppie innamorate. Gente comune, gente libera. Le invidio. Non per quello che possiedono, ma per quello che sono: liberi di scegliere, di sbagliare, di cadere e rialzarsi. Io, invece, vivo come se fossi intrappolata su una lama sottile, dove ogni passo può trasformarsi in un taglio profondo e irreparabile. Ogni falcata deve essere calibrata, ogni parola pesata, ogni respiro concesso solo se approvato.
La mia mente vaga spesso, cercando di immaginare una vita diversa. Se i miei genitori fossero ancora vivi, tutto sarebbe diverso? La risposta non è semplice. Mio padre, prima che morisse, era già il capo di tutto questo. Un uomo di potere, temuto e rispettato, ma non abbastanza spietato a quanto pare. Probabilmente sarei comunque cresciuta in questa realtà, tra lusso e pericolo, ma almeno avrei avuto mia madre accanto. Lei avrebbe trovato il modo di darmi ali abbastanza forti per volare via. Me lo diceva sempre, quando ero bambina: «Un giorno, sarai libera, Deva. Sarai forte. Ti guarderai allo specchio e sarai fiera e soddisfatta di quella che sarai.»
Ma non è andata così. Sono morti entrambi, e con loro è svanita ogni promessa di libertà. Da allora, sono sotto la protezione di "Ammi", ovvero il fratello di mio padre. È lui ora a comandare tutto, a decidere ogni cosa. Ha giurato di trattarmi come sua figlia, e in un certo senso lo ha fatto e continua tutt'ora. Mi ha dato tutto quello che una ragazza potrebbe desiderare: una casa da sogno, protezione, rispetto. Ma a quale costo? Ho perso me stessa in cambio di tutto e, ora che ho ventitré anni, rischio di finire da una prigione all'altra.
Mi stacco dal parapetto e rientro nella mia stanza. Il pavimento di marmo è freddo sotto i miei piedi nudi. Ogni cosa qui dentro parla di lusso: i mobili intarsiati a mano, le tende di seta che scivolano leggere come un sospiro, i quadri alle pareti, firmati da artisti che il mondo considera immortali.
Sul comodino accanto al letto c’è una fotografia incorniciata in argento. Mi avvicino e la prendo tra le mani. È l’unica cosa che mi fa sentire ancora legata al passato, l’unico ricordo tangibile di mia madre. La guardo, e per un attimo il mio cuore si stringe.
Era bellissima. Una donna libanese con tratti magnetici, quasi eterei. La sua pelle ambrata sembrava catturare ogni raggio di luce, i suoi occhi erano scuri e profondi, come il mare di notte. Le labbra piene, curve in un sorriso che sembrava promettere al mondo intero che tutto sarebbe andato bene. Portava i capelli raccolti, con qualche ciocca ribelle che sfuggiva e incorniciava il suo viso. Ricordo che quando ero bambina mi piaceva giocare con quei capelli, intrecciarli, annodarli, come se fossero la mia tela personale.
Mi siedo sul bordo del letto, la foto ancora stretta tra le mani, e abbasso lo sguardo sul tappeto persiano che copre il pavimento e i pensieri si perdono in una miriade di domande che non troveranno mai risposta. «Le somiglio?» mi chiedo a bassa voce, sapendo che nessuno può sentirmi. Mi alzo e mi avvicino allo specchio che occupa un’intera parete della stanza.
Il mio riflesso mi restituisce un’immagine che fatico a riconoscere. Gli stessi capelli scuri, gli stessi occhi profondi, ma qualcosa manca. Qualcosa che mia madre aveva e che io non riesco a trovare in me. La sua luce, forse. La sua capacità di far sentire ogni cosa possibile, anche nei momenti più bui.
Passo una mano tra i capelli, sciogliendo qualche nodo invisibile, e continuo a fissarmi. «Somiglio a te, mamma?» La domanda si perde nella stanza vuota, senza risposta.
Immagino come sarebbe la mia vita se lei fosse qui. Forse avremmo discusso, certo, perché so di essere testarda. Ma lei avrebbe trovato il modo di farmi vedere il mondo in modo diverso. Mi avrebbe dato il coraggio di sognare, di desiderare qualcosa di più di questa gabbia dorata. Mi avrebbe insegnato più di quello che si impara a scuola, avrebbe dato un valore ancora più alto alla mia virtù.
Un rumore alla porta mi fa sobbalzare. È un bussare deciso, ma non impetuoso. Mi giro di scatto, il cuore che accelera leggermente. «Avanti,» dico con voce ferma, cercando di mascherare il lieve tremore.
La porta si apre e un uomo entra. Indossa un abito scuro, impeccabile, e i suoi movimenti sono misurati, quasi meccanici. È uno degli scagnozzi che si occupa della sicurezza, sempre presente, sempre silenzioso.
«Il Boss richiede la sua presenza, signorina,» dice con tono piatto, privo di emozione.
Annuisco, poso la foto di mia madre sul comodino e mi avvio verso la porta. Ogni passo sembra più pesante, come se qualcosa mi trattenesse.
Quando esco dalla stanza, sento il rumore della porta che si chiude dietro di me, un suono che riecheggia come un sigillo sul mio destino.
Mentre cammino lungo i corridoi illuminati dalla luce soffusa dei lampadari di cristallo, non posso fare a meno di pensare a ciò che mi aspetta. Ogni incontro con Ammi è una partita a scacchi, e io non ho mai il controllo della scacchiera. Lui decide, lui comanda, e io devo obbedire.
Ma dentro di me, una piccola scintilla continua a bruciare. Una scintilla che mia madre ha acceso e che, nonostante tutto, non si è mai spenta del tutto.
Rallento il mio passo quando la porta di legno massiccio si staglia davanti a me come un'ombra incombente. Ogni volta che la vedo, è come se mi trovassi sull'orlo di un burrone, costretta a un salto nel buio che non so dove mi condurrà. Negli ultimi tempi, queste convocazioni sembrano moltiplicarsi, come se ci fosse un'urgenza silenziosa ma opprimente che mi stringe il cuore. So già quale sarà il tema del colloquio: un matrimonio. Non è mai altro.
Da quando ho raggiunto l'età che loro definiscono "adatta", il matrimonio è diventato un assillo che mi perseguita. È il perno attorno a cui ruotano tutti i loro piani. Il mio futuro si riassume nel dover essere una moglie devota, avere un marito potente, un legame che prometta di rafforzare la rete di interessi che governa questa famiglia. Non sono altro che un oggetto di scambio, una pedina utile in un gioco di potere.
Ammi lo maschera con belle parole: una figura forte, un uomo che mi protegga, che mi dia sicurezza. Ma so bene qual è la realtà. Sono come una gallina dalle uova d'oro, il mio patrimonio un tesoro da amministrare, il mio futuro un affare cospicuo da siglare.
I pretendenti, quando arrivano, sono sempre uguali. Vecchi, dall'aria viscida, con sguardi avidi che mi pesano come catene, ma dannatamente ricchi e spesso coinvolti in affari loschi. Si accaparrano il diritto di presentare una proposta depositando una "dote", come se la mia vita potesse essere messa all'asta, venduta al miglior offerente. È una compravendita, nient'altro. L'idea mi disgusta, eppure sembra che per tutti sia normale, quasi onorevole.
Ma al mio dito, per ora, non c'è ancora nessun anello. Una piccola vittoria, ma che ha un prezzo. Non è stato il buon senso a salvarmi, né il rispetto per i miei desideri. È merito mio, e solo mio, se sono riuscita a sabotare ogni trattativa. Ho affinato l'arte di prendere tempo, di mostrarmi in apparenza accondiscendente, per poi rovinare tutto quando la conclusione sembra vicina. Ogni volta è un gioco pericoloso, perché so che la pazienza di Ammi non è infinita. Eppure, non riesco a fermarmi. La prospettiva di appartenere a qualcuno, di perdere anche quel poco di libertà che ho, mi terrorizza.
Mi fermo davanti alla porta, respirando a fondo per cercare di calmare il battito furioso del cuore. Le mie mani si posano sul legno freddo, come se volessi carpirne la solidità per trasferirla a me stessa. So che dietro quella porta mi aspetta l'ennesima battaglia, un altro tentativo di costringermi a piegarmi. Ma non posso permetterlo. Non ancora.
La porta si apre con un lieve cigolio, rivelando la figura imponente di Ammi. Nonostante i tratti severi del viso, sorride con una cordialità che trasuda falsità. È il suo sorriso più insidioso, quello che usa quando ha qualcosa da chiedere.
«La luce dei miei occhi,» esclama, la voce calda come il miele, ma altrettanto appiccicosa. «Finalmente ti fai vedere! Sai che mi rattrista vederti sempre chiusa in questa stanza. Vieni, vieni qui, bambina mia.»
La sua dolcezza forzata è un segnale d’allarme. Quando Ammi è troppo gentile, c’è sempre un prezzo da pagare. Mi sforzo di sorridere mentre mi avvicino, ma dentro di me le mie difese si alzano.
«Ma insomma, cosa ci fai ancora vestita così?» prosegue, indicando il mio abbigliamento casual con un gesto vago. «Non dovresti già essere pronta per andare alla festa di Aisha?»
Il nome di Aisha mi fa rabbrividire. Quella donna, con il suo sorriso perfetto e i suoi modi melliflui, è tutto tranne che un’amica. La sua presenza nella mia vita è solo una facciata, una strategia ben calcolata per avvicinarsi a ciò che le interessa davvero: Ammi e il potere che rappresenta.
Sollevo appena lo sguardo verso di lui, cercando di mantenere il controllo della voce. «Non pensavo di avere il permesso.»
Ammi finge di scandalizzarsi, scuotendo la testa come se avessi detto la cosa più assurda del mondo. «Ma non dirlo nemmeno per scherzo! Non ti farei mai perdere un evento del genere. Hai diritto anche tu a un po’ di svago. Sei sempre chiusa in camera a leggere, a studiare…» Si interrompe, lanciando uno sguardo quasi infastidito ai libri che occupano la sua libreria.
«A cosa ti serve studiare quando hai tutto questo?»
Il suo braccio si allarga in un gesto teatrale, indicando l’opulenza che ci circonda: il lusso sfrenato della villa, la vista su Dubai che si estende oltre il balcone, le luci scintillanti che sembrano promettere tutto e non dare nulla.
Lo guardo di sottecchi, il cuore che batte più veloce. Ogni fibra del mio corpo mi dice che questa generosità improvvisa nasconde qualcosa. Non riesco a trattenere una domanda pungente, che scivola fuori dalle mie labbra prima che possa fermarla. «E quale sarebbe il prezzo da pagare per questa generosità?»
Il sorriso di Ammi si irrigidisce per un attimo, ma si riprende subito. «Oh, andiamo, Deva, sei sempre così prevenuta.» La sua voce è affabile, ma gli occhi tradiscono un lampo di irritazione. «Non può essere che tuo zio voglia solo vederti felice? Aisha è una delle ragazze più influenti della nostra cerchia, e tu sei la mia nipotina adorata. Tutti devono sapere quanto ti amo e quanto sei importante per me.»
La sua affabilità è un veleno lento. Ogni parola è un filo che cerca di stringermi in una rete invisibile. So che non posso sfuggire a questa richiesta, non senza provocare un’altra discussione o, peggio, un castigo sottile e calcolato.
Rimango in silenzio per un momento, cercando di misurare la mia risposta. «Allora suppongo che non abbia scelta,» mormoro infine, cercando di mascherare il mio malcontento con una punta di ironia.
Ammi sorride, soddisfatto. «Brava ragazza. Vai a prepararti, allora. Voglio che tutti gli occhi siano su di te questa sera. Mostra al mondo chi sei davvero.»
Mentre mi giro per tornare in camera, sento il suo sguardo che mi segue, pesante come un macigno. La sua generosità non è mai senza condizioni, e questa festa non sarà altro che un altro teatro in cui recitare il ruolo che mi ha imposto.
A lui non importa di vedermi felice. Questa sera, mi sta solo esponendo in vetrina come merce in saldo, ma io... alzerò il prezzo.
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