3| Atelphobia

3| Atelphobia

(n.) La paura di non essere abbastanza.

Alzo la testa e il collo mi scrocchia per via della posizione innaturale in cui è stato nelle ultime ore.

Mi strofino il naso sulla manica della felpa e noto tracce di mascara sul tessuto grigio.

Riporto i piedi a terra e mi alzo dal water sul quale ero rimasta accovacciata per quasi due ore; ho le gambe talmente addormentate che per poco non crollo a terra dopo aver fatto il primo passo. Spaccarmi il naso in un bagno sarebbe stato l'apice di una giornata già tremenda di per sé.

Esco dal cubicolo e mi osservo allo specchio: ho gli occhi arrossati e gonfi e delle linee nere mi solcano le guance.

Dio, che aspetto terribile.

Tendo l'orecchio; lo spogliatoio è nel più completo silenzio; meno male, non avrei avuto la forza di sopportare il peso delle occhiate degli altri... chissà se la notizia aveva già fatto il giro dell'intero sporting club.

Mi sciacquo la faccia, cercando di sfregare via il mascara e di rendermi presentabile quanto basta per poter salire sull'autobus e tornare a casa evitando occhiatacce o domande da parte dei miei.

Mi siedo sulla panchina, e mentre butto alla rinfusa le mie cose nel borsone, provo a chiamare Carolina, ma dopo pochi squilli parte la segreteria e io son costretta a staccare.

Sospiro e mi guardo intorno un'ultima volta.

Cerco di convincere me stessa che quello non sia un vero addio, che continuerò a passare ore e ore in quel posto, ma più ci penso e più il mio umore sprofonda.

Questa è davvero la fine.

Lascio scivolare la mano sul muro; guardo le panchine dove io e le mie compagne di squadra abbiamo spettegolato così tante volte; lo specchio, nel quale ogni volta, prima di una gara, ripetevo a me stessa che potevo farcela, perché ero destinata a far grandi cose; la porta dei bagni, che avevamo riempito di scritte e disegni durante un pomeriggio d'inverno...

È una cosa stupida... Tutte queste erano cose stupide e insignificanti per molti, ma per me racchiudono i pochi ricordi che ero riuscita in qualche modo a salvare, e pensare che presto avrei perso anche quelli, mi scavava una voragine nel petto.

Mi chiudo la porta alle spalle e percorro l'intero corridoio fino alla pista senza mai voltarmi indietro, se l'avessi fatto sarei scoppiata a piangere.

Gli spalti e l'arena sono deserti, ma ancora illuminati; guardo l'ora sul cellulare e ne capisco il motivo: pochi minuti e il palaghiaccio avrebbe chiuso.

Mi viene un'idea: un'ultima pattinata, prima di concludere questo capitolo della mia vita.

Poso a terra il borsone, infilo i pattini ed entro in pista.

Scivolo leggiadra per qualche giro; cerco di non pensare a nulla, di lasciare che sia il mio corpo a ricordare per me, ma non sembra funzionare abbastanza.

Mi giro all'indietro e continuo, con una sensazione di panico che poco alla volta mi schiaccia.

Mi preparo per il salto, ne faccio prima uno del tre, traballante, ma ne esco incolume; la mia idea è quella di attaccarci subito dopo un toe-loop, ma appena parto, le mie gambe si irrigidiscono, la paura s'infiltra tra i muscoli e per un secondo mi scordo come respirare.

Con la coda dell'occhio vedo una figura scavalcare la balaustra sulla mia destra, perdo la concentrazione e il mio corpo ha la meglio sulla mia determinazione.

Mi blocco, sbilanciandomi all'indietro e finisco con il sedere sul ghiaccio.

Gemo e cerco di rimettermi in piedi. Mi giro verso la persona che sta venendo verso di me, e quando è vicina abbastanza da vedere chi sia, mi accorgo che è il ragazzo di sabato; ha una mazza da hockey in mano e non è per niente felice.

«Cosa pensi di fare?», esordisce.

La durezza della sua voce mi coglie di sorpresa.

«Come scusa?»

«Non puoi stare qui.»

Raddrizzo le spalle e stringo la mascella. Ne avevo abbastanza di persone che mi dicevano quello che potevo e non potevo fare, soprattutto quel pomeriggio.

«Ho il permesso della mia allenatrice», ribatto, ormai talmente avvezza a mentire, che la bugia mi esce spontanea.

«Bugiarda.»

Nessuna esitazione, nessun dubbio.

È come se avessi ricevuto un pugno nello stomaco, le parole mi muoiono in gola e io non so più cosa rispondere.

Lui è la prima persona a chiamarmi per quella che sono.

Una bugiarda.

Possibile che la novità avesse già fatto il giro dell'intero palaghiaccio fino ad arrivare alla squadra di hockey?

Avvampo e stringo le labbra.

Scuoto la testa. Gli passo accanto e mi dirigo verso l'uscita, all'ultimo però raccolgo quel briciolo di coraggio che mi era rimasto e mi volto di nuovo verso di lui.

«Non sei nessuno per chiamarmi così.»

I suoi occhi scuri vacillano, non si aspettava che gli rispondessi.

«Voi hockeysti siete tutti arroganti uguali» continuo.

Abbassa lo sguardo sulla stecca che stringe in una mano, e poi lo rialza su di me.

«Vai a casa.»

La sua reazione- non reazione mi fa arrabbiare ancor di più: mi stava trattando come una bambina capricciosa e io odiavo quando la gente faceva così.

Ribollo di rabbia, ma lascio perdere, mi giro e me ne vado. Arrivata nell'atrio, mi tolgo i pattini, stringo le lame tra le dita ed esco da lì, scalza.

Non mi fermo e non mi volto finché non raggiungo la fermata dell'autobus.

Mi siedo sulla panchetta in metallo, rimetto i pattini nel borsone e mi infilo le scarpe. Tiro poi fuori il telefono e mando un messaggio a Caro.

Chiamami appena puoi, ho bisogno di sfogarmi.

Appoggio la testa alla pensilina e chiudo gli occhi.

Li riapro di scatto quando suona la sveglia dell'orologio. La stacco, prendo le pastiglie dal borsone e ne butto giù due con dell'acqua.

In lontananza vedo il pullman arrivare, mi avvicino al ciglio della strada e faccio segno all'autista di fermarsi, salgo e mi metto in uno dei posti in fondo.

Il telefono vibra nella tasca, lo tiro fuori, leggo il nome sul display e sorrido.

«Ciao Caro.»

«Tesoro, ho letto il messaggio, cosa è successo? È andata bene?»

«Per niente. Non sono nemmeno riuscita a dire a Matte che sono innamorata di lui.»

«Come? E perché?»

Racconto a Carolina di come mi avessero sostituito e che Matteo sapeva ormai da giorni che non avrei più pattinato con lui.

«Ti hanno sostituita con Veronica?»

«Già.»

«Ma lei non ha nemmeno metà del tuo talento.»

«Io non ho più talento, Caro, il problema è proprio quello.»

«Stronzate!»

«Purtroppo è così, e non posso trascinare giù con me Matteo, non se lo merita. L'incidente... è stata colpa mia. Lui non deve pagare per un mio errore.»

A questa mia affermazione segue un attimo di silenzio, poi Carolina dice: «Non vorrai darla vinta a loro così, no?»

«Cosa posso fare?»

«Allenati da sola, torna l'Alisea di un tempo.»

«Non è così facile.»

«Se non ci provi non lo saprai mai, Ali. Io credo in te e credo che riuscirai a farcela.»

Mi metto quasi di nuovo a piangere a sentire quelle parole. «Grazie.»

«Fallo per te stessa, che ti frega di loro.»

Quello che mi sta dicendo mi infonde un po' di speranza. «Pensi davvero che potrei riuscirci?»

«Assolutamente!»

«Alla sera non c'è mai nessuno, potrei allenarmi a quell'ora, prima che il palaghiaccio chiuda.»

«Perché no?»

«Grazie Caro. Sei la migliore.»

«Smettila Ali, che poi finisco per crederci», ride. «Scusa, ma devo staccare. Ci vediamo domani?»

«Sì, ciao.»

Riattacco e per pochi minuti sono felice, perché mi sembra di vedere una luce in fondo al tunnel.

Poi però ripenso al mio incontro sfortunato di quel pomeriggio, di come il giocatore di hockey mi avesse trattato male.

Mi ero scordata di raccontare quel piccolo particolare a Carolina.

Scuoto la testa; non sarebbe stato lui a fermarmi.

Avrebbe potuto chiamarmi bugiarda quanto voleva, non avrebbe cambiato le cose.

Mi sarei allenata, avrei sconfitto la mia paura e sarei tornata quella di un tempo.

Quella sarebbe stata lamia rivincita.

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