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Ho sempre avuto l'abitudine di segnare ogni cosa, sul calendario.

Ogni impegno, evento o ricorrenza trova un piccolo spazio tra le caselle in cui dei grandi numeri neri segnano i giorni e i colori con i quali li annoto sono rivelatori della loro importanza.

Il rosso segna ogni evento legato a Manuel, il nostro anniversario, le cene fuori insieme, le piccole ricorrenze; mentre il nero indica gli impegni legati alla scuola, agli allenamenti che finalmente sono tornati a far parte della mia routine e agli appuntamenti per questo dannato aggeggio che mi intrappola i denti da ormai troppo tempo. 

Oggi, 16 settembre, un cerchio nero spicca severamente sul calendario.

E per quanto la paura quasi mi immobilizzasse e la voglia di uscire di casa fosse minore di zero, ho lasciato che mio padre mi accompagnasse dal dentista, per il solito controllo mensile. 

Non prima d'aver rubato una felpa di Manuel dall'armadio, però. 

Solo perchè è comoda, eh.

E perchè indossarla mi fa sentire meno solo e più al sicuro, ma questa è un'altra storia.   


Non c'è stato alcun tempo d'attesa, questa volta. 

E dopo appena un minuto dall'aver varcato la porta dello studio del Dottor Monte, mi sono ritrovato sulla solita poltrona a fingere di non provare troppo dolore mentre i fili argentati dell'apparecchio, saldamente ancorati ad ogni mio dente, venivano tirati prima da una parte e poi dall'altra. 

«Stiamo stringendo un po' l'apparecchio.» mi ha spiegato il dottore, probabilmente per giustificare i modi poco gentili di strattonare il mio volto, durante il suo operato. «Potrebbe darti un po' di fastidio, all'inizio ma vedrai che ti abituerai presto.»

E mi auguro vivamente abbia avuto ragione perchè ora, che sono a scuola e il suono della campanella che da inizio alla ricreazione rimbomba tra le mura del corridoio, il mal di denti non mi da tregua e con lui, puntuale come sempre, il mal di testa che martella incessantemente le mie tempie. 

Contro ogni mia aspettativa, mio padre è rimasto a tenermi compagnia fino ad ora. 

E, nell'attesa che i docenti lascino le aule così da poter poi rientrare con i miei compagni, siamo seduti su queste scomode sedie di plastica allineate accanto al muro, nel corridoio. 

Come piccola consolazione, mi ha comprato un pacchetto di biscotti, ai distributori e sono intento a sgranocchiarne uno,  a piccoli morsi, quando la porta della mia classe si spalanca e i miei compagni iniziano ad uscire e a sparpagliarsi.

Sono usciti quasi tutti quando finalmente Manuel appare, sull'uscio della porta. 

A testa bassa, digita qualcosa sul cellulare e mentre lui lo ripone in tasca, una notifica arriva al mio, con il suo messaggio. 

Guarda per un istante tra la folla, prima di notarmi e raggiungermi. 

Ciao amore mio. 

«Ah amore, sei qua!» mi saluta, chinandosi per un velocissimo bacio sulle labbra.

Con un cenno e il suo immancabile «Professò.» saluta mio padre che è già scattato in piedi, invitandolo a prendere il suo posto.

 «Oh Manuel, siediti siediti, io stavo per andare!» gli dice, con un grande sorriso sulle labbra ed indicando la sedia con talmente tanta entusiasmo da far apparire sul suo volto un'espressione confusa e far sì che obbedisca come ipnotizzato. 

Approfitto del suo essermi seduto accanto per lasciargli un piccolo bacio sulla guancia. 

Si volta subito per sorridermi e quando i suoi occhi incontrano i miei, sollevo il piccolo pacchetto di biscottini alla nocciola per offrirgliene uno. 

«Amore, vuoi?»

«No amore, grazie...» mi risponde distrattamente, mentre gli occhi tornano su mio padre che ora rovista nelle tasche alla ricerca, probabilmente delle chiavi della moto. 

«Che ce fa lei qua, professó?» gli chiede, «Non abbiamo lezioni con lei, me pare. No?»

«No! Sono venuto solo per vedere come stava Simone, ma sembra essere tutto apposto quindi ora torno a casa!» 

Lo vedo accovacciarsi sul mio zaino ed aprire la cerniera superiore per posarvi le chiavi della moto. 

«Simone, le sto mettendo qui. Nella tasca grande.» mi avverte. «Mi raccomando però, chiamami quando esci e soprattutto quando stai per tornare a casa.»

Ho la bocca piena di biscotto e una briciola sfugge via dalle labbra mentre annuisco e mormoro un «Va bene papà.» prima di salutarlo con un cenno della mano.

Non passa nemmeno un istante prima che lo sguardo di Manuel si sposti su di me e sembra così attento nell'osservarmi da strapparmi un sorriso. 

Ci sono solo due occasioni in cui i suoi occhi si fanno così attenti e indagatori: quando crede gli stia dicendo una bugia e quando è preoccupato per me. 

«Amore, come mai ce stava tu padre? Sincero però.» 

Ecco, appunto.

«Dimmi che c'è. Stai male?»

«No amore, è tutto ok!» provo a rassicurarlo, con un sorriso stretto a causa della labbra che sembrano puntellate da una serie di piccoli spilli.

«Che te senti? Che t'hanno fatto?»

«Mi hanno stretto l'apparecchio e fa un po' male, Manu. Tutto qui.»

«Mh. E che puoi fare? Vuoi andare a casa? T'accompagno io, se vuoi! »

«Ma sono arrivato adesso!» 

«Ah..giusto. Allora- non lo so- vuoi restare!?»

«E certo che voglio- devo- restare.» ridacchio, recuperando con il mignolo l'ennesima briciola che è sfuggita ai morsi rifugiandosi all'angolo delle mie labbra.

«Spero solo che non mi facciano parlare tanto in classe. Questo coso tira e parlo strano.»

«Ma no che non parli strano amore, sei carino!» esclama, come se i professori potessero scrivere carino sul registro, come voto. 

«Cioè! Voglio dì- sei normale Simò! Sei normale!»

«Io non direi proprio.»

«E invece sì! Sei ancora più- sembri ancora più- piccolo. Ecco.»

Non riesco a trattenere un'altra risata, nel sentirlo biascicare quei complimenti confusi. 

«Credi questo basterà a Lombardi?» chiedo, soffocando una risata. 

Mi raddrizzo sulla sedia e inforcando occhiali immaginari, imito la voce del professore.

«Simone Balestra, interrogato su Livio Andronico. Voto: Carino e piccolo.»

La risata di Manuel che si mescola alla mia è il suono più bello del mondo e mi riempie le orecchie, lasciandomi addosso un senso di pace che riesco a provare solo quando sono insieme a lui. 

« Quindi sei sicuro de sta bene, tutto apposto ? non te serve niente?» mi chiede ancora, pochi istanti prima che la campanella suoni di nuovo. 

Faccio di no con la testa e lentamente ci spostiamo verso la classe. 

La lezione della professoressa Girolami procede tranquilla, mentre lei spiega l'ennesima parte dello studio di funzioni. 

Segno giusto qualche appunto sul quaderno e quando la professoressa si avvicina al registro, scorrendolo con lo sguardo, tutto mi sembra essere un'inutile prassi, dal momento in cui la scelta su chi chiamare alla cattedra ricade sempre su di me. 

«Simone.» mi richiama. «Vuoi venire tu alla lavagna e spiegare ai tuoi compagni questa dimostrazione?»

Come volevasi dimostrare; a proposito di dimostrazioni. 

«Va bene.» borbotto sottovoce, mentre mi alzo e la raggiungo, portando cone me il quaderno con i nuovi appunti. 

«A te!» esclama lei, consegnandomi il gesso con un grande sorriso sulle labbra. 

Lo afferro tra indice e pollice e, voltandomi verso la lavagna, lo lascio scorrere, disegnando il grafico di una funzione, tra campo d'esistenza e asintoti.

«Simone però dovresti spiegare quello che fai, ai tuoi compagni. Passaggio per passaggio.» puntualizza la professoressa. 

 «Esatto Simó che voi che ce dobbiamo capí noi così?!» 

L'intervento di Matteo, urlato a gran voce, provoca una grossa risata generale che si solleva tra i banchi con l'unico risultato un grande imbarazzo, che le labbra sembrano pietrificate dal male provato e la bocca è secca e intorpidita.

 «È che- questa è la funz-hione. Questo è il gra-il grafico.» mi ritrovo a balbettare, nel tentativo di evitare in ogni modo che la lingua finisca tra le stelline nuove e dolorose.

 «Ma t'è venuta mò la zeppola, Simò!?»

 «Matteo, mó hai rotto!»

 La voce di Manuel irrompe come una bomba, lasciando tutti interdetti, tranne la professoressa Girolami che esclama un sonorosissimo «Manuel!» 

 «Ah professorè, io sono il problema? È tre ore che lo sta a prende in giro!» 

 «Ma che sei? L'avvocato suo?» 

 «Si! E só pure la sua voce, oggi.»

 Sotto gli occhi sbigottiti di tutti, i miei compresi, si solleva, raggiungendomi alla cattedra. 

«Dimmi che devo dì Simó.» mi sussurra, stringendomi la mano per darmi coraggio.

«Parlo io per te.»

E così faccio, per il resto della lezione, suggerendo le frasi da dire ad alta voce al mio posto, mentre i compagni segnano sui quaderni i passaggi svolti.

«Grazie ragazzi, andate a posto.» ci congeda la professoressa, prima del suono della cambio ora che ci permette di ritrovarci nuovamente un istante lontani dagli sguardi degli altri, in modo da scambiarci un paio di baci leggeri.

«Sarei perso senza di te.» confesso, staccando per un secondo le mie labbra dalle sue.

«Pure io.» risponde lui, lasciandole rincontrare. 

E sono sicuro il cuore abbia fatto una piccola piroetta felice, tanta è l'emozione che provo.


Le ultime due ore trascorrono in un rassicurante anonimato.

Ne approfitto per incrociare le braccia sul banco, affondarvi la testa e chiudere gli occhi, in attesa dell'ultima campanella che decreta l'agognata libertà. 

A passi lenti usciamo da scuola, soffermandoci ai posti riservati alle moto. 

La moto di Manuel è ferma due posti avanti la vespa ma lui si ferma accanto a me, mentre cerco nello zaino lo chiavi che mi ha lasciato papà. 

«Amore, ce l'hai un casco in più?»

« Ma c'è la tua moto, lì.»

«Lo so che ce sta 'a moto.» mi dice, quasi scocciato dal fatto che io l'abbia fatto notare. 

«Ma io t'ho chiesto se c'hai un casco in più.», insiste.

Stiro involontariamente le labbra in una smorfia incredula ma sollevo comunque il sellino per recuperare il secondo casco, di riserva, e glielo porgo.

«Tieni.» 

«Grazie.» mi dice, afferrandolo subito e indossandolo.

«Dai, famme spazio. Guido io.» 

«Manu, ma non devi andare a lavoro?» chiedo, ancora più incredulo.

«No. Me sto a casa con te. Che, te dispiace?»

«N-no. Va bene, amore, anzi! Solo che non capivo.»

«Ma non c'è niente da capì, amore. Se vede che stai male. Non te lascio solo. Tutto qua.»

Allora mi sposto, per lasciargli lo spazio di salire in sella e un po' mi stupisce, quando Manuel mi sfila dalle spalle lo zaino e lo sistema insieme al suo nel baule.

Mi accarezza il collo, per controllare che il casco sia ben legato e poi mi fa cenno di salire, dietro di lui. 

«Tienite stretto eh.» mi ordina. «Che se me caschi poi chi lo sente a tu padre?»

Ridacchio un po', rifilandogli una leggera pacca sul fianco, prima di avvolgerlo con braccia così stretto da poter poggiare il volto sulla sua schiena. 

«Seh. Tu pensa a guidare, possibilmente bene!» lo punzecchio.

«'Sta moto c'ha l'anni tua, Simò. Già è assai che cammina.»

Rido e scuoto la testa, arrendendomi. 

È inutile, l'ultima deve sempre dirla lui.


Siamo fortunati, nel non trovare traffico e in meno di venti minuti siamo già a casa. 

Se la speranza era quella di abituarmi, la realtà è ben distante. Il dolore non molla, ringhia forte tra le labbra e nella testa.

Così forte che le tempie sembrano voler esplodere per l'incontenibile pulsante.

Abbandono lo zaino all'ingresso e striscio i piedi fino al salotto dove mi lascio cadere sul divano, portando una mano alla fronte e chiudendo gli occhi. 

«Che? Male?» mi chiede Manuel, soffermandosi di fronte a me.

Ha l'aria molto preoccupata, devo essere piuttosto pallido. 

«Un po', amore, sì.»

«Dai, mò pranziamo così te passa.» mi dice, nel tentativo di rassicurarmi.

Ma se c'è una cosa di cui proprio non ho voglia adesso è proprio quella di mangiare.

«No, Manu.. non ho fame.», mormoro.

«Mh?»

«Mi fa troppo male la testa,» piagnucolo, « voglio solo dormire un po'.»

«Ho capito che te fa male amò, ma se non mangi è peggio.»

Spalanco gli occhi, puntandoli su di lui. 

«Da quando sei diventato mia madre, Manuel?»

«Da quando te vedo così malconcio.» 

Mi osserva ancora qualche istante, con occhi amorevolmente angosciati.

«Senti, facciamo una cosa.» mi propone poi, «Dico a tuo padre de cucinà una pasta piccola, così non te fa male. Tu resta qua.»

Si allunga verso la poltrona accanto, recuperando una coperta abbandonata lì e con estrema cura me la sistema addosso. 

«Tu resta qua, sto tornando.»

Ed effettivamente lo vedo tornare qualche istante dopo, con un bicchiere d'acqua che mi porge e che bevo solo per rasserenarlo. 

Non ho sete ma alla fine si rivela essere utile perchè il dolore molla un po' la presa e mi concede una tregua sufficiente per permettermi di pranzare tranquillo.

Riprende poi, a pranzo concluso, mentre Manuel mi porge l'ultima fetta di mela che va tagliando e sbucciando man mano. 

«Manuel, ma quanto lo stai viziando?» gli chiede papà, ridendo nel vederlo concentrato nel rimuovere ogni traccia di buccia.

«Eh, professò. A Simone non piace la buccia.» 

Gli occhi divertiti di papà si soffermano su di me che evito il suo sguardo per imbarazzo e mi limito a stringere un po' il braccio di Manuel e lasciarvi sopra un bacio.

«Mi vizi un po', sì.» 

«Perchè ti amo.»

Sollevo gli occhi per guardarlo e non appena il suo si posa sul mio, ci scambiamo un bacio, lento, leggero. 

E ogni dolore pare affievolirsi.

«Ti amo anche io.»


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NOTE AUTRICE :  Eccoli tornare, un'altra volta, i bimbi di Sorriso d'Argento.

Su cc mi avete chiesto spesso di loro e ho deciso quindi di scrivere questa nuova os per un loro piccolo ritorno. 

Vi ringrazio come sempre dell'immenso vostro affetto, è davvero prezioso. 

Ci vediamo nei commenti, come sempre, se vi va e vi mando un grande abbraccio! 

Vostra, G. 



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