Parte 2


ATTENZIONE: ROMANZO IN VENDITA in tutte le librerie e online con il titolo: "PREDESTINATI PER SCELTA" a 18€


ATTENZIONE: Questa è solo una bozza embrionale, da cui si può solo intuire il successo editoriale di "PREDESTINATI PER SCELTA"


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Scrutavo le vite dei mortali da un luogo indefinito, in cui nessuno mi poteva vedere. Fui creato prima dell'inizio dei tempi, eterno e con il dono della preveggenza. Passato, presente e futuro dell'umanità non avevano segreti per me, ma l'estrema molteplicità dei fattori in gioco rendeva difficile avere tutto sotto controllo. Non ero tranquillo, percepivo l'estrema precarietà della realtà su cui vegliavo: nulla era cristallizzato, tutto era tenuto insieme da un instabile equilibrio, che poteva cambiare per un nonnulla. Nonostante tutto sembrasse avvenire così come era stato predeterminato, innumerevoli erano le variabili che potenzialmente avrebbero potuto influire sul corso degli eventi, deviandolo verso direzioni inattese.

Avevo appena ascoltato Roberto, in preda alla disperazione, pronunciare un'insolita preghiera, per cui decisi di osservare attentamente le sue successive azioni, per valutarne l'effetto.

Il parroco accese la luce nella sacrestia. Silenzio, freddo e odore di polvere.

Si soffermò a guardare il suo riflesso in una specchiera barocca, lesionata in più punti dalle inesorabili conseguenze dello scorrere del tempo. Aveva ancora un fisico invidiabile, slanciato, robusto e asciutto, ma i suoi occhi azzurri erano spenti e contornati da occhiaie profonde. I lineamenti gentili non conoscevano più il sorriso e le rughe erano in parte nascoste da una barbetta ispida e incolta.

Sperava di vedere il ragazzino spensierato di una volta e stentava a riconoscersi nell'uomo del riflesso. Passò oltre. Un'altra notte insonne lo attendeva, a causa delle troppe preoccupazioni che gli ronzavano nella mente.

Su una mensola traballante era in bella mostra in una cornice barocca d'argento, come se fosse l'immagine di un santo, una foto in bianco e nero di un ragazzo abbronzato, con i capelli scompigliati e gli occhi nero pece, che sorrideva. Si diresse verso il ritratto scolorito, l'afferrò e con rabbia lo gettò per terra, poi come pentito per quello che aveva appena fatto, lo raccolse scostando con cura i cocci taglienti di vetro.

Osservò sul retro consunto della foto una frase scritta in bella calligrafia. Senza occhiali vedeva soltanto una scia sbiadita, ciò nonostante, con lo stesso tono che utilizzava nei suoi lunghi sermoni, ne declamò il contenuto: «Ti dono questa foto come pegno della mia infinita gratitudine, per avermi salvato la vita. Napoli, 23 novembre 1980; firmato Antonio Barracane».

Tanti anni erano passati, eppure la scena di lui e Antonio che si abbracciavano era ancora vivida nella sua mente, come anche quel profumo di erba umida su cui erano sdraiati, sporchi di fango ma felici di essere scampati alla morte.

Roberto aveva scavato con le unghie e la forza della disperazione tra i calcinacci, per tirare fuori l'amico con cui, fino a un attimo prima, rideva e scherzava. Era stato Dio a guidare le sue mani, raccontava spesso, con convinzione.

Come avesse fatto lui, invece, a uscire fuori dalla massa enorme di detriti che gli erano crollati addosso, non lo rammentava. Aveva soltanto un vago ricordo di una luce, così luminosa da accecarlo. Sta di fatto che rimase completamente illeso, senza nemmeno il più piccolo graffio o livido.

Dopo quel giorno, nonostante i loro destini si erano apparentemente divisi, restando però intrecciati in maniera estremamente aggrovigliata, i due amici erano ancora più uniti. La minaccia estremamente seria e per nulla negoziabile, fatta da Antonio, aveva però cambiato tutto, aveva il sapore acre della fine di un legame profondo.

Roberto ripose la foto in un cassetto del grosso mobile in legno scuro che copriva un'intera parete della piccola stanza e la nostalgia lasciò il posto a un'altra sensazione, difficilmente descrivibile: un terrore irrazionale che congelava ogni movimento e pensiero. L'aveva provata per la prima volta quando rimase sepolto dalle macerie e si era ripresentata con una regolarità disarmante, ogni giorno della sua vita. Conviveva con la paura, come fosse una musica di sottofondo nella sua esistenza, ma in alcuni momenti prendeva il sopravvento su tutto il resto, senza preavviso alcuno e non poteva far altro che attendere che passasse, facendo dei respiri profondi. Lui però non si dava mai per vinto, la forza la ricavava dalla fede e dal suo proverbiale fatalismo. Continuava ad andare avanti, come se nulla fosse, cercando di nascondere agli altri il suo enorme disagio.

Quando finalmente riuscì a camminare nuovamente, si diresse verso la sua piccola scrivania, su cui un'enorme quantità di penne, matite e pennarelli erano perfettamente allineati. Nel cassetto più grande i documenti erano archiviati per data, mentre i fogli e buste da lettera erano raccolti in base alle dimensioni e al colore, negli altri cassetti. Tutto rispettava un ordine preciso che nessuno si doveva permettere di cambiare. La sua intera vita scorreva entro rigorosi schemi rigidi e ripetitivi che alleviavano il senso di ansia. Forse anche per questo il suo percorso "professionale" era stato estremamente lineare e senza distrazioni: ingresso giovanissimo in seminario; ottimi risultati nello studio; ordinazione a sacerdote alla presenza di un lontano parente cardinale e immediato e prestigioso incarico di parroco della chiesa di San Gennaro alla Solfatara.

Si sedette sulla sua poltroncina preferita, logora ma comoda, e fece un sospiro di sollievo. C'erano diverse sedie e tutte sembravano non essere mai state utilizzate, sarebbero dovute servire a ricevere i fedeli, ma Roberto non amava intrattenersi con nessuno.

Il luogo di culto affidatogli era stato edificato sul sito preciso in cui San Gennaro, patrono di Napoli, fu decapitato e custodiva al suo interno la pietra intrisa del sangue raggrumato del santo, che periodicamente si ravvivava fino ad assumere un colore rosso vivo. Il giovane parroco, quando assistette al fenomeno la prima volta, rimase così enormemente impressionato da non voler più guardare quell'inquietante reliquia.

Non era quella, però, la cosa che lo turbava di più di quel chiesa, così particolare. Essa era stata edificata vicino alle maleodoranti fumarole della Solfatara di Pozzuoli, che permeavano ogni cosa di un acre e insopportabile odore di zolfo, che gli ricordava il diavolo. Le fumarole, inoltre, costituivano l'epicentro di scosse telluriche, molto frequenti, che esordivano con spaventosi boati, tipici del bradisismo.

I terremoti erano una presenza costante nella vita di Roberto, una sorta di maledizione che lo tormentava, alimentando le sue fobie e nevrosi, fin dal giorno in cui compì dodici anni.

Era il lontano 23 novembre del 1980, data che corrispondeva al compleanno sia di Roberto che di Antonio, ma non c'erano torte o pacchetti regalo ad attenderli: i genitori di entrambi non avevano tempo per queste cose. Il padre di Antonio era in prigione a Poggioreale e la madre, Rosalba, usciva di casa la mattina presto, quando tornava, la sera tardi, era troppo stanca per occuparsi di suo figlio. La mamma di Roberto, al contrario, era sempre a casa: si era ammalata e ogni giorno peggiorava sempre di più. Guido, il papà di Roberto, era l'unico che si occupava di entrambi.

Roberto e Antonio vivevano come se fossero fratelli, erano compagni di gioco inseparabili e si sostenevano a vicenda nei momenti di difficoltà.

Guido era una persona straordinaria, capace di mille sacrifici pur di non far mancare nulla alla moglie immobilizzata nel letto, al figlio e al piccolo Antonio, a cui diceva sempre: «Guagliò non ti preoccupare, fai conto che sono il tuo papà di riserva». Era un gran lavoratore e non c'era mestiere che non sapesse eseguire con bravura. Con il suo carattere allegro si faceva amare da tutti e i tanti amici gli procuravano sempre qualche lavoro da svolgere. Aveva, però, uno strano difetto: odiava le festività e i festeggiamenti.

Roberto pensava che l'atteggiamento del padre fosse solo una scusa per risparmiare, ciò nonostante non si lamentava, soffocando dentro di sé l'invidia che nutriva nei confronti dei suoi compagni di classe, che facevano a gara nell'organizzare feste di compleanno sempre più costose.

Erano da poco più di mezz'ora passate le diciannove. Rosalba era appena tornata a casa, aveva passato l'intera giornata in giro ma, come al solito, senza giungere a nulla. La sua mente era ossessivamente concentrata sulla ricerca di Annabella, la figlia più piccola, sparita nel nulla, ormai da più di un anno. Era stesa sul suo letto con lo sguardo nel vuoto e una bottiglia di birra a doppio malto nella mano destra e non si era preoccupata minimamente di passare a prendere Antonio.

Intanto, nell'appartamento accanto, Roberto giocava con il suo fraterno amico in cucina, fingendosi un alieno in cerca di forme di vita commestibili nella dispensa. Guido era accanto al letto della moglie, con gli occhi lucidi e poca speranza nel cuore. Nell'aria c'era il profumo del ragù, preparto per la cena. Roberto era affamato. Il dondolio, prima leggero e poi sempre più forte, del lampadario della cucina, con dei lunghi cristalli pendenti, produceva un tintinnio sempre più inquietante. Roberto sentì il pavimento sobbalzare sotto i propri piedi, come se fosse animato di vita propria, mentre le pareti crepitavano e l'intonaco si staccava in blocchi sempre più grandi. Grida di terrore rimbombavano tutt'attorno. Roberto trascinò istintivamente per una mano Antonio sotto il tavolo della cucina, si guardarono negli occhi e ci videro la paura, quella primordiale, che percorre ogni singolo muscolo del corpo e lo fa vibrare incontrollato.

Si sentì forte la voce di Guido: «Ragazzi dove siete? Venite qui da noi». Dal tavolo cadde un piatto e si frantumò in mille pezzi. Roberto chiuse gli occhi bagnati di lacrime preparandosi al peggio. Ogni istante sembrava dilatarsi all'infinito e il terremoto sembrava non finire più.

Si sentì un primo crollo, sembrava lontano. Il secondo fu terrificante e rimbombò cupo nel cuore di Roberto. Poi un rumore tremendo coprì anche i pensieri e venne giù tutto l'edificio.

Quando la terra si acquietò, Roberto tossì forte, per cacciar via la tanta polvere che aveva ingerito. A ogni colpo di tosse sentiva un dolore lancinante alle costole. Tutt'intorno era un buio. Le gambe erano bloccate dai detriti e non aveva nemmeno la forza per tentare di muoverle.

Tutt'intorno era silenzio. Roberto fu tentato di abbandonarsi al sonno, uno strano sonno, simile a uno svenimento.

Si iniziarono a sentire dei lamenti, agghiaccianti. Provenivano da più punti. Con il passare dei minuti alcuni si zittirono e altri diventavano ancora più struggenti.

Roberto desiderava solo che la morte arrivasse il più presto possibile, per portarlo via da quel posto infernale.

Iniziò a sentire freddo. Mentre il suo corpo si intorpidiva, la mente si annebbiava. Pregò un'ultima volta, poi smise anche di piangere, ma non di singhiozzare.

Su tutto era tornato un silenzio soffocante e il buio era opprimente. Il suo respiro si fece affannoso.

Sentì qualcuno tossire. Era poco distante da lui. Pensò ad Antonio. Provò a chiamarlo, però dalla sua bocca non uscì alcuna voce. Voleva gridare il nome del suo amico, ma non ci riusciva. Pianse, come non aveva mai fatto nella sua vita.

Era disidratato ed esanime, quando vide una luce. Era abbagliante e soprannaturale. Pensava che fosse la morte, invece fu la salvezza insperata e miracolosa.

Dopo quell'evento, nella vita Roberto, la preghiera fu il sottofondo costante. Consacrò la sua intera esistenza alla preghiera. Rappresentò per lui l'unica vera fonte di conforto e il rifugio sicuro in cui rintanarsi per sfuggire dal mondo.

Ora, però, che Roberto aveva perso la fiducia nel prossimo, sentendosi tradito da Antonio, anche la preghiera gli sembrava inutile.

Già percepiva Dio estremamente distante dalla sua anima, adesso sentiva di averlo perso. Tutto, in realtà, era iniziato il precedente Natale. Era la prima volta che provava a eseguire un rito molto particolare, a cui non era mai stato né preparato né autorizzato. Si era sentito costretto ad agire da una voce, che gli aveva suggerito quando, dove e come compiere ogni singolo atto di quell'assurdo tentativo di esorcismo, consumato in segreto.

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