Parte 19


È appena scesa la sera, ma a causa del maltempo sembra notte fonda. Le strade sono deserte e i lampioni ancora spenti, come anche l'insegna del pub di Adolfo.

L'acqua vien giù dal cielo a secchiate e, nonostante l'impermeabile lungo e l'ombrello, sono zuppo di pioggia: sento l'umidità entrarmi dentro, fino alle ossa.

Mi avvicino al locale, mentre fisso la serranda abbassata mi ritorna nitida nella mente l'immagine di Adolfo in lacrime, che mi abbraccia singhiozzando e poi mi dice: «Ero disperato. Non so come ringraziarti. Antonio sei un angelo».

La mia attenzione è richiamata dal rumore di un carrello del supermercato, trascinato sui sampietrini sconnessi della strada da un barbone con un lungo e consunto cappotto nero, incurante del tremendo temporale.

Attraverso, entro nel vicino bar e assaporo il calore e l'aroma del caffè che impregna l'aria. Al bancone c'è il mio fornitore ufficiale di espressi, un ragazzotto con l'aria stralunata e il viso paffuto.

«Salve, Peppe. Fammi un bel caffè, così mi riprendo un poco.»

«Dottore, che fate in giro con questo tempaccio? Stavo per chiudere, ma per voi sono sempre a disposizione. Dottore, il solito?»

«Sì, dolce come la vendetta. Quante volte ti devo ripetere di non chiamarmi "dottore", ti ricordi il mio nome?»

«Certo, dottor Antonio.»

«Ci rinuncio. Sono qui per parlare con Adolfo, ma il pub è ancora chiuso.»

«Dottore, ma allora non sapete niente? In tutto il quartiere non si parla d'altro.»

«Perché, cosa è successo?»

«Dottore, Adolfo ha una figlia. L'adora talmente che ogni sera, prima di aprire il pub, viene da me a comprare un dolcino al cioccolato per la bambina. Quando, a notte fonda, torna a casa, lo deve lasciare sul comodino della piccola, prima di andare a dormire. Un omone grosso e dall'aspetto minaccioso, ma con un cuore di cioccolata. Una volta non avevo le Teste di Moro, allora...»

«Peppe, non voglio rimanere qui fino a domani mattina, arriva al dunque!» lo interrompo, alzando la voce e fulminandolo con lo sguardo.

«Gli zingari, sono sicuro che sono stati loro. Li vedo sempre girare qui intorno, con la scusa di chiedere l'elemosina. Una volta sono entrati nel bar...»

«Ti prego, non divagare» lo interrompo nuovamente, tenendo a malapena a freno la furia che inizia a divampare dentro di me.

«La figlia di Adolfo, una bambina così carina, si chiama...»

«Peppe, mi stai facendo venire il mal di stomaco» sbotto. «Che diavolo è successo?»

Il barista appoggia una tazzina di caffè bollente sul bancone e fa un sospiro accentuato. «La bambina è scomparsa. Adolfo era andato a prendere la figlia a scuola, era arrivato leggermente in ritardo... qualcuno aveva già portato via la piccola.»

«Cosa?» Sobbalzo, portando le mani al viso.

«Per me, sono stati gli zingari!»

«È successo quello che avrei dovuto evitare. Peppe, non era un sogno! "Il Rosso" quello... Devo parlare subito con Adolfo. Dimmi che sai dove abita.»

«Alla Sanità, proprio di fronte alla chiesa di "San Vincenzo 'O Munacone", non vi potete sbagliare è l'unico palazzo giallo paglierino» farfuglia il barista, preoccupato di vedermi camminare agitato, avanti e indietro come una tigre in gabbia.

«Cosa hai detto? Il palazzo color giallo canarino?»

«No, giallo paglierino: color pipì» dice sorridendo, per sdrammatizzare. «Dottore, dove andate? Il caffè? Un attimo... E che esagerazione! Solo per aver detto pipì...»

Corro all'auto che è parcheggiata a pochi isolati di distanza, devo arrivare il prima possibile.

Entro, metto in moto e accelero lungo la strada deserta. Rallento, passando a un semaforo rosso e, proprio mentre accelero nuovamente, sono costretto a sterzare bruscamente, per evitare un uomo vestito di nero con un carrello del supermercato, che sembra essersi materializzato dal nulla.

L'auto sbanda sull'asfalto bagnato dalla pioggia battente, provo a controsterzare, ma è inutile. Sono diretto contro un grosso lampione. Freno d'istinto, ma è troppo tardi.

Sento lo schianto e l'urto è così violento che mi sbalza fuori dal veicolo.

Precipito sull'asfalto, poi il buio.

Cori angelici mi accolgono tra nubi di un bianco intenso e accecante. Voci armoniose intonano canti di Natale. Sono di nuovo in questo dannato posto, sospeso tra morte e sogno.

Mi sento come una cavia da laboratorio a cui stanno rovistando nel cervello. Monta la collera fino a diventare furore e inizio a strillare. «Ti diverti a giocare con la mia vita? Sono il tuo passatempo? Esci fuori, fatti vedere!»

I canti continuano incuranti.

«Non sono la tua marionetta. Non mi importa se sei una divinità o un demone, non ho paura di te! Sei solo un lurido vigliacco, esci fuori!»

I canti si sono leggermente abbassati di tono.

Mi sento una bomba Molotov in fiamme. «Pezzo di merda. Essere senza palle. Hai paura di affrontarmi?»

I canti si sono trasformati in un brusio indistinto.

«Hai sbagliato a scegliere la tua vittima. Non andrò via di qui! Non voglio risvegliarmi nuovamente nel mio letto, non permetto a nessuno di trattarmi come un pacco da mandare avanti e indietro. Provaci soltanto a riportarmi indietro e io, te lo giuro, mi sparo in bocca e torno qui a romperti la faccia. Decido io del mio destino e non mi piegherò mai a nessuno, nemmeno a Satana in persona.»

«Non sono Satana», risponde una voce risoluta e stizzita, che sembra provenire da un punto imprecisato oltre le nuvole.

«Non mi importa chi diavolo tu sia. Non sono la tua bambola gonfiabile, sfoga le tue frustrazioni su qualcun altro!»

«Zitto! Questo è il ringraziamento per averti salvato la vita innumerevoli volte? Un assassino come te dovrebbe essere consegnato agli inferi... Sono qui per restituirti alla vita e tu invece... Se dipendesse da me, ti fulminerei all'istante.»

«Fallo! Che aspetti.»

Un silenzio innaturale è l'unica risposta che ricevo, mentre attendo una saetta arrivare da una delle nuvole.

«Continui a salvarmi la vita per farmi morire nuovamente. Ti diverti alle mie spalle e io ti dovrei anche ringraziare?»

Tutto tace.

«Sono morto in un incidente per colpa di un dannato barbone, ero morto anche per l'esplosione di una bomba a mano, per colpa di un bastardo più bastardo di te, e forse ero già stato ucciso da un prete invasato che voleva farmi un esorcismo. Mi sembra abbastanza. Perché non mi lasci morire e basta?»

«Non è ancora la tua ora», chiarisce con freddezza la voce. «Accetta il tuo destino!»

«Sono sempre stato un uomo libero e nessuno ha mai deciso per me. Fanculo il destino! Come spieghi, piuttosto, le mie morti?»

«Dio ha "dipinto" la tua vita fin dall'inizio dei tempi, ma purtroppo ci sono stati dei contrattempi.»

«Lo chiami contrattempo morire? Quante volte è successo? Perché dici di avermi salvato la vita innumerevoli volte?»

«Non sono io a tentare di ucciderti, ma Lucifero. Io, al contrario, ogni volta sono dovuto intervenire per riportare tutto a come era stato deciso che fosse. È successo molte più volte di queste tu possa ricordare. Lo spiacevole episodio dell'esorcismo, in particolare, si è ripetuto innumerevoli volte. Come finisce il tuo ricordo di quell'evento?»

«Il prete insisteva, voleva che implorassi pietà e mi sottomettessi, ma io non gli ho dato questa soddisfazione e lui, allora, pensò bene di tumularmi vivo in una cripta di merda.»

«Come inizia, invece, il ricordo che ha dello stesso episodio?»

«Ero tra le nuvole, sembrava il Paradiso, ma poco dopo mi svegliavo in quella maledetta cripta... Avevo già rifiutato di sottomettermi... Mi hai riportato indietro dalla morte, per essere ucciso nuovamente? È la tortura più sadica che si possa immaginare! Ho vissuto quello schifo d'esperienza all'infinito?»

«Quasi all'infinito. Sei stato più testardo di Lucifero: a un certo punto si è dovuto rassegnare e ha cercato un modo diverso per eliminarti.»

«E poi, perché tormentarmi con un esorcismo? Io non ero indemoniato, ne sono sicuro!»

«Tu no, ma lo era il tuo amico Roberto. Seguiva la voce di Lucifero. È stato fuorviato, pensava che si trattasse di un angelo del Signore, non di quello maledetto da Dio. Il Grande Ingannatore voleva farti sottomettere a lui, per avere anche te in suo potere, ma non era nel tuo destino.»

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