Nucleo o non nucleo?


Ragionavo su quanta paura, alcuni di noi, hanno di vivere da soli. Me al primo posto.
Quanta paura abbiamo di non essere inclusi in un nucleo? Eppure, quanto bisogno abbiamo di non esserne compresi?
È impressionante quanto siamo pieni di assurdi, di opposti, di follie mentali nelle quali cadiamo, nelle quali affoghiamo letteralmente.
Perché mai dovremmo avere bisogno di essere compresi in un complesso di persone e perché mai, invece, dovremmo desiderare e necessitare di rimanere soli? Perché, queste due parti di noi, combattono così tanto?
Forse sarò ripetitiva, ma temo che il nocciolo della questione sia sempre nell'affrontare noi stessi. Anche quando diamo tanto peso al concetto degli altri alla fine succede perché noi stessi siamo troppo fragili da contrastarlo. Succede, partiamo e lo affrontiamo.
Eppure c'è sempre quel senso di smarrimento, sia quando abbiamo certezze che quando non ne abbiamo, sia che siamo soli sia che siamo in compagnia.
Ah, giusto, sì: c'è casino in tutte queste parole, non mi aspetto di essere seguita. È che è la legge degli opposti, no? Non quella dove si dice che gli opposti si attraggono, ma quella dove dicono che, con la giusta dose di accettazione, essi possano coesistere.
La coesistenza degli opposti è solo un altro pezzo della nostra battaglia, una delle tante da vincere per arrivare in fondo alla guerra. Magari sbaglio a vedere il proprio cammino così tortuoso e complesso, o magari no. Ma dar spazio ad entrambi, al bianco e al nero, al rapace minaccioso ed al pulcino innocente, non mi è mai sembrata una cattiva idea. Come quando ci incazziamo a morte per qualcosa, dovremmo partire tutti avventandoci brutalmente sul capro espiatorio di quella rabbia, eppure il lato bianco di noi riesce a tenerci a bada, a darci un equilibrio.
Ed allora mi chiedo che cosa io ci faccia ancora qua, a temere per il mio futuro, ad aver paura di fare una valigia ed andarmene, trasferirmi... lo voglio come voglio poche altre cose nella mia vita, eppure sono qua. Sono qua perché ho degli affetti ai quali non so dire di no. Perché quando voglio troppo bene, talvolta, divento "succube", mi sento quasi asservita alla paura di quel senso di colpa che non sarei in grado di provare. Perché l'ho già fatto, me ne sono già andata una volta ed ora, purtroppo in ritardo, so quanto male io abbia provocato ai miei cari. Non voglio ripetermi, non voglio ferire, né abbandonare nessuno.
Ma voglio rifarlo. Voglio sentirmi come un corvo nero che spiega le sue ali, nel buio di un bosco fitto, squarciando l'aria con la sua maestosità, con il fascino di chi ha il coraggio di affrontare tutto, con la voce di chi sa chi è.
Forse, come al solito, la differenza sta nella motivazione: una volta scappi, una volta insegui, una volta cresci,  una volta ti illudi.
Onestamente non ho la più pallida idea di ciò che ne sarà di me, ma non riesco a fare a meno di immaginarmi da sola, altrove, con me e me stessa sola;  scoprire strade e scorciatoie, individui e gruppi, agglomerati di persone che vivono diversamente da me, impiegati o universitari, giovani o vecchi.
Ma ne ho follemente paura. Ho paura di star sola, ho paura del mio cervello, della mia emotività, della mia sensibilità. Ho paura di essere fragile, di crollare e sbucciarmi le ginocchia e il cuore un'altra volta. Ho paura di legarmi troppo o per nulla. Ho paura di non voler tornare a casa, di infrangere quella promessa dei "sei mesi" ipotetica.  Come ho paura di voler tornare indietro dopo appena 12 ore.
Ho più paure che convinzioni, eppure lo farei.
Ho meno convinzioni che paure, per questo non lo farei.

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