Sonata per cello. Solo così puoi sentirla...
La scordatura, l'abbassare le corde di do e sol di un semitono, era sempre un'operazione complessa per Niccolò Sarti, ma l'Allegro molto vivace dell'op. 8 di Zoltàn Kodàly era una delle sonate che più amava eseguire; forse solo la Suite n.1 di Bach gli dava la stessa emozione.
L'estensione a cinque ottave, i virtuosismi, le scale e i crescendo rendevano il movimento estremamente ricco. Ti trasportava su una giostra che girava mirabolante, e se a un certo punto sembrava che si fosse fermata, era solo perché le propagazioni del suono erano troppo flebili per essere udite. Fingevano una pausa mentre silenziose proseguivano il loro canto e in uno scoppio poi riprendevano vigore. Il movimento sembrava potesse continuare all'infinito, con i suoi scherzi e le riprese a velocità diverse, imprevedibili come destrieri imbizzarriti che il compositore non aveva voluto domare. Poi però, con un do placido, vibrante dopo virtuosi arpeggi, la giostra smetteva di girare, i destrieri venivano domati e tutto finiva. Anche se ci si aspettava una ripresa a sorpresa, che però non arrivava più.
Niccolò abbassò l'archetto con un sospiro soddisfatto. Pochi musicisti al mondo erano capaci di suonare quel pezzo come lo faceva lui. Peccato che gli zotici là fuori comprendessero poco il suo ineguagliabile talento, e ormai gli arrivassero solo ingaggi a basso costo a casa di borghesi arricchiti. Non che ultimamente anche quelle umilianti proposte lavorative abbondassero!
Si era infatti sparsa la voce che lui facesse storie sui compensi e che si lamentasse del pubblico ignorante, così avevano iniziato a rivolgersi a musicisti di minor talento ma di bocca buona.
Poco male, pensò, scostandosi un ricciolo castano dalla fronte spaziosa, lui era sprecato per un pubblico così!
L'occhio glauco gli cadde poi sulla misera stanzetta che occupava alla pensione Del Borghetto. I risparmi erano ridotti all'osso e non poteva permettersi altro.
Si alzò di scatto dalla sedia tarlata, su cui era seduto, e andò verso l'angusto armadio accostato al letto in ferro battuto per riporre il violoncello nella custodia usurata. Eseguì l'operazione con scrupolosa attenzione. Che vita grama quella dell'artista, sempre in balia degli umori altrui, ma sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe dimostrato a tutti il suo talento, ne era certo!
Un leggero bussare alla porta della stanza, lo distrasse dai cupi pensieri che gli agitavano la mente.
Si trovò davanti una graziosa fanciulla dai capelli rossi e il viso tondo ricoperto di efelidi, Grazia, la figlia del proprietario della pensione. Con lo sguardo puntato sui propri piedi e le gote imporporate, lei gli porse una lettera.
"L'hanno appena portata per voi, Signore... " gli disse, un attimo prima di fuggire nel corridoio.
Niccolò si rinchiuse la porta alle spalle con l'ennesimo sospiro della giornata. Questa volta era dovuto al bizzarro comportamento della ragazza, che spesso sorprendeva a guardarlo di sottecchi, le volte in cui pranzava alla locanda, gestita anch'essa dai genitori di lei. Non che ultimamente ci fosse andato spesso, le ristrettezze economiche in cui versava lo costringevano spesso a saltare i pasti.
Guardò con curiosità l'elegante busta, dal considerevole peso, che teneva stretta in mano. La girò per leggere il nome del mittente, ma scopri stranito che non c'era. Per un attimo pensò si trattasse dell'ennesimo scherzo dei suoi colleghi, che approfittavano di ogni occasione per sbeffeggiarlo, ma la busta era estremamente elegante e il sigillo di ceralacca intonso aveva un certo stile. Quei cafoni non potevano permettersi di certo tali pregiati materiali.
Aprì la busta con accortezza, tolse prima il foglio in carta di riso, ignorando per il momento gli altri spessi fogli, che avevano tutta l'aria di essere una partitura.
La missiva recava la data di quel giorno, 1 ottobre, 1926. Il misterioso mittente gli commissionava l'esecuzione di una sonata per cello, quella dello spartito che accompagnava la lettera, per il 31 ottobre al Teatro degli Ospedalieri.
Niccolò strabuzzò gli occhi quando lesse il compenso, diecimila lire. Una cifra come quella non l'aveva mai guadagnata in tutta la sua vita.
Guardò di nuovo con sospetto la busta, forse era davvero uno scherzo, pensò.
Poi continuò la lettura. La sua risposta doveva pervenire entro il 4 ottobre, giorno in cui avrebbe dovuto lasciare una missiva sotto il portale principale del teatro. Se non avesse accettato, non avrebbe mai più trovato lavoro. Sussultò quando lesse la poco velata minaccia, gli sembrava estremamente seria, perché lui sapeva e voleva fare una sola cosa nella vita: suonare il violoncello.
Intanto si decise a dare un'occhiata allo spartito. Tolse il secondo plico dalla busta e lo spiegò sul letto, non possedendo neanche un tavolinetto o un secrétaire. Appena cominciò a scorrere le note con gli occhi, questi si riempirono di meraviglia. Si trattava di una Sonata per cello in sol minore in 4 movimenti: il primo, un Allegro moderato, aveva dei toni drammatici e tormentati; il secondo, un Adagio di grande espressività; il terzo, Largo, dall'atmosfera nostalgica, un notturno; e infine il quarto movimento, un Finale-Allegro con passaggi intensi, vigorosi e abbondanti virtuosismi.
Alzò gli occhi cerulei dallo spartito, voleva subito provare a suonare, a una prima lettura gli sembrava una sonata straordinaria. Chissà chi era l'autore, si domandò. Sicuramente un compositore di notevole talento! Nonostante le titubanze, dovute al misterioso committente e alla strana modalità di ingaggio, era esaltato dalla prospettiva di essere il primo a eseguire quella sonata, oltre che dal guadagno.
Si impose di calmarsi, non voleva agire frettolosamente e poi pentirsene. Per prima cosa doveva andare a vedere dov'era questo Teatro degli Ospedalieri, che lui non aveva mai sentito nominare, nonostante Pisa non fosse una grande città.
Prese il soprabito, ormai liso, e uscì dalla pensione come se avesse il diavolo alle calcagna.
Dette un'altra occhiata alla lettera, che stringeva nervosamente in mano, l'indirizzo indicato non era lontano da dove si trovava lui. Chiese informazioni a un anziano signore con la pipa, che portava a spasso un cane dall'aria truce e che appena lo vide avvicinarsi gli abbaiò contro. Non aveva mai avuto un buon feeling neanche con gli animali!
L'uomo sembrava confuso, gli disse che non c'era nessun teatro da quelle parti, ma gli indicò comunque la strada scritta sulla lettera.
Dopo aver imboccato un paio di vicoli sbagliati, - non aveva mai avuto un gran senso dell'orientamento -, si ritrovò davanti a uno spiazzo largo, al centro del quale spiccava una struttura antica e imponente, ma fatiscente. Era un blocco composto da due edifici. Uno dei due aveva una facciata in pietra levigata ed era articolata da tre portali e da cinque arcate cieche divise da lesene e includenti losanghe e oculi, tipico stile del XII secolo. Unito a questo corpo, c'era un edificio più grande, che si sviluppava in lunghezza, adornato solo da finestrelle e dall'aria ancora più antica e mal messa.
Sembravano due strutture diverse ma unite, anche perché il secondo edificio non aveva entrate.
Niccolò fece il giro per assicurarsene. Niente. Notò solo i fianchi e il retro in pietra sbozzata e decorati da archetti sottotetti e da bacini ceramici islamici, gli stessi del campanile, con cui terminava quella che aveva tutta l'aria di essere stata una chiesa.
Mentre continuava a studiare quel luogo, si accorse di un foglio ingiallito attaccato al portale di destra. Vi era vergata a mano, nella stessa grafia elegante della lettera, la storia del teatro.
La prima parte a essere costruita era stato il lungo casermone, che risaliva al secolo XI con la funzione di hospitale, ma nel 1350, dopo la grande epidemia di peste, che provocò moltissimi morti in città e nel mondo, fu chiuso.
La parte più piccola, che sembrava una chiesa, risaliva, come aveva immaginato, al XII secolo ed era stata per un po'di tempo una cappella e poi, con la chiusura dell'hospitale, abbandonata.
Molti secoli dopo era diventato un luogo di culto del cristianesimo scientista. Lì per lì quel nome non gli suggeriva niente, poi fu colto da un'illuminazione. Ma certo era il movimento religioso cristiano metafisico fondato dall'americana Mary Baker Eddy, quella secondo cui l'uomo è solo spirito, e il male un'illusione che non ha base reale!
Continuando nella lettura scoprì, con un certo raccapriccio, che anche quella destinazione era stata abbandonata, dopo che un paio di membri erano stati trovati assassinati e mutilati nel campanile. Un brivido gli percorse la schiena. Meno male che il male non esisteva, secondo questi credenti!
Nel 1910 era diventato un asilo per orfani, e qui non si faceva cenno al motivo per cui avesse smesso di esserlo dopo pochi anni. Per fortuna, pensò, non aveva voglia di leggere altre notizie raccapriccianti.
L'ultima destinazione invece era stata quella di teatro prevalentemente dialettale.
Le informazioni terminavano bruscamente così. Ma già da quello che aveva letto, era chiaro che quel posto non era adatto all'esibizione di un musicista del suo calibro.
Sbuffando per il fastidio, fece marcia indietro e ritornò alla pensione. Si sbatté la porta della stanza alle spalle, arrabbiato con sé stesso per aver creduto a quella bislacca proposta lavorativa. Lui non avrebbe suonato dentro quel rudere inquietante!
Lo stomaco cominciò a brontolare per la fame, l'ora del pranzo era passata da un pezzo e lui non aveva soldi da spendere per un pasto decente. Si sarebbe dovuto accontentare del solito tozzo di pane e della minestra avanzata che gli elargiva generosamente il proprietario della locanda.
Il giorno dopo si svegliò di umore nero e con i soliti problemi economici ad assillarlo. La sera prima aveva ricevuto la visita alquanto sgradita dei creditori. Non c'era altra soluzione se non quella di accettare il lavoro. Erano mesi che nessuno gliene offriva uno. Le malelingue avevano sparso la voce che lui fosse un carattere difficile per più di un motivo.
La minaccia contenuta nella lettera, nel caso non avesse accettato il lavoro, inoltre lo impensieriva ancora di più.
Tirò fuori dall'armadio il violoncello, mise lo spartito sullo sgangherato leggio, - forse era giunta l'ora di comprarne uno nuovo, se solo avesse avuto i soldi! -, si sedette sulla sedia tarlata, accordò lo strumento e fece scorrere l'arco sulla corda. Niente. Nessun suono. Riprovò e riprovò, ma dallo strumento non scaturiva alcunché. Frustrato si alzò in piedi e si mise a passeggiare nervosamente per la stanzetta, dopo essersi calmato, si risedette e riprovò. Inutilmente.
Forse c'era qualcosa che non andava nel suo cello. Cambiò spartito, provò a suonare la suite di Bach e le note riempirono la stanza. Provò altri pezzi, da Debussy a Saint-Sains, da Schubert a Beethoven. Le notte di tutti quei capolavori fluivano dal suo strumento come sempre. Gli sembrava di impazzire. Perché quelle maledette note non volevano uscire?
Per la prima volta nella sua vita, non si preoccupò di riporre con cura il violoncello nella custodia, ma la lasciò stizzito accanto alla sedia e uscì di casa.
Per tutto il mese andò avanti quella stranezza, tanto che divenne un rituale. Prendeva il violoncello e provava a suonare lo spartito, ma dalle corde non usciva neanche un flebile suono, poi provava altri pezzi e questi non gli davano problemi. Aveva studiato lo spartito in ogni suo aspetto, eppure a occhio non c'era niente che non andasse.
Riusciva a solfeggiarlo senza alcuna difficoltà.
A metà mese aveva tentato la carta del cambio dello strumento recandosi in un negozio di strumenti musicali e chiedendo, con la scusa di essere interessato all'acquisto, un altro violoncello. Non c'era stato niente da fare, anche con uno diverso, il risultato era stato identico. Le note continuavano a essere mute.
Aspettò l'arrivo del 31 ottobre come un condannato a morte. Non sapeva come tirarsi fuori da quella storia; c'era qualcosa nella minaccia contenuta nella lettera, che lo inquietava oltremodo. E da quando aveva dato la risposta affermativa all'ingaggio, sentiva un peso gravargli sul petto.
Gino, il proprietario della pensione, verso l'ora di pranzo lo chiamò per consegnargli un grosso pacco. Con sgomento riconobbe la solita scrittura elegante sul bigliettino di accompagnamento, la stessa della lettera.
Aprì l'involucro con mani febbrili. L'elegante frac bianco, con scarpe e cappello abbinati, lo lasciò stupefatto. Stette a fissarlo come imbambolato.
***
La sera si presentava piovigginosa e le nuvole rendevano difficoltoso scorgere la luna e le stelle; anche la luce dei lampioni sembrava come appannata da una sorta di caligine, che era scesa sulla città.
Una lussuosa Leyland Eight, completamente bianca, lo aspettava fuori dalla pensione. Lo sportello del guidatore era aperto e sembrava aspettare lui, che, dopo aver sistemato la custodia con il violoncello sull'altro sedile, si sedette al volante. Non senza una certa apprensione mise in moto.
Il teatro era come se lo ricordava, fatiscente e diroccato. Gli venne da ridere istericamente pensando al suo abbigliamento elegante. Parcheggiò l'auto sul retro e mestamente entrò dal portale laterale di sinistra, che era spalancato. Quello centrale era chiuso e non si vedeva anima viva. Tanto meglio, pensò, così nessuno avrebbero assistito alla figuraccia che avrebbe fatto quando avrebbe confessato, di lì a poco, che non riusciva a suonare lo spartito.
Una volta entrato, la meraviglia si dipinse sul suo volto rendendosi conto che sia lo spazio per il pubblico che quello scenico, formato da un palco e dallo sfondo, erano in perfette condizioni.
Si affrettò, con animo un po' più leggero, a raggiungere il retropalco.
Sentì un rumore di passi dietro di lui, si girò ma non vide nessuno. Probabilmente un macchinista o un inserviente, pensò.
All'improvviso un colpo al cuore gli mozzo il respiro per un attimo. Sperò non fosse il principio di un infarto; va bene che molti musicisti famosi, come Schubert per esempio, erano morti giovanissimi, ma lui aveva trent'anni e godeva di ottima salute. È solo l'emozione!, pensò. Pian piano il dolore al petto infatti sparì e una sorta di torpore confortante lo avvolse.
Un cigolio lo avvertì che il sipario stava per alzarsi. Si mise in posizione, mentre di sottecchi dava un'occhiata alla platea, che scoprì essere gremita da un pubblico elegantissimo, ma mascherato.
Tutte le facce erano coperte da maschere di animali molto realistiche. C'era in particolare una donna con il volto da civetta e la testa piegata nella posizione tipica di un rapace notturno, che lo inquietava oltremodo.
Deglutì e si sedette sulla sedia, posizionando il violoncello nel suo abbraccio. Guardò per l'ultima volta in platea, poi mosse l'archetto. La prima nota ruppe il silenzio irreale della sala. E poi uno dopo l'altro i suoni intensi, ricchi e pastosi, proprio come aveva immaginato, riempirono il teatro.
Il pubblico sembrava rapito e quando l'ultima nota del Finale-Allegro terminò fu accolto da applausi scroscianti.
Si alzò in piedi per ringraziare, ma abbassando la testa notò la camicia e il frac inzuppati di sangue. Si portò la mano al petto e la ritirò completamente rossa. Quando si era ferito, si chiese.
Il pubblico intanto aveva smesso di applaudire e si stava togliendo le maschere. Visi traslucidi dalle orbite vuote lo fissavano con un ghigno soddisfatto. La donna, che prima indossava la maschera da civetta, gli porse una mano scheletrica, che si stava pian piano rivestendo di carne e sangue, invitandolo a seguirla.
"Vieni, fratello, danza con noi e festeggia la tua entrata nel mondo dei morti, che ora hanno finalmente trovato il loro musicista. Non sai per quanto tempo ne abbiamo aspettato uno con il tuo talento, in grado di regalarci una notte da passare ancora come esseri di carne e sangue."
E mentre la donna tornava all'antico splendore di quando era in vita, Niccolò guardò gli altri morti, che continuavano a fare cenni di ringraziamento e a guardarlo con ammirazione; allora prese la mano della donna e pensò che in fondo la morte non era una brutta cosa se poteva contare su un così grande numero di ammiratori.
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