Capitolo 20

Mi sveglio e cado dal letto.

Sbatto violentemente il gomito contro il comodino, urlando qualcosa che coinvolge tutti gli dei e i santi del cielo.

Sono le due di pomeriggio. È domenica e ho il week end libero, perché il bar è chiuso per queste due settimane. È la settimana prima di Pasqua, e come di consueto chiudiamo oggi e riapriamo il giorno dopo pasquetta.

Ho fatto un incubo terribile, di cui non ricordo assolutamente niente. So solo che mi ha spaventata a morte.

Il dolore al braccio è passato. Meglio così, adesso posso alzarmi dal pavimento e aprire le finestre per vedere... Nebbia. Ma non è possibile, dai. Che palle!

Mi passo le mani sulla faccia.

Oddio. È davvero domenica. Tra due ore mi vedo con Jack.

Sto sudando freddo. Andrò a quell' "appuntamento" misterioso che mi ha tenuto sulle spine per tre giorni.

Uno strano flash mi passa per la testa. Un pensiero inquietante mi attraversa l'anima, anche se non riesco pienamente a definirlo. Mentre provo a capire qualcosa, mi autocompatisco in silenzio.

Mi siedo sul pavimento e mi passo la mano tra i capelli.

Quando capisco quello che sto provando, scoppio a ridere. È puro terrore.

Mi sdraio sul parquet a pancia in giù e poggio la guancia per terra. Fisso la porta. La mia mente corre mentre vedo un paio di gambe che entrano in camera mia.

-Teresa, ma che cazzo stai facendo?

Sento la voce di Tom. Sembra profondamente turbato.

Rotolo lentamente verso di lui.

-Quando sono nervosa rotolo per terra.

Lo guardo in faccia. È tipo "Okay, ma adesso alzati".

-No che non mi alzo-, dico a voce alta.

-Va bene... Se hai bisogno di chiamare uno psichiatra fammi un fischio.

Detto questo, mi fa un gesto con la mano ed esce dalla stanza.

Non sarebbe una cattiva idea. Mi spiegherebbe la causa quel terrore irrazionale che sto provando.

Per adesso ho solo una cosa in testa.

"Come mi vesto?"

Mi alzo determinata a trovare qualcosa di decente nell'armadio.

Ho una mezza idea solo sui pantaloni, ma quando vedo la camicia bianca mi parte l'ispirazione.

Un ora e quaranta minuti dopo, sono sdraiata sul letto ancora sfatto. Indosso i leggings neri e una camicia bianca larga sotto e stretta sopra. È una delle mie preferite. Proprio per questo non me la metto mai. Come scarpe, ho optato per la banalità. Evviva i Doc Martens! Non so come farei senza. Quanta commercialitá...

Va beh.

I capelli sono sciolti. Non mi andava di fare una bella acconciatura (ci ho messo un ora e mezza solo per farmi la doccia), è già un miracolo che sia riuscita a trovare una schiuma in grado di non farli gonfiare con l'umidità.

Il tempo è migliorato. Ora è solo nuvoloso. Si intravede uno spiraglio di sole.

Il mio nervosismo è alle stelle. Dove andremo? Cosa faremo?

Socchiudo gli occhi perché alcuni miei pensieri mi turbano.

Mi alzo di scatto dal letto e comincio a camminare avanti e indietro.

Mi abbottono il primo bottone della camicetta, che non è neanche troppo accollata: infatti ha una scollatura rotonda, che mi piace tantissimo.

Scelgo un foulard bianco e nero da legare intorno al collo.

Ora sì che mi sento pronta.

Scherzavo, non mi sento pronta per nien...

Occristo. È suonato il campanello.

Scendo le scale, e mentre nervosa mi tiro giù la camicia (sembra sempre troppo corta, cacchio), apro piano la porta.

Sulla soglia, Jack.

-Ciao-, dice, come al solito, con quel tono che sembra quasi superficiale.

-Ciao-, mormoro.

Lo guardo bene. Indossa i pantaloni kaki, una maglietta bianca e una felpa grigio scuro.

Oddio.

"Staccagli gli occhi dai pantaloni, staccagli gli occhi da quei pantaloni..."

-Quindi-, parla lui, distogliendo la mia mente da strani giri.

Arrossisco, ma mi nascondo tra i miei capelli.

-Sei pronta ad andare?-, mi fa, tutto pimpante.

-Sì...?-, rispondo, anche se non ho capito del tutto quello che ha chiesto.

"Stai in campana!"

-Sì-, rispondo determinata, e fisso gli occhi nei suoi.

Forse avrei fatto meglio a tenerli in basso, anche perché il suo viso è una distrazione ancora peggiore.

"Ma allora spiegami", mi chiede il mio subconscio innervosito.

"Dove dovresti guardare?"

Eh. Bella domanda.

Urlo: -Ciao Tom-, e mentre sento un "Ciao" da parte sua, chiudo la porta e mi sposto una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

Il clima è davvero piacevole, anche se non è soleggiato. Un lieve venticello accarezza gli alberi, dotandoli di un movimento sinuoso ed elegante.

Se mi perdo a pensare ai movimenti degli alberi, vuol dire che sono proprio messa male.

Mi giro verso Jack. Ha un'espressione adorabile dipinta in viso, sembra quasi un bambino, con quegli occhioni e l'aria un po' dispersa. Chissà perché, poi.

Lo abbraccio di slancio.

-Ehi-, mi sussurra, quasi sorpreso, mentre mi stringe contro di sè.

-Ehi-, gli dico contro il petto.

Inspiro quel profumo rassicurante e invitante. Restiamo così per un po', finché non mi decido ad alzare la testa e chiedergli: -Dove andiamo?

Jack sorride e rimango quasi senza fiato, perché è un sorriso dolce e trasparente. Diverso da quelli scherzosi o provocanti che fa di solito.

-Volevo farti sentire una cosa-, mi dice, -ma dovrai seguirmi nella mia umile dimora.

Cioè a casa sua. Mmh.

Prima che possa trarre una qualunque conclusione, Jack mi bacia la fronte e scioglie l'abbraccio. Dopodiché mi prende per mano e mi conduce alla sua auto.

"Mi resta solo la fiducia. Mi fido?"

Lo guardo.

"Certo."

Lo seguo.

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