Capitolo 2
La sveglia sta suonando con un'insistenza e una ferocia tali da ferire i miei sentimenti.
Sono le 6.30. Sì, mi sveglio a quest'ora perché ho le lezioni alle 8. Sono stanca. Come sempre.
Mi vado a lavare la faccia. L'acqua gelata non serve a niente, quindi, ancora bagnata, mi dirigo in camera e cerco dei vestiti da mettermi.
Trovo una maglietta che ho rubato a Tom un po' di tempo fa, larghissima e completamente grigia. Faccio un paio di risvolti alle maniche e indosso i pantaloni neri strappati e le dr Martens.
Probabilmente sono meno femminile del resto della popolazione mondiale, ma ho sempre avuto questo stile e non ho intenzione di cambiarlo tanto meno per assomigliare a quelle oche in tiro che girano per la mia scuola.
Non mi trucco. Non ne ho voglia. Metto solo un po' in ordine I capelli e butto il pigiama sul letto. Ci penserò più tardi.
Preparo lo zaino e vado di sotto. Sono le 6.47. Ok, niente colazione. Acciuffo gli spiccioli sul bancone perché probabilmente più tardi comprerò un caffè ed esco di casa con le cuffie nelle orecchie.
Sospiro. Inizia un'altra giornata di scuola. Ho la felicità sotto i piedi.
L'ultimo anno della facoltà di Farmacia fa schifo. Oltre alle mille pressioni degli esami, c'è l'attesa della nostalgia (Strano eh) che si proverà alla fine. Non posso spiegarlo bene, mi capite solo se siete nella mia situazione.
Sta di fatto che, io, povera 23 enne indifesa (ho 23 anni perché all'asilo ho saltato un anno, in teoria dovrei averne 24), che si alza tutte le mattine alle sei per andare a studiare, tra meno di tre mesi sosterrò l'esame finale. Ho qualcosa dentro... ah sì, si chiama disperazione.
Raggiungo la fermata dell'autobus del paese poco prima di perdere la corriera e salgo.
Come al solito, ci sono Catia e Sofia sedute vicine che mi hanno tenuto i due posti dietro di loro. Voglio stare da sola alla mattina, perché la maggior parte delle volte o sono stressata o stanca o triste. Tutte le altre volte devo studiare e ho bisogno di concentrarmi.
Le saluto, parliamo per un po' e poi riattacco le cuffie e appoggio la testa al finestrino, perdendomi nei miei pensieri con la musica dei Linkin Park nelle orecchie.
**
Il viaggio è durato poco meno di un'ora, come al solito. Sempre la solita strada, ma continuo a sorprendermi di fronte al fatto che in macchina ci si mette mezz'ora, in corriera quasi il doppio. Sono più stanca di prima. Che palle.
Scendo dell'autobus, sembro una depressa, ma per ora non m'importa. Voglio solo un caffè.
Per il momento ignoro tutti (tanto Catia e Sofia lo sanno che è così tutte le volte), entro a scuola con ancora le cuffie al massimo e arrivo davanti alla macchinetta delle bevande.
Un caffè senza zucchero.
Mi volto per vedere se in fila dietro di me c'è qualcuno, e c'è. Credo di aver preso una specie di infarto per lo spavento, mentre mi giro e vedo che lì c'è un ragazzo, e che gli sto praticamente per andare addosso.
Mi strappo le cuffie di dosso e dico: -Scusa, non ti avevo visto-, con un tono un po' imbarazzato e un po' indifferente.
-Non ti preoccupare. Ah, il tuo caffè è pronto-, dice.
Alzo la testa. È il tipo delle pizze.
Ci metto un po' a realizzare. -Ma tu-, inizio, allontanandomi e indicandolo.
-Sei il tipo delle pizze-, con il mio tono di voce stupito, imito perfettamente i miei pensieri.
E non sono sorpresa perché è il fattorino (ci può anche stare, io ad esempio per pagarmi gli studi faccio la barista), ma perché probabilmente è l'unica persona nuova del campus che è arrivata tre mesi prima dell'ultimo esame.
-Sì-, dice lui, con un'espressione come la mia addosso, -e tu sei quella che mi ha dato i due euro di mancia.
Esatto. Che memoria.
-Già. Ma che corso segui?-, chiedo curiosa, dato che non lo avevo mai visto nei paraggi.
-Pedagogia-, risponde senza esitazioni, con tono sicuro.
-Tu?
-Mh. Medicina Farmaceutica.
Mi giro a prendere il caffè. È caldo. Bene.
-Qual è il tuo nome?-, mi chiede, mentre inizio a incamminarmi verso l'aula.
-Uh? Ah, Teresa-, dico, scuotendo la testa. Devo riordinare le idee.
-E il tuo?-, domando per gentilezza. Voglio il caffè.
-Jack.
-Diminutivo di Giacomo?-, chiedo incuriosita. Non ho mai sentito dei Jack in città.
-No. Solo Jack.-, risponde serio.
Capisco. Dev'essere un inglese. Anche se non si sente l'accento.
Mentre cammino verso l'aula sorseggiando il mio caffè, mi sento osservata. Mh. Dirò a Tommaso di ordinare una pizza stasera.
**
Esco.
È finita. L'ho passato. Vorrei festeggiare con Catia, ma ha lezione fino alle 2 e io voglio andare a casa. Mi siedo. Spero che oggi l'autobus non faccia tardi come al solito.
Metto le cuffie e alzo il volume. Mi guardo intorno. È tutto vuoto, perché a mezzogiorno non c'è quasi nessuno.
Fisso il centro della strada per circa cinque minuti, quando vedo una figura che passa e mi distrae.
Mi concentro e vedo che è il tipo delle pizze. Non lo saluto, lo guardo soltanto camminare, mentre lentamente si va a sedere dalla parte opposta della strada.
Lui sta lì, fermo, e guarda il cellulare. Perché lo sto fissando?
Mi metto a cercare qualcosa sul telefono e intanto cambio canzone. Metto i Nirvana e mi concentro sul pezzo.
Dopo un po' alzo la testa e lo guardo. Mi sta guardando. Mi alzo in piedi e vedo se sta arrivando l'autobus.
Oh bene, è qui. Lo aspetto, controllando l'orologio. 12.07. Perfetto.
Appena si ferma, salgo e convalido.
Mentre partiamo, guardo dal finestrino alla mia destra. Jack è ancora lì. Mi sta guardando. Mi siedo.
Appoggio la testa al finestrino e guardo dritto avanti, lasciandomi intrappolare dal vortice dei miei pensieri.
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