2. Simone
In un anno cambiano tante cose. Alcune persone se ne vanno, per esempio. Altre entrano nella tua vita. Si può perdere qualcosa, guadagnare qualcosa, fare passi avanti e passi indietro.
Filippo l’aveva abbandonato, e in quel momento aveva un inciucio senza impegno con Carmela, una compagna di corso. Non aveva più la milza, si era dovuto imbottire di vaccini per quello, ma quel giorno sarebbe diventato un dottore.
Era passato un anno esatto da quel giorno, perché la vita a volte era così. Il giorno della sua laurea era anche l’anniversario del giorno che aveva perso il suo segreto, un organo interno non vitale, e la persona che era convinto di amare.
Aveva provato a chiamare Filippo, quando si era svegliato, ma lui era stato del tutto irreperibile. Aveva cercato di contattarlo dappertutto, non sapeva neanche come stesse, non si era accorto di cosa gli avessero fatto mentre lui era incosciente, ma non c’era stato modo, aveva persino smesso di giocare.
Sapeva che aveva mantenuto i contatti con Sara, la sua collega che era con loro nel server, ma per quanto lui chiedesse non si scuciva mai, e alla fine si era stancato di indagare ed era andato… avanti, più o meno. Più meno che più.
Così si presentò in facoltà all’aula magna con l’abito che lo faceva sudare sette camicie, si sarebbe tolto la giacca dopo la proclamazione, quando fosse uscito in strada. Anche Sara si sarebbe laureata quel giorno, avevano dato l’ultimo esame insieme, eppure non ci aveva proprio pensato, tutto si era aspettato meno che–
«Ciao.»
Strana voce familiare. Si voltò con la fronte aggrottata, impensierito nel tentativo di riconoscerla, e quando lo vide rimase di sasso.
Lui era là. Si era fatto la barba, era in camicia, sembrava tanto sconvolto di averlo trovato lì quanto lui, e per un attimo pensò di distogliere lo sguardo e continuare a camminare senza salutarlo.
Non lo fece.
«We.»
«Anche… anche tu qui?»
Alzò un sopracciglio cercando di mantenere un’espressione neutrale. Era così incazzato, e Filippo così bello, e voleva tanto dargli un pugno e abbracciarlo più forte che poteva, e ridergli in faccia e iniziare a singhiozzare, Cristo, quanto gli era mancato. «Sai com’è, mi laureo.»
«Oh… Sara non me l’ha detto. In bocca al lupo.»
«Crepi.»
«Nervoso?»
«Il giusto.»
«Andrai benissimo. Come… come stai?»
Quella domanda sì che gli fece venire da ridere. Perché chiedere una cosa di cui non gli importava niente? Se gli fosse importato qualcosa l’avrebbe contattato molto prima. Se gli fosse importato qualcosa non sarebbe scappato prima ancora che aprisse gli occhi su un letto d’ospedale. «Sto una favola, non si vede?» rispose, poi senza aspettare che aggiungesse altro corse via a cercare sua madre. Sua madre che non avrebbe proprio dovuto vederlo, tra l’altro. Se l’avesse notato se lo sarebbe mangiato vivo e non sarebbe stato un bello spettacolo.
Un conto era scoprire che il proprio figlio era bisessuale beccandolo in camera col fidanzato; un conto era scoprirlo con una chiamata della polizia di primo mattino, l’esportazione completa della milza, e il suddetto figlio in lacrime perché il fidanzato che l’aveva convinto con una certa insistenza a baciarlo se l’era appena data a gambe senza guardarsi più indietro.
Non che gliel’avesse raccontata proprio così. Non le aveva detto che era stato Filippo a insistere per quelle effusioni in pubblico, ma il fatto che fosse scappato senza nemmeno aspettare che si svegliasse era bastato.
Maledetta Sara, cosa le era saltato in mente di invitarlo? Con tutto quello a cui aveva da pensare ci mancava solo incontrare lo stronzo, proprio quel giorno. E che faccia da culo a chiedergli come stava! E che faccia da culo sul serio, con quell’aria contrita e mortificata e mannaggia a lui l’avrebbe preso a sberle e coperto di baci e fanculo, perché doveva essere così stupido?
Il collega che aveva accanto gli diede una gomitata, lui sobbalzò.
«Montella Simone? È assente?»
Figura di merda, si era distratto proprio quando toccava a lui, tipico.
Si alzò e si allisciò i pantaloni con entrambe le mani.
Poteva farcela.
Sapeva di poterlo fare. La discussione della tesi era solo una formalità, lui aveva una media del ventotto punto sette, c’era una buona probabilità che se ne uscisse da quella stanza con la lode, e non ce n’era nessuna che lo facesse senza una corona d’alloro sulla testa.
Si avvicinò al tavolo col relatore e il resto della commissione, e notò che la prima diapositiva era già partita sul proiettore.
Lo sciamanesimo nell’Asia Centrale.
Sì, l’argomento gli piaceva, era stato lui a concordarlo con la docente di Storia dell’estremo oriente.
Prese posto. «Ciao a tutti. Allora–»
Andò avanti alla prima vera dispositiva dopo quella di copertina. Le aveva fatte lui stesso su Canva, erano carine, o almeno lui pensava di sì.
Poi alzò gli occhi per iniziare a parlare, e lo trovò.
Era normale che lo stesse fissando. Del resto, qualsiasi altra persona in quella stanza lo stava facendo. Era l’unico in piedi, tanto per cominciare, e stava per iniziare a discutere la sua tesi, motivo per cui tutti i presenti avrebbero dovuto quantomeno fare finta di stare ad ascoltare.
Avrebbe dovuto distogliere lo sguardo.
Avrebbe dovuto rivolgerlo su sua madre, o su Damiano, il suo fratello più grande. Su qualche suo amico, collega, persino su quell’infame di Sara che l’aveva invitato senza dirgli niente.
Si accorse di essere incapace di farlo. Filippo era un faro, perforava il buio della tempesta e lo teneva inchiodato sul posto irradiando una luce accecante.
Si guardarono per parecchi secondi senza dir nulla. In un attimo di sorprendente, irrazionale intimità gli sembrò di potersi permettere di studiarlo.
Senza barba sembrava più giovane, e non l’aveva mai visto in camicia, per il resto era identico al giorno in cui l’aveva perso.
«Prego» la voce della relatrice lo fece sobbalzare. «Quando vuole, può cominciare.»
Si schiarì la voce, ma non distolse lo sguardo. «Allora…» Filippo annuì, incoraggiante. Poteva farcela, e poteva farcela guardandolo negli occhi. Lui era forte, e quello era il suo giorno, e nessuno glielo avrebbe portato via. «La storia dello sciamanesimo, comune a molte culture, affonda le sue radici nel bacino–»
*
Chiasso. Troppo chiasso. Così tanto chiasso da non riuscire a sentire i suoi stessi pensieri.
Non gli bastava.
Alla fine si era preso la sua laurea da centodieci e lode, sua madre gli aveva infilato una corona d’alloro sulla testa, aveva stappato uno spumante che non era riuscito a bere, e si era diretto dritto al rinfresco che imperversava da ore.
Carmela gli era stata appiccicata addosso tutto il tempo, del resto era stato lui a invitarla, del resto erano amici di letto. Insomma, gli era stata molto più vicino di così ormai diverse volte, avrebbe dovuto essere abituato a quel corpo che sfregava col suo.
Quel giorno, tutta quella vicinanza appiccicosa gli faceva venire la nausea.
Si avvicinò di soppiatto al tavolo degli alcolici. Aveva ordinato per la festa qualche bottiglia di vino, altre di birra, e parecchi litri di sangria artigianale.
Era un anno che non beveva un sorso di roba buona, ritenne di esserselo meritato. Bere lo avrebbe aiutato a non pensare, come la musica e le chiacchiere inutili degli invitati.
Afferrò un bicchiere, poi la bottiglia di rosso. Si diede una veloce occhiata intorno, nessuno lo stava osservando.
Ottimo.
Prese la bottiglia nella mano tremante, e la inclinò pronto a versarla nel bicchiere trafugato per l’occasione. Era stato facile, dopotutto. Forse–
«Che cazzo fai?»
La voce improvvisa gli fece rovesciare qualche goccia sulla tovaglia. «Oh! Che cazzo fai tu! Mi hai fatto prendere un colpo.»
«Per chi è quel bicchiere?»
«Per Carmela.»
«Può confermarlo?»
«Senti, ti prego, lasciami in pace.»
Suo fratello, Damiano, gli strappò la bottiglia dalle mani. «Lo dico a mamma.»
«Non ci provare.»
«Sei per caso diventato del tutto idiota?»
Simone sbuffò. Perché doveva per forza avercela con lui? Non poteva torturare qualcun altro? «Lasciami in pace, cazzo!»
«Si può sapere che problemi hai? Non dovresti essere contento, almeno oggi?»
«Scollati, vado fuori a fumare.»
«Guarda che se ti vedo di nuovo qua intorno lo dico a mamma sul serio.»
«Vaffanculo.»
Passò accanto a un gruppo di colleghi ma li superò prima che avessero il tempo di fermarlo. Vide che Carmela accennava a richiamarlo dalla sua posizione, distolse lo sguardo.
Cazzo.
Alla fine ce l’aveva fatta, a rovinargli il suo giorno. L’aveva guardato per tutto il tempo della discussione, come se stesse raccontando una favola a lui, e lui soltanto. Aveva deciso di dirgli qualcosa, qualcosa di più vero delle quattro parole che si erano scambiati quando l’aveva visto, così l’aveva cercato per parlargli.
Per dirgli… non sapeva bene cosa. Qualcosa, comunque. Qualcosa di vero. Qualcosa di simile a “Sei uno stronzo ma mi manchi, ti prego, resta con me anche solo un pochino. Grazie di essere qui.”
Ma Filippo era sparito.
Volatilizzato.
Di nuovo.
L’idea l’avrebbe fatto piangere se non fosse stata tanto divertente.
Uscì fuori in strada. Portava dei pantaloni acquistati per l’occasione, e si era scordato di trasferire sigarette e accendino nella tasca.
Fanculo.
Perché quel bastardo si era dovuto presentare proprio quel giorno? Quale cazzo di mente malata avrebbe partorito una cosa del genere?
Per dirgli due cazzate e poi sparire nel nulla, poi. Codardo.
Fece due passi sul marciapiede e si appoggiò con la schiena al muro del locale. Chiuse gli occhi e inspirò una profonda boccata d’aria.
«Ciao.»
Quella voce improvvisa lo spaventò, poi la riconobbe. Non riaprì gli occhi perché… perché no. Doveva essere una presa in giro. Doveva aver sentito male.
«Mi senti? Tutto okay? Devo… devo chiamare qualcuno?»
«Sto benissimo» rispose, alla cieca. «Sto sperando solo che se tengo gli occhi chiusi forse sparirai.»
«Cazzo, sì. Lo spero un sacco anch’io.»
Quella risposta lo sorprese tanto che aprì gli occhi. «Non sei sparito.»
«Purtroppo mi sa di no.»
«Che ci fai qui?» chiese, in un grugnito ostile.
«Volevo venire da te, ma mi vergognavo a entrare. Io… ti vedo bene. Sono contento che stai bene.»
«Sto una merda, e si vede. Che vuoi?»
Perché non se n’era ancora andato? Perché restava lì a farsi maltrattare? Pensava che questa aria da cane bastonato avrebbe cambiato qualcosa?
Non cambiava niente.
«Come mai non sei dentro con gli altri?»
«Volevo bere, ma mio fratello coglione me lo impedisce.»
«Perché? Non sembri ubriaco.»
«Perché oltre alla milza mi hanno tolto un terzo del fegato, e l’alcol può anche uccidermi.»
Gli sembrò di vederlo impallidire, per qualche secondo vide che aveva smesso di respirare. «Perché allora volevi farlo?»
«Tu che dici?»
Passò un attimo di silenzio che congelò quell’istante in un tempo infinito.
Era tutto sbagliato.
Quel giorno era sbagliato, quel momento era sbagliato, era sbagliato lui stesso ed era sbagliato quel ragazzo. Era persino sbagliato il modo in cui lo stava guardando, lo guardava come se farlo fosse insopportabile.
Lo spinse da un lato per scansarlo. «Vado a cercarmi un bar dove nessuno può rompermi il cazzo.»
Una mano lo afferrò, fu sbalzato indietro di due passi. «Fermo.»
«Non toccarmi!»
A quell’ordine il suo braccio fu libero, lo vide fare un passo indietro e sollevare le mani in segno di resa. «Scusa. Scusa, ma non posso lasciartelo fare.»
«Perché? Vuoi essere l’unico a farmi del male? Ci riesco benissimo anche da solo.»
«Non… non sarei dovuto venire.»
Male. Male ovunque, nelle ossa, dentro alle vene, nei polmoni stropicciati dal fumo e sin nelle viscere. «Ma tu che vuoi da me?» Sbottò, iniziò a sentire gli occhi pizzicare. «Dimmelo. Dimmi che vuoi da me e poi, ti prego, vattene.»
Filippo fece un passo verso di lui, poi un altro. Non teneva più le braccia alzate, ma non provò a toccarlo.
Se l’avesse fatto, non avrebbe opposto resistenza. Aveva consumato tutte le energie per quell’ultimo ordine disperato.
«Mi dispiace che sono venuto, ma… ma mi dispiace di più che me ne sono andato.»
Quella scusa meritava solo una risposta.
«Dispiace più a me.»
«Sapevo che andare via era sbagliato, l’ho fatto lo stesso perché anche restare mi sembrava sbagliato. Più sbagliato. Me ne sono andato per me, ma–»
«Non dirlo.»
«–me ne sono andato anche per te.»
Merda. «Cazzo, grazie mille, allora.»
«Non volevo forzare la mia presenza.»
«Così hai forzato la tua assenza.»
«Pensavo non mi avresti più voluto vedere.»
«Dovevo essere io a decidere. Dovevo essere io a decidere se non volevo vederti mai più.»
«Mi dispiace. Io… mi vergognavo. E vederti così… avevo paura. Ero terrorizzato. Così sono scappato.»
Che battuta divertente.
Sbatté le palpebre, incredulo. «Tu.»
«Mh?»
«Tu. Tu eri terrorizzato. Io mi sono svegliato dopo due giorni, fatto come un cavallo, con una cicatrice di venti centimetri, un organo e mezzo in meno, mia madre che piangeva a singhiozzi, su un letto d’ospedale, senza sapere cosa cazzo fosse successo e… e tu non c’eri. E ora vieni qui a dirmi che avevi paura. Caspita, dev’essere stata molto dura per te. Mi dispiace tanto.»
Lo vide esalare un respiro tremante. «Hai ragione.»
«Non me ne faccio niente della tua ragione.»
«Dimmi cosa posso fare. Dimmi cosa posso fare per rimediare, e se non posso rimediare dimmi almeno cosa posso fare per farti stare meglio di così. Ti prego.»
«Vattene via. E non tornare mai più.»
Dolore. Gli lampeggiò negli occhi con una chiarezza accecante. Un dolore che sembrò in grado di strapparlo a metà.
Non aggiunse altro. Lo guardò qualche istante, senza accennare di voler dire nulla. Si voltò e cominciò a camminare.
Era uno scherzo. Sì, era uno scherzo. Filippo si sarebbe voltato e avrebbe insistito, perché ci teneva. Non poteva essere stato così facile, mandarlo via. Non di nuovo.
Era tornato, no? Voleva pur dire qualcosa.
Eppure non sembrò intenzionato a tornare indietro. Attraversò la strada, si avvicinò all’angolo che portava alla metro e… si piantò.
Rimase fermo per lunghi secondi, senza continuare ad avanzare ma anche senza voltarsi, pietrificato.
Fu allora che Simone iniziò a correre.
Attraversò la strada anche lui, senza nemmeno guardare a destra o a sinistra. Percorse il tratto che li separava, lo afferrò per la spalla, lo voltò di forza e gli gettò le braccia al collo.
Non gli sembrò che Filippo avesse atteso neanche una frazione di secondo d’esitazione. Le sue braccia lo circondarono, e si ritrovò stretto forte, sollevato da terra di qualche centimetro e i polmoni strizzati da quell’abbraccio fracassante.
Tutto bruciava. «Non te ne andare. Non provare ad andartene, cazzo.»
Sentì il volto di Filippo che si strusciava contro il suo collo, le sue labbra risalire sinché non avvertì un soffio sull’orecchio. Rabbrividì. «Sono qui. Sono qui. Sono qui.»
Strizzò gli occhi forte e cercò di trattenere un singhiozzo. Non ci riuscì, si ruppe in una serie scomposta di lacrime, gemiti di stizza e i singulti spezzati del pianto. Gli occhi facevano male, si accorse di avergli inzuppato la maglia all’altezza della spalla, ma non si fermò. Si limitò a stringerlo più forte, ad aggrapparsi a lui e annullarsi nella sua stretta tanto ferrea quanto dolce.
Quando i singhiozzi si calmarono, ancora tremava. Sciolse le braccia che aveva tenuto strette attorno al suo collo, e anche Filippo lo lasciò andare.
Si allontanò il tanto necessario da vederlo in faccia, sbatté le palpebre per schiarire la vista appannata dalle lacrime. Anche l’altro aveva le guance bagnate.
«Perché mi hai fatto questo?» chiese, la voce sul punto di infrangersi un’altra volta. «Perché?»
«Perché sono un codardo del cazzo. Perché sono un coglione. Perché… perché andarmene e non pensarci mi sembrava più facile. Perché non credevo mi volessi intorno. Perché non volevo vederti mentre mi guardavi come si guarda qualcuno che non vorresti fosse mai nato.»
«Non ti guarderei mai così. Non ti guarderei mai così.»
«Io non riesco più neanche a guardarmi allo specchio per quello che ti ho fatto. Tutti i giorni mi alzo dal letto pensando che mi odio, e tutte le notti vado a dormire pensando che mi odio. Mi lavo i denti e penso che mi odio, mi pettino e penso che mi odio, ogni volta che sono costretto a guardarmi negli occhi penso che mi odio. Posso sopportarlo, posso sopportare di odiarmi, ma non posso sopportare che mi odi anche tu. Per questo sono scappato.»
«Io non ti odio.»
«Ti ho rovinato la vita.»
Non aveva fiato, parlare gli faceva male, e si sentiva in debito d’ossigeno come se avesse corso per ore di seguito. Si obbligò comunque a dire quello che pensava. «Non è colpa tua. È colpa di quegli stronzi animali, non tua.»
«Certo che è colpa mia. Se fosse stato per te noi non–»
Non gli permise neanche di finire la frase. «Ora se due ragazzi si baciano e vengono menati è colpa loro perché non avrebbero dovuto farlo in pubblico?»
Lo vide sbattere le palpebre, sorpreso dalla domanda. «No, certo che no, ma–»
«Vuoi fare quello che chiede a una ragazza com’era vestita quando l’hanno molestata?»
«Cosa? No! Ma che c’entra?»
«È quello che stai facendo. Non è colpa tua.»
«Io ti ho forzato la mano.»
«Ti ho baciato per strada perché volevo farlo. E vuoi sapere una cosa?» attese qualche secondo, per farsi forza. «Fanculo, io… lo rifarei. Anche adesso. Capito?»
Lo vide spalancare gli occhi in modo quasi comico. «Adesso?»
Si allungò per stargli più vicino. Sollevò il volto e lo portò a un soffio dal suo. «Adesso.»
Riuscì a sentire il suono dell’aria che buttava fuori mentre, immobile davanti a lui, tentava di stare calmo. «No.»
«Perché no?»
«È troppo pericoloso.»
«Che cosa può succedere di peggio dell’ultima volta?»
«Ho imparato che queste cose è meglio non chiederle, altrimenti la vita tende a rispondere.»
«Non lo vuoi?»
Non aveva aspettato un anno a piangere e imbottirsi di medicine per venire raggiunto il giorno della sua laurea e poi rifiutato come un coglione.
«Sempre. Per sempre. Anche tutta la notte. Solo… non qui. Chiudiamoci da qualche parte e ti giuro che te lo faccio vedere, quanto lo voglio.»
Troppo facile così. «O adesso o niente.»
«Cosa?»
«O mi baci adesso, in questo momento, qui sul marciapiede, o ti giuro che non lo farai mai più.»
Era rimasto immobile, rigido, troppo vicino eppure non abbastanza. Da quando lui aveva portato il volto al suo, non aveva accennato a volersi allontanare, ma non si era neanche avvicinato azzerando quei centimetri che restavano tra loro. «È pericoloso.»
«O adesso o niente.»
«Non puoi chiedermi questo.»
«Tu l’hai chiesto a me e io lo chiedo a te.»
«Andiamo da qualche parte, e ti prometto che–»
«Fili» lo chiamò, appoggiando il corpo al suo. «O adesso o niente. Decidi tu.»
Si rendeva conto che quello che chiedeva aveva un che di sadico. Si rendeva conto che quella che chiedeva era solo una piccola vendetta, un capriccio stupido.
Gli sembrò di aver meritato il lusso di fare il bambino, così lo fece comunque.
«Mi fa paura.»
«Lo faceva anche a me. Me lo devi.»
«Ho promesso a me stesso che non l’avrei più fatto.»
«Non mi interessa.»
«Non so se riesco.»
Non avrebbe mollato la presa. «O adesso o niente.»
Lo vide chiudere gli occhi e prendere un profondo respiro. Per un attimo, fu sicuro che se ne sarebbe andato. Che l’avrebbe lasciato lì come un idiota e avrebbe finito la serata sul fondo di un bicchiere di qualcosa di forte che l’avrebbe spedito all’altro mondo.
L’attimo dopo lo stava baciando, e lui gli gettò ancora le braccia al collo e si ritrovò stretto contro il muro di un’agenzia di viaggio all’angolo della strada, gli occhi ancora umidi e le palpebre chiuse, il cuore tanto veloce da fargli male al petto e un sapore sulla lingua che credeva di aver dimenticato e si accorse di ricordare ancora.
Per essere stato quasi costretto a farlo, Filippo lo baciava come se per tutto l’anno che era passato non avesse aspettato altro.
Là dove si toccavano riusciva a riconoscere la sua pelle con una memoria quasi chimica. Abbandonò la testa all’indietro, poggiandola al muro contro cui era premuto, su cui Filippo lo strinse più forte. Lo sentiva ansimare nella sua bocca, tremare forte tra le sue braccia, e prima che qualcuno potesse davvero urlargli ancora una volta di smettere si separarono.
Schiuse le labbra per dire qualcosa, qualsiasi cosa, per riempire il silenzio tra loro. Lui lo precedette.
«Ho trovato un lavoro.»
Aggrottò la fronte alla notizia. «Tu hai già un lavoro.»
«Mi sono licenziato, ma ora ne ho trovato un altro.»
«Wow… congratulazioni?»
«Inizio lunedì. Io… ho trovato lavoro qui in città. Anche casa. Sono sceso per la laurea di Sara ma anche per portare giù la mia roba. Non me ne vado più.»
Aspettò qualche secondo che quelle parole acquistassero un senso.
«Non capisco.»
«Mi trasferisco. Mi trasferisco qui.»
«… perché?»
«Non è abbastanza ovvio?»
Niente di tutto quello che stava dicendo era ovvio. «No.»
«Mi hai detto di non provare ad andarmene, e non voglio farlo. Voglio restare qui con te. L’anno scorso sono scappato, e… non lo farò più.»
«E se non ti avessi neanche voluto rivolgere la parola? Non potevi sapere che ti avrei chiesto di restare.»
Lui si strinse nelle spalle. «Ho scommesso. All in. Potevo perdere tutto o vincere tutto, nessun compromesso.»
«È vero? È vero o mi stai prendendo in giro?»
«Via Cimarosa 37, interno cinque. Ho due coinquilini ma una camera matrimoniale con un bagno mio, ed è vicino al Carrefour dove lavoro. Puoi venirci quando vuoi… anzi, vienici adesso.»
«Adesso?»
«Sì. Andiamo via insieme. Vieni a dormire da me.»
«È la mia festa di laurea. E se lo sa mia madre ti stacca la testa a morsi. Sul serio… anche Damiano, se salta fuori che sei qui le prendi davvero. Quello ti ammazza, non sto scherzando.»
«Chiamalo. Non mi voglio nascondere.»
«Hai sentito che ho detto?»
«Se si arrabbia con me ha ragione.»
«Non voglio che finisca male come l’ultima volta.»
«Dubito che tuo fratello mi spappolerà la milza in ogni caso.»
Mannaggia a lui che riusciva a essere sempre così convincente. Sospirò. «Va bene, hai vinto.»
«Sul serio?»
«Sì. Ma lo dico io ai miei. E tu non devi dire una parola se non ti do prima il permesso.»
«E stanotte ci vieni a dormire da me?»
Chiuse gli occhi e scaricò tutto il peso sull’altro. Le braccia di Filippo, già intorno a lui, lo strinsero forte. Inspirò una boccata, il volto premuto contro la curva della sua spalla.
Se l’immaginò, allora, passare tutta la notte con lui. La possibilità di vivere quella seconda occasione senza doversi nascondere da nessuno.
La libertà elettrizzante di perdonare chi gli aveva fatto del male, di permettersi di nuovo di provare un sentimento che tanto a lungo aveva negato a sé stesso con il solo scopo di proteggersi.
«Prometti che non scappi più.»
«Non scappo più. Non vado da nessuna parte.»
«Prometti.»
«Promesso.»
Si crogiolò ancora nel calore di quell’abbraccio. Per tutte le lacrime che aveva versato, accettare di lasciarsi andare fu comunque più facile del contrario. «Mi sei mancato.»
Filippo gli stampò un bacio sulla testa. «Mi sei mancato tanto anche tu.»
Pensò a tutto quello che sarebbe successo. Avrebbe interrotto la trombamicizia con Carmela, tanto per cominciare. Avrebbe dovuto litigare con sua madre e suo fratello, lavorare sulla sua delusione e il senso di colpa dell’altro, fare una piazzata a Sara per avergli tirato quella trappola e… «Voglio venire a dormire con te.»
E magari, dopo un anno schiacciato da tutto quel risentimento che lo consumava, sarebbe stato leggero di nuovo.
Note autrice
Eccoci qui alla fine di questo raccontino breve!
Sono due scene prese un po’ fuori contesto, sono consapevole del fatto che si potrebbe dire di più, solo che... non volevo farlo.
Questo racconto è stato pensato, appunto, per essere un racconto. Contiene i punti salienti della vicenda e nient’altro.
L’ho fatto leggere prima di postarlo, cosa che non faccio mai, proprio perché ero titubante a riguardo, non volevo che sembrasse incompleto sino a diventare frustrante.
È stato approvato, dunque eccoci qui.
Volevo dell’angst che finisse con del comfort, e l’ho avuto! Per quanto mi riguarda, sono contenta così n.n
Spero sia piaciuto anche a voi!
Noi ci aggiorniamo come sempre per le prossime novità su questo profilo ~
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top