1. Filippo

Il profumo dei funghi freschi e del parmigiano gli aveva aumentato la salivazione, così Filippo si decise ad avventarsi sulla sua cena, in parte per riempire il vuoto che aveva dentro.

«Pensi che ci riuscirai mai?» domandò, la sua mano che arrotolava le tagliatelle intorno alla forchetta con finta aria distratta. «A stare con me in pubblico, intendo.»

Il silenzio fu ingombrante, riempì l’aria tra loro come una cappa d’umido. Non alzò lo sguardo, non voleva vedere l’espressione colpevole riflessa sul volto del suo ragazzo.

Delle voci, dal tavolo accanto, si alzarono insieme a risate sconnesse. Il ristorante era stracolmo, erano le vacanze di Pasqua, e lui era arrivato a Napoli da cinque giorni senza riuscire a sfiorare Simone nemmeno una volta.

«Non lo so» ammise lui, in un soffio appena accennato. «Forse no.»

Filippo si infilò una forchettata in bocca e mandò giù. Erano buone, anche troppo, gli fecero desiderare di riuscire ad apprezzarle invece che stare lì a rosicare e consumarsi il fegato.

«Capito.»

E quanto era frustrante, quel loro stupido gioco? A che  scopo passare le vacanze assieme senza toccarsi? Avevano speso più di otto mesi a distanza, dopo essersi incontrati su quel server discord ed essersi presi l’uno dell’altro come due scemi alla prima cotta. Lui era sceso da Venezia per una settimana per stare con lui, e in cinque giorni non era riuscito ad avere nemmeno un bacio a fior di labbra.

«Lo so che ti dà fastidio» mormorò, Filippo sentì il rumore della sua forchetta che giocava sul piatto pieno. «Ma mi mette a disagio, non posso farci niente. A casa ho paura che qualcuno se ne accorga, in giro mi fa sentire osservato, e giudicato, e…»

«Non siamo negli anni quaranta. Non dico che dobbiamo limonare in mezzo alla strada, ma… ma… ma non puoi neanche trattarmi come se avessi la lebbra, io…»

«Mi dispiace.»

Filippo strizzò gli occhi e poi li sollevò infine dal piatto da portata. Simone lo stava guardando, lui lo guardava sempre. Non avrebbe voluto parlarne, non là al ristorante, dove avrebbe dovuto sussurrare e non c’era l’intimità  necessaria, ma a casa Simone non si sarebbe scucito per paura che qualcuno sentisse, così era stato costretto a esporsi. «Il problema è che mi manchi, sempre. Quando siamo lontani mi manchi perché siamo lontani, quando siamo vicini… lo siamo mai davvero? Si può vivere una relazione in questo modo?»

«Avevi detto che ti stava bene. Avevi detto che avrei potuto fare tutto coi miei tempi.»

«Sì ma non pensavo… non pensavo che non sarebbero mai arrivati.»

La verità era che quella vacanza l’aveva fatto ammattire. Averlo tanto vicino e non poterlo neanche toccare era quasi peggio di essere dall’altra parte d’Italia. Aveva preso il treno per Napoli traboccante di speranza e di entusiasmo e quand’era arrivato era rimasto con un pugno di mosche e in bocca un sapore amaro.

Lo vide guardarlo con gli occhi scuri spalancati e impauriti, e glielo lesse in faccia, che l’aveva capito. Aveva capito che Filippo non sarebbe riuscito a reggere a lungo, non continuando così.

Capitolò infine, anche se era evidente che non voleva farlo. «Ci proverò. Ci proverò, promesso.»

Filippo gli offrì un sorriso di scuse, un senso di colpa che lo bruciava come acido, rosicchiandolo dall’interno. Non era giusto costringere Simone a mostrarsi con lui in pubblico, come non era giusto costringere lui a vivere una vita in incognito. Forse non erano solo fatti per stare insieme, loro due.

Scacciò il pensiero con violenza, si ritrovò a scuotere la testa per non pensarci. Il ragazzo davanti a lui era tutto quello che voleva, non avrebbe rinunciato a lui per un’incomprensione, non poteva arrendersi così.

Non con quel tipo di sentimenti in ballo.

«Questo posto è… è bello, avevi ragione.»

Le spalle del compagno si rilassarono. «Si mangia bene, eh?»

«Sì, insomma, da fuori non sembrava, e invece…»

Cambiò argomento per rendere le cose più facili, col cuore pesante. Quanto ancora sarebbe potuta durare?

Quando uscirono in strada nei vicoletti del centro storico, notò subito che Simone gli stava un poco più vicino del solito. Col cuore in gola, provò a sfiorargli la mano, e si accorse che non rifuggiva il suo tocco come se solo sfiorarlo l’avesse scottato.

Un gruppo di ragazzini ubriachi davanti a Cammarota schiamazzava a gran voce, svoltarono l’angolo verso il luogo in cui avevano parcheggiato e si ritrovarono in un vicoletto deserto.

L’aria dei quartieri spagnoli era di una calma assordante nella notte, oltre quelle poche attrazioni che attiravano turisti e studenti come falene a una candela.

«Vuoi tornare subito a casa o possiamo farci un giro?» chiese Filippo, col naso all’insù verso la trapunta di stelle.

Simone non rispose, fece qualcosa di più eloquente ancora. Gli afferrò la mano e lo fermò, tirandolo indietro.

Filippo si voltò, i loro sguardi si incrociarono. «Non voglio perderti.»

Quelle parole, quella voce tremante sul punto di spezzarsi gli allargarono uno squarcio nel petto. «Non mi stai perdendo.»

«Io ci voglio davvero provare, lo so che è una cosa stupida. Con le altre non ho mai avuto paura, ma con te è diverso e io… tu te lo meriti. Ti meriti qualcuno che non si vergogni di stare con te.»

Filippo strinse quella mano che aveva ancora nella sua e lo tirò a sé. Se lo ritrovò di fronte, pochi centimetri di distanza, e annegò in quegli occhi neri liquidi, grandi dentro. «Non devi avere paura con me.»

«Ci provo.»

Si guardò intorno, per la strada non c’era nessuno, e Filippo pensò che potesse essere il momento giusto per cominciare. Con la mano libera gli mise due dita sotto il mento e lo sollevò, portando le labbra del ragazzo a un soffio dalle sue. «Non ci succederà nulla, lo prometto. Nessuno ci disturberà.»

Simone a coprì la distanza tra loro, e sigillò le labbra sulle sue. Filippo le stuzzicò con la lingua e lui le schiuse, accogliendolo dentro di sé e approfondendo quel bacio che li avvolse in una pozza di melassa, calda e dolce e densa che li teneva incollati l’uno all’altro, in quel bacio che pian piano si andava scaldando.

L’unica altra volta che l’aveva baciato era stato otto mesi prima, nonché l’unica volta che l’aveva visto dal vivo, a Genova con gli amici del server. Filippo sentì il corpo di Simone aggrapparsi al suo, aprirsi a lui fremente per quel contatto che entrambi avevano bramato così a lungo da star male.

Gli arrivò distante alle orecchie un gemito basso di approvazione che gli fece defluire il sangue via dal cervello e gli morse il labbro tirandolo coi denti frenandosi dal desiderio di divorarlo là, per strada, a farlo suo col rischio di mille occhi indiscreti.

Fu Simone a separarsi da lui, accaldato e ansimante, le guance arrossate in quel buio. Lo guardò e aprì la bocca per parlare, ma non riuscì ad articolare parola. Sembrava stravolto, come se avesse corso per chilometri senza fermarsi, e il pensiero che un solo bacio da lui l’avesse potuto turbare tanto gli faceva girare la testa.

«Hai visto?» chiese, e un sorriso gli fiorì sulle sue labbra. «Nessuno ha detto niente, nessuno ci ha visto. Sei al sicuro.»

Simone non rispose. Si allungò verso di lui e vi si avventò con tanta foga da spingerlo a fare due passi indietro. Filippo ci mise un attimo a realizzare che era stato ancora lui a baciarlo, e quando lo fece rispose con la stessa energia, gli prese il volto con entrambe le mani e annegò in quella frenesia contagiosa e prepotente che l’aveva infiammato e lo consumava.

Aveva il cuore che gli picchiava in gola, bisogno di stringersi a lui sino a sparire, quando lo sentì.

Un fischio di apprezzamento, seguito da alcune risate sguaiate.

Simone, ancora stretto a lui, si irrigidì. Filippo sentì un vuoto allo stomaco, strizzò gli occhi e allontanò il ragazzo da sé. Lo vide come congelato, ma non sembrava impaurito, aveva sul volto una maschera di distacco e indifferenza.

«Wa, che schifo, cazzo.»

Quella voce costrinse Filippo a voltarsi. Un gruppetto di una dozzina di ragazzini che non avranno potuto avere più di sedici anni si avvicinava, a ritmo sostenuto.

No, questo non andava bene. Non andava bene per niente, non proprio nel momento in cui aveva promesso a Simone che non li avrebbe disturbati nessuno.

Forse, però, quell’episodio sarebbe stato utile. Il ragazzo avrebbe capito che sì, forse ogni tanto sarebbe stato infastidito, e la semplice soluzione sarebbe stata solo ignorare e andare avanti. Poteva sembrare spaventoso, ma non era la fine del mondo.

Solo qualche ragazzino molesto che avrebbe urlato improperi e li avrebbe presi in giro, ma poi se ne sarebbe andato. Nulla di allarmante.

Il gruppo di ragazzi arrivò a loro. Il più grande, che sembrava avere forse sedici anni, si piazzò proprio di fronte, con un sorrisino.

Simone restò immobile al suo posto. Sembrava una persona del tutto diversa da quella che si era affannata solo per un bacio sino a qualche attimo prima. «Beh? Che vuò?»

Il napoletano era strano. L’altro non lo parlava spesso ma, quando lo faceva, a Filippo si spegneva il cervello. C’erano poche cose più eccitanti del suo ragazzo che parlava in quel modo, anche se in quel momento riuscì solo a pensare che fosse un campanello d’allarme.

«Uuuuh» scherzò un ragazzino che gli sarà arrivato alla spalla. «‘O ricchione nun tene paura, eh?»

Filippo avrebbe voluto parlare. Avrebbe voluto dire che non faceva niente, che se ne stavano andando comunque, grazie e arrivederci a mai più. Aveva l’impressione che non sarebbe servito a niente, non quella volta. Non con Simone che guardava il ragazzino in quel modo.

Sentì che si schiariva la gola, e lo osservò mentre inclinava la testa di lato e alzava le spalle.

«In realtà non sono proprio “ricchione”, non è del tutto esatto.»

Il ragazzino davanti a loro rise, un compagno dalle retrovie chiese, con un ghigno, «Ah no? E ca sij allora?»

«Si dice bisessuale. Insomma, a me piace pure ‘a fess. Ma non mi aspetto che uno come te–»

Il momento dopo era piegato in avanti dal dolore, Filippo ci mise un secondo a capire che gli era arrivata una ginocchiata nello stomaco.

Scattò senza neanche pensarci, ma prima che potesse arrivargli addosso i ragazzini l’avevano afferrato come stramaledette formiche. 

«Ehi! Ehi!» urlò, si dibatté contro quello più basso, che l’aveva abbracciato stretto davanti per tenerlo fermo. Altri due gli tenevano le mani, e un quarto l’aveva  afferrato dietro.

Simone era ancora piegato in avanti, le mani poggiate sulle ginocchia, ansimava a bocca aperta, forse in un tentativo di non vomitare.

Il ragazzino gli diede un buffetto sulla guancia, lui sobbalzò. «Non devi rispondermi quando ti parlo, capito?» sibilò, poi le sue labbra si spaccarono in un ghigno di scherno. «Senti, bello, ma chi dei due fa la femmina? Sono curioso, non so come funzionano queste cose.»

Filippo diede uno strattone ai ragazzini che lo tenevano, che ressero la presa. «Lascialo in pace.»

«Secondo me la fa quello lì!» esclamò uno, indicandolo.

Simone alzò lo sguardo a incontrare quello dello stronzo che aveva davanti. «Mi dici che non devo risponderti ma poi mi fai delle domande. Le indicazioni non sono chiare.»

«Simpatico» commentò. «Facciamo che ti do un motivo per chiagnere, uh? Così la finisci a rire.»

Filippo sentì il sangue gelarsi, si dimenò per liberarsi, fu inutile. Doveva stare calmo. Forse l’avrebbe convinto ad andare via, forse poteva evitare che la situazione degenerasse. Se Simone fosse stato un minimo collaborativo, magari… «Aspetta, fermo, noi…»

Simone sibilò tra i denti qualcosa in dialetto, che Filippo non capì.

«Allora sij popo strunz» rispose il ragazzo, e l’attimo  dopo gli aveva dato un’altra ginocchiata alla bocca dello stomaco, poi un manrovescio che lo fece finire a terra.

I ragazzini rimasti, poco meno di una decina, gli furono addosso. Coprirono la visuale e lo accerchiarono, iniziarono a prenderlo a calci. Filippo si accorse di aver iniziato a gridare solo perché la gola gli faceva male, riuscì a sfuggire alla presa di uno degli altri e fece due passi in avanti, subito riacchiappato e rimesso a posto dai compagni.

«Questa è zona nostra, capito? Gente come voi non la vogliamo qua.»

Non sentiva più nulla, neanche la sua voce, eppure sapeva di aver continuato a gridare. Le mani gli facevano male perché continuava a strattonare e loro a tenerlo fermo, e aveva la nausea, e non capiva niente, e perché cazzo nessuno si era affacciato da qualche casa là in quella via? Stavano facendo un chiasso infernale cazzo, possibile che nessuno se ne fosse accorto?

Non ricordava cos’era successo, perché non era stato in sé, ricordava che un’eternità dopo i ragazzini se l’erano data a gambe, e lui era in ginocchio e non ci vedeva perché aveva gli occhi pieni di lacrime, e Simone era a terra e non rispondeva, non apriva gli occhi, e il sangue dappertutto.

Le mani gli tremavano ma riuscì a tirare fuori il telefono dalla tasca. Ebbe difficoltà a sbloccarlo perché aveva le mani bagnate, di lacrime e sangue, e alla fine riuscì persino ad aprire la tastiera numerica delle chiamate.

«Simo» lo chiamò, «Simo, dimmi qualcosa. Dimmi qualcosa.»

1, il dito sporco scivolò sullo schermo ma il tasto rispose al suo input.

«Va tutto bene, ora chiamo qualcuno. Ora chiamo qualcuno, okay?»

1, questo era stato più facile, anche se aveva lasciato qualche goccia all’altezza del quattro e temette potesse premersi senza volerlo.

«Ho bisogno che tu apra gli occhi. Ti prego, apri gli occhi. Ti prego…»

8.

«Centodiciotto, come posso aiutarla?»

Prese una bella boccata d’aria, le lacrime iniziarono a colargli per le guance schiarendo la vista. Doveva esprimersi in modo chiaro, darsi una calmata.

«Il mio ragazzo non risponde, non si sveglia. L’hanno picchiato, un gruppo di ragazzini, lui… l’ho chiamato, ma non risponde, sta sanguinando…»

«Dove vi trovate in questo momento?»

Cazzo, la via. Che ne sapeva lui? In quel posto non c’era mai stato. «Non lo so, non sono di qui, io… vi prego, non so cosa fare, dovete venire subito, per favore…»

«Riconosce qualcosa là intorno? Vede qualche insegna che possa aiutarci a localizzarla?»

«Siamo vicini a quel posto, come si chiama… Cammarota. Sì, ai quartieri spagnoli. Siamo tipo una traversa più in là, più verso Toledo.»

«L’ambulanza sta arrivando, lei resti con me, va bene? Il ragazzo respira?»

Le lacrime non accennavano a smettere, non voleva farfugliare, così prese una boccata d’aria di nuovo. «Non lo so, come… come faccio a saperlo?»

«Metta l’orecchio tra naso e bocca con lo sguardo verso il torace, se respira dovrebbe sentire l’aria entrare e uscire e vedere il petto alzarsi e abbassarsi.»

Mise il vivavoce e poggiò il telefono a terra, poi fece quello che l’uomo  aveva detto. Aspettò qualche secondo di vedere o sentire segno di respiro, non ne trovò. Sentì di stare per svenire. «Non sento niente. Non sento niente. Oddio, forse non… sì! Esclamò, dopo aver avvertito un leggero spostamento d’aria. Sì, credo di sì. Non sono sicuro però.»

«L’ambulanza sarà lì a momenti, mi ascolti adesso. Ci sono emorragie visibili?»

«Sì, lui… perde sangue, dal naso e dalla bocca.»

Era convinto che quell’immagine gli sarebbe rimasta impressa per sempre, non voleva guardare, ma non riuscì a evitarlo.

«Il sangue continua a uscire?»

«Forse no… non mi pare. Ma ce n’è  tanto. È dappertutto, è…» iniziò a sentire le sirene dell’ambulanza. «Arrivano. Credo che… credo che siano qua vicino.»

Il mezzo spuntò, in fondo alla strada. Lui si sbracciò, non si accorse neanche di quando il centralino fece chiudere la chiamata. L’ambulanza inchiodò proprio davanti a loro, tre persone in divisa saltarono giù e corsero nella sua direzione.

«Si sposti, per favore» intimò una donna, sbrigativa, e lui strisciò con le ginocchia un po’ più indietro. I tre lo accerchiarono, era la donna a dare gli ordini, vide che gli mettevano una mascherina d’ossigeno, gli misuravano il polso, i due uomini che restavano lo sollevarono su una barella.

Lui avrebbe voluto fare domande, chiedere com’era messo, se si sarebbe ripreso, ma sembravano tanto indaffarati che non voleva disturbarli, e poi aveva paura della risposta.

«Lo portiamo al Pellegrini, ci vediamo lì» liquidò la donna, mentre i due lo caricavano con tutta la barella sull’ambulanza.

«Non sono di qui» azzardò, timido. «Non so la strada, non ho la macchina, posso… posso salire con voi?»

La donna e i due uomini si scambiarono uno sguardo incerto. «In teoria non si potrebbe» disse uno.

La donna fece un cenno esasperato. «Sali, dai» cedette. «Ma non intralciarci nel nostro lavoro.»

Scosse la testa. Fu il primo a salire, si infilò nell’angolo più lontano, e si sedette su una sorta di panca sulla destra. Gli altri furono su in un attimo, il portellone si chiuse e l’ambulanza partì a sirene spiegate.

«Il polso è debole, potremmo perderlo.»

«Ha bisogno di una trasfusione.»

«Credo abbia un’emorragia interna addominale.»

Lui li guardava, gli occhi acquosi e spalancati, ronzare intorno a lui come api operaie indaffarate.

«Ma che è successo?» chiese uno, una volta che la situazione sembrò stabilizzarsi. «Vi hanno derubato e avete fatto resistenza?»

«No» protestò, pensò di non aver mai avuto voce più debole di quella. «Noi ci stavamo… ci stavamo solo baciando. Loro ci hanno visti e…» gli mancò l’aria e anche la voce. Gli occhi gli facevano male e le lacrime, che si erano calmate, iniziarono a scendere di nuovo. «È colpa mia, lui non voleva, l’aveva  detto che era pericoloso, ma io ho insistito… gli ho detto che non sarebbe successo niente, che nessuno ci avrebbe dato fastidio… non lo ascolto mai, e adesso… e adesso…» si coprì il volto con le mani e tentò di calmarsi. Perché respirare era diventato così difficile?

«Cristo» commentò quello che aveva fatto la domanda. 

Filippo strizzò gli occhi come per isolarsi dai pensieri distruttivi. «Lui starà bene, vero?»

La risposta della dottoressa non lo confortò tanto. «Faremo il possibile.»

Arrivarono in ospedale in un vortice di nulla. Lo fecero entrare di corsa in codice rosso, dritto in sala operatoria. A quanto pareva aveva la milza spappolata e perdeva sangue dall’interno.

Provò a chiamare i genitori e il fratello, nessuno di loro rispose

Era tardi, forse stavano dormendo.

La polizia arrivò mentre aspettava la fine dell’operazione, accucciato in sala d’attesa. L’adrenalina dell’aggressione  e della corsa in ambulanza iniziava a scemare, la testa leggera dondolava e si sentiva a un passo dal collassare là in pronto soccorso.

Rispose alle domande degli agenti, aspettò per quattro ore, e alle sei del mattino portarono Simone fuori dalla sala operatoria e gli concessero di vederlo, ubriaco dal sonno e dall’ansia. 

Il ragazzo stava ancora dormendo, l’anestesia non era passata, e la sua famiglia non era ancora stata messa al corrente di quello che era successo.

Si avvicinò a piccoli passi al giovane addormentato, odore di medicine amare e disinfettante nei polmoni, le palpebre pesanti e un dolore al petto.

Nel momento in cui Simone si fosse svegliato, avrebbe scoperto un mondo del tutto diverso rispetto a quello in cui aveva perso i sensi all’inizio  della nottata. La sua famiglia avrebbe saputo della sua relazione, per esempio. Anche gli amici, i conoscenti, forse tutta la città. Avrebbe saputo che quello che era stato il suo ragazzo aveva tradito la sua fiducia, l’aveva ridotto in ospedale per un capriccio… e se n’era andato risparmiandogli la fatica di mollarlo da sé.

Non si sarebbe fatto trovare in ospedale, né da nessuna altra parte. Sarebbe sparito.

Era colpa sua. Era tutta colpa sua, solo colpa sua. Non meritava di rivederlo sveglio. Non meritava di parlargli. Non meritava nemmeno di provare a scusarsi. E Simone aveva il diritto di non vederlo mai più, non avrebbe forzato la sua presenza lì.

«Mi dispiace» sussurrò, gli avevano ripulito il volto dal sangue, e alcuni grossi ematomi iniziavano a chiazzargli il volto di un viola intenso. «Mi dispiace. È colpa mia, mi dispiace…» strizzò gli occhi e li sentì bagnarsi di nuovo, sembrava che le lacrime non sarebbero mai finite, ce n’erano sempre di nuove. «Addio.»

Si chinò su di lui e gli diede un bacio sulla fronte, era fresca e questo a modo suo lo confortò. Lo guardò ancora per qualche attimo. Era davvero bello addormentato, sembrava sereno. Ancora non sapeva l’entità di ciò che era successo, ma quando l’avrebbe scoperto sarebbe cambiato tutto. La sua serenità sarebbe stata spazzata via.

Si voltò. Non l’avrebbe rivisto mai più, no, non meritava la sua presenza, e Simone non meritava di averlo intorno. Iniziò a camminare verso l’uscita, in un gesto violento, come strappare una calamita dal metallo.

Non si guardò indietro, se l’avesse fatto non se ne sarebbe andato. Mentre camminava bloccò il suo numero, il suo profilo Instagram, quello Facebook, il contatto WhatsApp. Immaginò che ci sarebbe stato un processo, forse avrebbe dovuto testimoniare, avrebbe chiesto di non incrociarlo.

Un taglio netto.

Sarebbe stato meglio, per tutti e due.

Era colpa sua, tutta colpa sua, solo colpa sua, l’aveva quasi ammazzato con i suoi capricci, col suo egoismo, era stato infantile e stupido, e Simone aveva pagato.

Si comprò un biglietto del treno Napoli/Torino per le sei e dieci, poi quello Torino/Mestre. Non sarebbe passato neanche a prendere i bagagli, glieli avrebbero spediti, o anche no, non gli importava. Voleva solo andare a casa, allontanarsi il più possibile da quello che era successo, provare a dimenticare.

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