Capitolo 1
Otto anni dopo.
Victoria.
Odio la mattina, odio chi mi sveglia, odio dovermi alzare dal letto e lasciare il mio dolce regno dei sogni per affrontare la vita di tutti i giorni, fosse per me, dormirei sempre.
-Victoria!- qualcuno urla da molto lontano, forse il piano di sotto di casa mia.
Urla ancora il mio nome ma non ho voglia di rispondere, voglio solo dormire e riposarmi.
La porta di camera mia si apre sbattendo contro il muro e facendomi sobbalzare.
-Victoria!!- sbraita mio padre – dovresti essere già pronta- mi ammonisce e contemporaneamente, come se le sue urla di prima mattina non bastassero, scosta le tende facendo incontrare il sole mattutino e fin troppo luminoso con i miei occhi. È pazzo per caso? Vuole accecarmi o cos'altro?
- muoviti- urla ancora – il camion del trasloco sarà qui a momenti e devi ancora finire di fare le valige-
Il camion dei traslochi? Le valige? Ma che sta dicendo?
Alzo il mio busto al letto e incontro i suoi occhi chiari con i miei verdi e noto sul suo volto un'espressione divertita, devo essere proprio buffa in questo momento.
-ti sei dimenticata del trasloco, vero?- chiede alzando gli occhi al cielo.
-io? No, ma che dici- mento alzandomi dal letto-ti risulta che io dimentichi mai qualcosa?-
-certo, come no, muoviti- e scompare dalla mia vista.
Sono una stupida. Perché dimentico sempre tutto?
Stupida! Stupida! Ma come si fa ad essere così stupida?
Mi accerto che mio padre sia giù in cucina e mi fiondo correndo nel bagno, doccia fredda e veloce, mi vesto e raccolgo la mia chioma scura e riccia in una coda alta, anche se il risultato è davvero pessimo. Adesso tocca al viso: che Dio mi aiuti!
Un velo di fondotinta solo sulle occhiaie evidentissime e dopo aver applicato il mascara esco dal bagno e mi dirigo nella mia stanza. Ho ancora delle valige da sistemare e non solo ho anche da mettere a posto la mia attrezzatura per dipingere. Prendo una valigia e incomincio a buttarci dentro tutto il mio armadio, o almeno quello che non sono riuscita a sistemare ieri sera per la troppa stanchezza e poi passo ai miei colori, alle mie matite e ai miei pennelli che sistemo in una busta di carta, già preparata in precedenza, e inoltre prendo tutte le tele e i fogli che con il passare degli anni ho appeso al muro come decorazione personale della stanza. Riesco a sistemare tutto in tempo e con l'aiuto di mio padre scendo tutto al piano di sotto dove ci aspetta il camion.
C'è una cosa che però voglio fare prima di andarmene definitivamente da casa mia: voglio darle un ultima occhiata. Voglio osservare un ultima volta le mura di questa casa che mi ha fatto tanto soffrire e star male.
-arrivo subito- dico a mio padre che annuisce e, dopo aver salito le scale, entro di nuovo nella mia "vecchia" stanza. È in ordine come non lo è mai stata, il letto ,l'armadio e la scrivania sono ognuno al suo posto. I muri bianchi sono completamente spogli e le mie tende del medesimo colore sono state staccate e adesso la stanza è inondata da luce solare. Si, le mie tende bianche servivano e servono a far entrare più luce possibile: in maniera non diretta ma soffusa quando serviva. Odio il buio, è la mia più grande paura. Troppi ricordi riaffiorano nella mia mente quando la luce è assente il mio copro inizia a tremare come una foglia e il tutto spesso sfocia in un attacco di panico con allucinazioni. Ricordi indelebili e tristi che non lasciano scampo alla mia memoria. Cerco sempre di non pensarci e di vivere la mia vita, ma non ci riesco. Esco dalla mia stanza ed entro in quella di mio padre, un tempo anche di mia madre e la osservo per un attimo che sembra interminabile. Adesso è spoglia, non ci sono più fotografie del loro matrimonio, non ci sono più quadri; c'è solo una mensola sul quale è sistemato un libriccino sgualcito. Era di mia madre. Al suo interno scriveva tutte le poesie che durante i suoi studi di letteratura la colpivano e, ogni tanto, me ne leggeva una quando ero piccola. Decido di prenderlo e dopo aver soffiato via quel velo di polvere che negli anni si è accumulato lo depongo nel mio zainetto. Non so precisamente perché io lo stia prendendo, ma lo sto facendo. Penso che sia tutta una questione di ricordi, di momenti e di sensazioni. Forse me ne pentirò, forse più avanti mi pentirò ad averlo preso, ma almeno non avrò il rimpianto di averlo lasciato indietro. Do un ultima occhiata in giro: il grande letto spoglio, il grande armadio di legno scuro, il grande comò, la finestra che inonda di luce la stanza. Poteva essere tutto così perfetto, ed invece...tutto è andato frantumato.
-Victoria vieni!- mi chiama mio padre
Scendo ed entro in macchina portando alle mie orecchie le cuffie.
Il viaggio sarà lungo e appoggio la testa al finestrino. Abbandono Liverpool per andare a Manhattan dove mio padre John Mason gestirà la sua azienda. La nostra condizione economica è ottima, non abbiamo problemi e non mi è mancato nulla in questi anni. Una vita perfetta, direte tutti, ma una cosa ve la voglio rivelare: i soldi non sono riusciti a coprire l'assenza di mia madre.
Mi mancherà Liverpool? No, per niente. Per me quella città non aveva nulla di importante, non ho amici e neanche legami particolari, non c'è niente che mi dica di stare lì e vivere la mia vita in quel luogo pieno solo ed esclusivamente di brutti ricordi e di un'infanzia e un'adolescenza buia e triste. Devo iscrivermi in una scuola nuova, chissà quanto dovrò studiare per arrivare al loro livello e chissà cosa e chi mi aspetta. Sapete quando avete una sensazione talmente forte da farvi credere che sta per succedere qualcosa di indimenticabile e che cambierà la vostra vita? Bene, per ora questa sensazione logora dentro la mia testa: A Manhattan, sono certa, cambierà tutto.
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