Capitolo Settimo (VII)

La nebbia oscurava il cielo coprendo la sua spettralità. Un bambino dagli occhi color cioccolato osservava il proprio giardino dalla finestra. Aveva un'incredibile voglia di uscire a giocare con Diego, il suo vicino di casa. Il ragazzino sbuffò infastidito e pigiò il naso sul vetro.

Sua madre passeggiava avanti e indietro ripetendo frasi complesse che il piccolo non riusciva a capire, mentre il padre cercava di fermarla alzando la voce. Il ragazzo cercò di isolarsi dal litigo, come sempre, e tornò ad osservare la nebbia intristito.

All'improvviso, Diego spuntò nel giardino. Il piccolo tentò di farsi vedere, ma sembrava che il suo vicino di casa fosse attratto da qualcosa. La nebbia.

Il bambino, curioso, sgattaiolò di nascosto fuori, ignorando gli ordini dei suoi genitori, e raggiunse il suo amico. Diego continuava a guardare la nebbia e non sembrava essersi accorto di lui.

- Diego! Sono io.

Il ragazzino, però, non sembrava nemmeno averlo sentito. Infatti, proseguì verso la nebbia e ci entrò, ignorando i richiami dell'amico.

- Diego? Diego!

L'amico sembrava essere sparito e il bambino si stava preoccupando. Improvvisamente la nebbia sembrò avanzare verso di lui, come se camminasse. Il ragazzo, spaventato, cominciò ad arretrare, ma distrattamente scivolò sull'erba umida.

Il bambino, ormai paralizzato dalla paura, non riusciva a muoversi. La nebbia continuava ad avanzare. Il piccolo serrò gli occhi, cominciando a piangere, mentre era certo di stare per fare compagnia a Diego.

All'improvviso, un forte calore si sprigionò dal suo corpo e la nebbia sparì, così come si era formata.

- Regan! Regan!

Il bambino, sorpreso, si sollevò da terra asciugandosi le lacrime e venne avvolto dalle braccia della madre. La donna cominciò a pronunciare una serie di parole confuse che il bambino sembrava capire, stavolta.

Il padre si avvicinò e guardò il figlio negli occhi. Regan spalancò gli occhi terrorizzato, la pupilla sembrava voler inghiottire il resto dell'iride. L'uomo fissava il figlio con un misto di disgusto e terrore.

- Sei come lei. Un maledetto!

Le urla del padre si confusero con le lacrime che avevano cominciato a sgorgare dai suoi occhi. Regan li chiuse: non voleva più guardare quell'uomo.

Regan sussultò sulla branda e si sollevò di scatto. La fronte imperlata di sudore e gli occhi spalancati: la tipica sfumatura cioccolato dei suoi occhi si era trasformata in un colore molto più scuro. Tentò di regolarizzare il respiro e sfiorò la collana che portava sotto la camicia. L'ultimo ricordo di sua madre.

- Stai bene?

Una voce flebile lo fece sobbalzare. Regan alzò gli occhi e incontrò la figura esile e pallida di una ragazza.

La ragazza della visione.

Gli occhi scuri di Regan tornarono al loro colore originario e il solito sorriso ironico gli dipinse il viso.

- Vuoi tentare di uccidermi di nuovo?

Vide la ragazza spalancare leggermente le labbra sottili prima di stringerle in una linea severa.

- Non ho tentato di ucciderti. Io non ho poteri, sei stato tu.

- Io? Oltre che un'assassina, sei anche pazza? - il tono di Regan si alzò di un'ottava.

Vide la ragazza indietreggiare, stringendosi nella coperta che le copriva le spalle, e spostare i suoi occhi a terra.

- Non li ho certo messi io così - osservò lei, mentre indicava qualcosa sul pavimento.

Intorno alla sua branda giacevano diversi strumenti di metallo insieme al carrello che li conteneva. Doveva essere stato lui, durante l'incubo. Erano anni che non sognava più quell'avvenimento.

- Ho fatto un incubo. Tu hai comunque tentato di uccidermi.

- Oh, ma sta' zitto! Ti ho detto che non posso fare queste cose! - Il tono della ragazza si era fatto più acuto e stridulo.

Un rumore di passi gli fece distogliere l'attenzione dalla donna. Il tipo che l'aveva portato in infermeria, insieme ad Alastor e Jack, aveva richiamato la ragazza. Lei, con fare nervoso, aveva guardato prima lui e poi l'uomo, acconsentendo alla sua muta richiesta. Infatti, la ragazza si girò, senza dire un'altra parola, e si accomodò su un letto a poca distanza da lui.

Solange, l'aveva chiamata.
Un nome insolito per una ragazza ancora più particolare.

Quando si erano incontrati nel salone aveva avvertito qualcosa di strano. Nessuno l'aveva mai fatto sentire così. Il mondo era diventato più brillante, più vivo, quando aveva incontrato i suoi occhi. Quella ragazza aveva colmato un vuoto che risiedeva in lui da anni con un semplice sguardo, prima che tutto crollasse come un castello di carte. Quella visione, il dolore che aveva provato guardando quell'uomo chino sulla tomba, lo perseguitava da giorni. Il malessere di quell'uomo sembrava il suo; il cuore sembrava essergli stato strappato dal petto. Quella ragazza, così delicata e pallida, nella sua visione era sconvolta e ferita da ciò che stava succedendo. Non riusciva a capire cosa li legasse. Regan non capiva perché avessero avuto quella visione insieme.

Su quel letto, di fronte a lui, la ragazza cercava di nascondere il volto tra le mani. I lunghi capelli le circondavano il viso, pallido ed emaciato, su cui risaltavano degli occhi scuri, simili ai suoi. Le labbra rosa erano anch'esse prive di colorito: non era l'unico ad essere rimasto colpito da quella visione.

Ma se non era stata lei a provocarla, chi lo aveva fatto?


***


Solange era confusa. Erano giorni che nessuno si faceva vedere in infermeria, a parte Jillian e T. Loro non erano stati in grado di spiegarle cosa fosse successo. Neanche Jack, l'amico di Regan, aveva saputo dire nulla. Jillian se ne era informata. Adesso Newman le aveva anche impedito di capire cosa Regan potesse aver fatto.

Pochi minuti prima, mentre leggeva, aveva sentito qualcuno mugolare. Aveva alzato gli occhi e aveva visto Regan contorcersi sul letto, mentre alcuni strumenti cominciavano a vibrare sul tavolo. Ad un certo punto, si erano sollevati tutti e avevano iniziato a ruotare intorno al ragazzo. Solange si era spaventata e non aveva avuto il coraggio di fare nulla. Quando, infine, era riuscita a muoversi tutto era caduto a terra, con un gran baccano, e Regan si era svegliato ansimando.

- Sol?

La ragazza rivolse la sua attenzione su Newman.

- Vuoi dirmi cosa succede? Altrimenti puoi andartene - Solange era stufa di non sapere.

Newman sospirò e le fece cenno di seguirla. I due si allontanarono dalla stanza e cominciarono a camminare per i grigi corridoi dell'infermeria. Lungo ogni parete c'erano delle brande, vuote in quel caso, pronte ad essere utilizzate. Solange le osservò stranita, ma non si fece poi tante domande. Doveva interrogarsi su altro.

- Non sei stata tu a generare quella visione e nemmeno Regan, - L'uomo fece una pausa - e, prima che tu me lo chieda, non ti serve sapere chi l'ha provocato. Devi capire che è stato fatto perché tu capissi le tue potenzialità.

Solange si fermò davanti all'uomo. - Quali potenzialità?

- Prova a concentrarti su te stessa, Sol, e a sentire.

- Sentire?

- Chiudi gli occhi e rilassati.

Solange fece come chiesto. Chiuse gli occhi e prese un respiro, regolarizzando il battito del suo cuore. Entrò in una specie di limbo, come ogni volta che voleva sentire al di là delle sue capacità. Un silenzio innaturale era calato intorno a lei. L'unico suono che avvertiva era il battito del suo cuore e l'aria che veniva ispirata e espirata.

- Ora apri gli occhi, piano.

Fece come detto. Sollevò lentamente le palpebre, non annullando quello stato di pace, e cercò Newman senza trovarlo. Si voltò, confusa, e vide Newman contro la parete, mentre una delle brande minacciava di schiacciarlo contro il muro stesso. Abbandonò spaventata il suo stato e l'oggetto, con un tonfo, si allontanò dall'uomo.

- Sono stata io? - Aggiunse in un sussurro Solange, il cuore che batteva forte nella cassa toracica.

- Esatto. Queste sono le tue potenzialità, Sol. Non sei una SenzaTerra, sei molto potente e devi solo scoprire quello di cui sei capace.

- Ma io non faccio parte di una Dinastia.

- No, hai ragione. Ma sei speciale e io sono qui per aiutarti. Se tu vorrai.

Solange annuì. Aveva bisogno di capirne di più e soprattutto di controllare quello che sembrava essere il suo potere. La spaventava particolarmente. Se era stata capace di far quasi del male a Newman, cosa poteva fare agli altri una volta scoperto tutto quello di cui era capace?

Quando l'uomo si allontanò, promettendole di tornare presto per allenarla, Solange rimase con i suoi pensieri e le sue paure, attanagliata dal terrore di poter fare del male alle persone a cui voleva bene. Rientrata nell'infermeria, Solange rivolse uno rapido sguardo a Regan. Il ragazzo era disteso sul letto e osservava il soffitto ad occhi aperti. Avrebbe voluto continuare il loro discorso, ma aveva altri pensieri in quel momento. L'ultimo di questi era capire se anche lui avesse avuto la sua stessa visione.


***


Il Maestro, con un gesto della mano, scaraventò uno dei suoi uomini dall'altra parte della stanza, facendolo scontrare con il muro ed emettere un urlo soffocato.

- Incompetenti.

Sibilò tra i denti, buttando a terra tutte le carte che aveva sul tavolo.

- Siete inutili! Avevo chiesto una cosa!

Tuonò nervoso, voltandosi verso i suoi uomini. Indra sedeva sul divano, nello studio dell'uomo, con le gambe incrociate e una limetta tra le mani intenta a sistemarsi le unghie. Il discorso che l'uomo stava facendo non la riguardava minimamente. Un'altra delle guardie venne sollevata da terra dall'ira furibonda del Maestro e per poco non le finì addosso.

- Insomma, sono impegnata qui! - squittì infastidita.

- Non pensare di essere immune, Indra! Dove sono i tuoi progressi?

La donna sorrise sorniona. - Sta per entrare da quella porta, il mio progresso - fece una pausa ad effetto - e, poi, ho un infiltrato tra gli alunni. Non devi dubitare di me.

Il Maestro sorrise, in mezzo alla rabbia, e congedò il resto delle guardie che si guardarono con sollievo tra di loro. L'uomo, più calmo, si accomodò alla sua scrivania.

- Quella piccola streghetta non deve capire nulla, è chiaro? Nessuno di loro deve capire nulla. Non possiamo permetterci un altro fallimento.

Indra annuì e riprese il suo lavoro di manicure: era meglio che Newman si sbrigasse con il suo lavoro, il Maestro sapeva essere fin troppo esigente.

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