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Nessuna speculazione teologica avrebbe potuto spiegare quella visione.
Amara e Fasto si prostravano con le ginocchia nella sabbia, affondavano le mani nei sottili granuli e sentirono venir meno il coraggio di guardare. Lembi delle vesti leggere di Amara fluttuavano al vento, irradiandosi a fasci dietro di lei. Anche l'oracolo, agli occhi di Fasto, faceva parte di quel paesaggio onirico, come se fosse in un posto adatto a lei.
I Santi non vedevano, perché non avevano occhi, né parlavano, perché non avevano bocca, né orecchie. Non avevano mani, né un corpo. I Santi erano pura energia distribuita in modo sferico, deformativo. Non si aspettavano che fossero tridimensionali, luminosi sì, ma non così silenziosi. Non emettevano alcun suono, aldilà di questi nulla sembrava importante.
Oh, mia Dea, dove sei? Non ho forze per continuare a chiamarti. Ti supplico... Fatti vedere. Amara si lasciò andare allo sconforto.
Fasto non sapeva cosa dire. Anch'egli aveva intonato le preghiere più lusinghiere, più stancanti, ma a nulla era servito. Tutto quello che si aspettavano di trovare nei Santi – connessione, spiritualità, contatto diretto con la dea – non c'era. Ma una cosa era chiara: i Santi erano porte per qualunque luogo ci fosse aldilà.
«Uno di noi deve entrare» disse allora il Gran Sacerdote. «E uno deve restare per tornare indietro a rassicurare il popolo, o a Petrosa scoppierà il caos.»
Amara lo guardò con le palpebre gonfie e le labbra viola, secche di sale e tristezza. Fasto intercettò nei suoi occhi la paura di una ragazza semplice, di un oracolo finto, buono solo per l'immagine.
Amara chinò la testa, facendola quasi ciondolare. «Vado.»
«No, andrò io» dichiarò l'altro, con i muscoli delle gambe tremanti. Aveva la fronte imperlata di sudore, e Amara capì che quella sarebbe stata l'ultima volta che l'avrebbe visto. Non tentò di fermarlo.
Nulla era distinguibile all'interno dei Santi; le distorsioni nel loro centro erano insondabili. Insieme, essi si presentavano come sfere sospese sulle ultime dune prima della cresta montana che divideva il deserto dalla costa.
«Amara,» Fasto le venne incontro e le afferrò le mani. Le giunse in preghiera e le spinse contro il petto di lei «siamo arrivati a destinazione. Dopo questo... Solo la Dea sa cosa mi aspetta. Ma qui finisce ogni umana comprensione. Io non so se la troverò, in verità, nessuno sa perché Sol sia sparita. Il clero finge di saperlo; astrae motivi inesistenti per confondere Petrosa.» Quella confessione balbettata, quelle parole disperate, gettarono Amara nella più totale costernazione. La ragazza iniziò ad ansimare per l'angoscia, le sclere le divennero iniettate di sangue.
«Buon viaggio, trova la via del ritorno» pianse Amara, vedendolo avvicinare incerto a uno dei Santi. Uno qualsiasi, scelto senza criterio, come l'intero viaggio.
Il Santo sembrava qualcosa di vivo e di morto allo stesso tempo. Silente, la sfera luminosa esibiva nella sua immobilità e simmetria. Ingoiò il corpo del sacerdote. Amara lo vide scomparire nella luce; sembrava che quel trapasso succhiasse via la carne e la vita. Fasto urlò di dolore durante il passaggio, poi il silenzio.
Amara rimase sola nel vento. Si tirò all'indietro il cuoio capelluto, strappandosi qualche lungo capello. L'ansia la pervase.
Perché non ti sento, Madre? Perché non ti ho mai sentita davvero? Perché hai lasciato morire i miei compagni di viaggio?
Allora Amara fu tentata di salire sulla navetta e non tornare indietro, bensì andare avanti, oltre la bassa catena montuosa.
I popoli selvaggi... Forse loro sanno qualcosa in più dell'ignoranza in cui vive Petrosa! Rifletté rabbiosamente. Io a che servo, arrivata a questo punto? Dovrei tornare tra la mia gente e continuare a fingere? Mi farebbero certamente continuare a mentire, dire che la Dea ha parlato e che andrà tutto bene. No... Io mi rifiuto di tornare senza aver tentato qualcosa in più.
Tremava di paura. Non era mai stata sola, mai così isolata. Arrivata a quel punto, sentiva affievolire il suo istinto di sopravvivenza, ed era proprio quello che la spingeva ad osare.
Salì sulla navetta e viaggiò in linea retta. L'energia giroscopica del mezzo riuscì a risalire e ridiscendere la catena attraverso un passo sicuro, così si lasciò alle spalle le cime a calanchi, erose da antiche piogge acide.
Amara si rese conto di essersi addormentata solo quando il mezzo si fermò senza motivo. Il sole stava sorgendo. Scese a tentoni, colta da una stanchezza misteriosa. Se davanti ai Santi non le erano cadute le gambe, le forze la abbandonarono in quel momento di fronte a quello che vide. Il convoglio levitante si era fermato al limite di una via spianata di grigio, larga, poteva accogliere quindici carri fianco a fianco. All'orizzonte, Amara vide un'opera mastodontica, come una piramide a gradoni, ma a pianta circolare, ergersi scura alla base e metallica ai piani alti. Lastre di quel materiale da rivestimento si avviluppavano in un'architettura sconosciuta, che mise in crisi il senso etico ed estetico di Amara.
Questi non sono popoli selvaggi. Anche questa era una bugia del tempio, per tenere il popolo soggetto al potere clericale?
Iniziò a correre a perdifiato verso quelle strutture, articolate in edifici ovoidali più piccoli, disposti in semicerchio rispetto al monte artificiale. Tutto brulicava di attività, si distinguevano figure e mezzi in movimento.
Amara correva e sentiva il petto bruciare, stretto dalla paura e dall'adrenalina. Stringeva alla coscia l'unica arma più utile che aveva recuperato dal vano bagagli della navetta, un lungo pugnale di ossidiana. Non sapeva che sarebbe servita a meno di niente, contro le più avanzate tecnologie di quelli che si credeva fossero selvaggi.
Il complesso non aveva sistemi di difesa visibili, Amara correva e vedeva persone farsi sempre più vicine: erano indaffarati, chi alla guida di mezzi ignoti, chi a mezz'aria su palchi di ristrutturazione, chi a piedi diretto verso porte e porticati. Soprattutto, vi erano nuvole di piccoli dispositivi levitanti, come insetti da ricognizione, in circolo sulle varie cerchie concentriche verso l'alto.
«Ferma.»
Amara si arrestò, con occhi sbarrati. Una voce metallica e impersonale le aveva ordinato di restare dov'era, a poche centinaia di metri da quello che sembrava uno dei tanti ingressi alla megastruttura. La ragazza guardò verso il drone, paralizzata. Una spia luminosa precedette l'arrivo di quelli che dovevano essere i guardiani dell'ala est.
Amara, scompigliata e con le vesti leggere e sporche, si trovò al cospetto di due esseri altissimi, di età differenti, vestiti con stoffe aderenti, a maglia strettissima, che mai avrebbero raggiunto Petrosa. Erano a piedi e non sembravano ostili.
«Chi sei, creaturina?»
Amara esitò. «Sono l'oracolo di Petrosa. Sacerdotessa della dea Madre.»
«Dea madre?» fece uno, grattandosi una barba ispida. Poi sembrò avere un'illuminazione. «Sol? Cerchi per caso Sol?»
«Come osi pronunciare il Suo nome,» si affannò la ragazza, con gambe tremanti «io... io sola ho il diritto di comunicare con Lei. Ma non so dov'è, non so...» si confuse. Gli sguardi divertiti dei suoi interlocutori, due eloah del dipartimento infrastrutture, la misero in crisi. Allora uno di loro prese parola e non fu delicato.
«Sol è ai laboratori del sesto piano. Solitamente a quest'ora fa il cambio turno, seguimi.»
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